Intervista a Vinicio Capossela, di Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2009

A vederlo così, modello base non accessoriato, senza costumi sberluccicanti, fuori dal suo circobarnum di trapezisti, domatori, maghi, mangiafuoco, scimmie in uniforme, unicorni, licantropi, renne e babbinatali, megafoni e organetti a manovella, piumaggi e pennacchi, Vinicio Capossela è un ragazzo maturo che sembra timido perché non si leva mai il cappello scuro e si arrotola continuamente un ricciolo della barba nera. Ma è tutt’altro che timido: parla deciso come un libro stampato. Un libro polveroso di un altro tempo ma senza tempo, perché evoca un passato che non esiste, o forse non è di questo mondo. Da un anno gira i teatri d’Italia col suo “Solo Show”, ora raccolto in un cofanetto con il dvd “Alive” e un cd di canzoni ai confini della realtà, anzi ben oltre. Sottotitolo: “Tutto vivo niente morto!”. Un programma di vita.

Se lo leva mai, il cappello?
Mai. Ho sempre paura di perdere qualcosa, gli oggetti, i ricordi. Fatico ad andare a tempo e allora mi porto sempre dietro tutto. Il cappello è il tappo per tener dentro ogni cosa e impedire l’evaporazione dei ricordi.

I ricordi non sono anche una comoda fuga dall’oggi?
Per me no. L’oggi è sempre un regalo, infatti si chiama presente.

Lei nelle sue canzoni infila tante citazioni che alla fine è impossibile distinguere ciò che è suo da ciò che è altrui.
Le citazioni sono ami per catturare l’attenzione delle persone che poi devono andare avanti da sole per completare la storia. Raccolgo tutto, accatasto, ammucchio. Poi cerco il pezzo di ricambio giusto per la riparazione. Quello che più amo è il motto, la frase tipica, il linguaggio. Che è l’unico posto dove mettere, se non la vita, la tua visione della vita. Mi diverte ascoltare i mille dialetti, forse perché sono figlio di una piccola diaspora.

I suoi genitori sono dell’Alta Irpinia, ma emigrarono ad Hannover dove nacque lei, che però vive a Milano anche se è residente a Scandiano, nel reggiano. Tutto molto complicato.
Non proprio Scandiano: Ca De Caroli, una frazione. A fine Ottocento c’era la fornace di una manifattura, si respira l’aria di una cittadina mineraria, una piccola Manchester. Lì siamo tutti molto spiritosi, cantatori e ciarlatani.

E allora perché abita a Milano?
Perché non mi è mai piaciuta. E’ una città un bel po’ morta, nessuno accetta di vivere in un posto così. Ti condanna a una solitudine reiterata, ti allontana da tutti senza darti una meta in cambio. Ma favorisce il mio disegno, mi regala clandestinità interiore e autoemarginazione. Non capisci mai se è un rifugio o una prigione. Ci sono dei posti che finisci per essere quei posti, tipo Bologna. Milano no, Milano è un vuoto da riempire, un teatro dell’assenza. Quando un posto non è bello, ti ci costruisci la tua geografia emotiva. Io vivo ai margini della Stazione Centrale, il più grosso mobile decò d’Europa. Ho molti più punti di contatto con i tram e le rotaie che con la Moratti.

Motivi politici?
Mah, parola grossa… La Moratti ha fatto l’ecopass pensando si possa combattere lo smog con metodi estorsivi. Non ti dice: non prendere l’auto. Ti dice: prendi l’auto, ma paghi. Così multa chi va col camioncino a fare le consegne, e non chi sputazza veleni col Suv. Intanto si scava dappertutto per fare parcheggi, invece di piste ciclabili e zone pedonali. E’ un po’ la logica del “processo breve”: non danno i mezzi ai giudici per fare processi più rapidi, fulminano i processi a metà strada.

La musica, la canzone può cambiare le cose?
All’inizio la canzone impegnata mi piaceva molto. Diceva cose importanti, spazzava via tutti gli orpelli, era legata a quei tempi. Fabrizio De André è stato fra i pochi a riuscire a diventare da testimoni del suo tempo a coscienza di una stagione. Ma io non ho mai sentito di appartenere a un tempo. Sono un apolide del tempo e non potrei mai essere testimone né tantomeno coscienza di un tempo che non sento mio. Però chi riesce a diventarlo fa bene a impegnare le sue canzoni, anche se temo che questi siano tempi senza coscienze. Una volta le voci si distinguevano di più, oggi è difficile eleggere dei portavoce. Come scriveva Céline, “ogni buco di culo si guarda allo specchio e vede Giove”…

Le piace Céline?
E’ il mio scrittore preferito per l’uso che fa della lingua. La sua parola è musicale. Anche lui adorava le canzoni vecchie.

A che serve una canzone?
E’ un ottimo strumento per lasciare le cose a metà: tu metti i puntini e chi ascolta li deve congiungere, come nella Settimana Enigmistica. Non succede così con la scrittura: è troppo precisa, lo scrittore ti tira troppo dentro nella sua vicenda. Il cantante non può, la canzone non deve essere esatta.

Non lo sa nemmeno lei che significano le sue canzoni?
Io lo so perfettamente, ma per gli altri il senso può esser diverso. La canzone dev’essere evocativa, essere recepita da chi la abita. Non spiega: provoca un’emozione. Evoca momenti vissuti o ancora da vivere. Non basta ascoltarla, va fatta propria. E’ un artificio emotivo.

Per questo lei è sempre immerso fra strumenti strambissimi?
Gli strumenti musicali sono come tanti cappelli che ti danno il timbro. Quando scrivo una canzone mi diverto a imbandire il banchetto e a pensare chi inviterò al matrimonio. Gli ottoni sono padri di famiglia che la sanno lunga e danno buoni consigli. Gli archi sono più narcisi, epici. Poi ci sono il teremìn, cioè la sega musicale, il cristalloarmonio, cioè l’organo a bicchieri e così via: spettri inconsistenti. Ti affidi alla timbrica per completare il disegno, regali vie di fuga alle parole tracciate e sparse.

Battiato mi ha detto: quest’estate mi sono incazzato per quel che diceva Berlusconi sui suoi festini e ho scritto “Inneres Auge”. A lei è mai capitato?
Non scrivo mai canzoni perché mi incazzo. Deve succedere un evento emotivo. Inizialmente le scrivevo nella fase finale di un amore. Poi ho smesso di pescare dalla mia vita e ho cominciato a prendere da storia, geografia e scienze. Come nel sussidiario delle scuole elementari.

Storia, geografia e scienze?
Sì, io non ho mai fatto la guerra, ma rielaboro l’immaginario e i residui che la storia ci ha lasciato. Case già abitate, vecchi pianoforti, mobili di legno, segni del passato prossimo. Mi sento oberato dal tempo, ma contemporaneamente riesco a fare molte cose. Subisco il fascino del mito, lo puoi adattare a molte cose. Mi affascina il tempo verticale del mito: non c’è mai il divenire del tempo orizzontale, è un eterno presente. Ecco, io cerco sempre di ribaltare la linea orizzontale verso il verticale, come Atlante. Per andare avanti bisogna lasciarsi qualcosa indietro, è un sacrificio, una ferita che cerco di lenire trasportando le cose in un tempo mitico. De André ci riusciva, partendo da un tempo molto contingente.

Non cita mai altri cantanti, ma De André sì: è il suo preferito?
Ogni chiave ha la sua stanza. Io per esempio ho ascoltato Matteo Salvatore più di tutti gli altri: è stato la mia chiave di accesso a un vecchio mondo fatto di freddo, vento, fame, miseria, lupi mannari. Il testimone dello sfruttamento nella società contadina.

Ma il passato delle canzoni di Capossela è mitologico, non è mai esistito. E’ come lo “Strapaese” di Leo Longanesi.
E’ vero, il mio passato non esiste. Gliel’ho detto che ribalto l’asse del tempo. Il passato può essere strettissima attualità. Ma pure i versi di un salmo ti parlano di qualcosa che sta succedendo anche adesso.

E’ religioso?
Subisco il fascino, oltreché del mito, del rito. Mi sento animista, non nel senso delle religioni africane: mi relaziono con le cose come se avessero tutte la loro anima. Però mi interessano solo le religioni monoteiste.

Nel suo tempo verticale, hanno un senso parole come destra e sinistra?
E’ paradossale: viviamo in un paese che, a parole, sembra radicalizzare al massimo la destra e la sinistra in una perenne infiammazione politica. Ma solo in teoria. Poi vai a vedere i programmi e, stringi stringi, tutta questa differenza non la trovi.

Ma lei ci va a votare?
Sempre: il mio seggio è nella mia vecchia scuola elementare di Ventoso, altra frazione di Scandiano come Ca De Caroli.

Vota per rivedere la sua scuola?
No, per rispettare il voto degli altri. Dalle mie parti i vecchi comunisti, cioè i vecchi, dicono: “La sinistra l’è sempre stè un partì d’opposissiòn”. Ma lì il potere è sempre stato della sinistra, cioè dell’“opposissiòn”. Io da piccolo nemmeno ci credevo che esistessero i democristiani. Non ne avevo mai visto uno.

A fine gennaio lei sarà sul treno per Auschwitz con centinaia di studenti del modenese e altri artisti e scrittori. Come si prepara?

Come dice Primo Levi, se una cosa è accaduta vuol dire che può accadere sempre. Fare memoria significa affacciarmi al pozzo che c’è in fondo all’uomo. Sul treno credo che leggerò, forse ad alta voce, il libro di Giorgio Agamben “L’archivio e il testimone”. Che sarebbe stato Auschwitz senza la testimonianza dei sopravvissuti? Tutta la storia è la testimonianza di chi ce l’ha trasmessa. Poi quando arriveremo, la seconda sera, faremo un piccolo concerto in un teatrino: intoneremo vecchie canzoni con un piano e un vecchio grammofono, come la “Rosamunda” e gli altri brani allegri che – racconta Levi – suonavano nel lager per i prigionieri. Tragicamente grottesco.

Hanno mai cercato d’intrupparla politicamente? Di coinvolgerla in qualche battaglia politica?
Preferisco impegnarmi su piccoli obiettivi. Una volta, chiamato da Paolo Rumiz, ho fatto il masaniello per le panchine di Trieste: una giunta folle voleva sradicarle per impedire ai barboni e agli immigrati di sdraiarsi. Un’altra volta sono andato a protestare contro la discarica del Formicoso, nel gran granaio dell’Alta Irpinia.

Battaglie vinte?
Chi può dirlo. Contro il silenzio e l’indifferenza si vince sempre. Però è diseducativo rivolgersi a questo o quello per dare visibilità a una battaglia.

Sarà, ma se certe battaglie non le prendessero a cuore Beppe Grillo, o Dario Fo e Franca Rame, sarebbero perse in partenza.
Lo so, infatti ogni tanto assecondo questa tendenza. Ma è ingiusto che un uomo di spettacolo venga usato per dare appeal mediatico a chi lotta ogni giorno per una causa giusta. Un problema deve avere visibilità perché è serio, non perché lo sponsorizza il tale. Altrimenti è la resa alla società del reality.
(Foto di Ivan Marcialis da flickr.com)



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