Lunedì 19 Settembre 2005 Chiudi
A Venezia la fragilità del Senatùr lascia spazio ai duri che si lanciano in un festival dellinvettiva anti-islamica e degli altolà
«Senza devolution, Lega via dal governo»
Ultimatum di Maroni e Calderoli. Ma Bossi: pazienza, il federalismo sta arrivando
dal nostro inviato
RENATO PEZZINI
VENEZIA Meno male che cè Borghezio. Meno male per i leghisti, naturalmente, che col secessionista piemontese trovano ancora un appiglio per applaudire, gridare, esultare, sfogare le loro misteriose ire e dare una qualche ragione alle tre ore passate sotto la pioggia impietosa che cade su Venezia. Se fosse per Bossi, avrebbero poco da esultare. Nei pochi minuti passati alla tribuna della festa padana, il capo leghista mostra tutta la sua fragilità. La malattia ostenta le sue malefiche conseguenze, il capo è stanco, spaesato, esausto. I suoi sono frammenti di un discorso, brandelli di ragionamenti, accenni indecifrabili a una linea politica invisibile e che, per di più, deve fare i conti con una base che sembra stare altrove. «Secessione» invocano i militanti arringati da Borghezio. «Pazienza», replica timidamente Bossi qualche minuto più tardi. Che è il suo modo di chiedere calma e cautela, di dire che i quasi cinque anni di governo hanno avuto un significato se la devolution non subirà agguati alla Camera, come dicono anche Maroni e Calderoli minacciando una fuga dal governo in caso di tradimenti degli alleati.
«Il federalismo è alle porte, arriverà», dice il leader padano. E, malgrado la voce roca, lo dice come se un momento storico fosse alle porte, come se la sua personale missione politica si stesse compiendo definitivamente , e come se la preveggenza di quelli che chiama i grandi meridionalisti del passato si stesse avverando ». Nientaltro. Se non labbraccio affettuoso di una piazza poco interessata alle sue parole e molto aggrappata alla speranza che il capo non rimanga il capo dimezzato quale oggi mostra di essere.
Il guaio, per la Lega, è che per il momento quel vuoto lasciato dalla malattia del capo non viene riempito dalla politica, ma da un festival dellinvettiva sbracata a cui partecipano comparse che fanno a gara a chi la spara più grossa, a chi primeggia in volgarità, a chi elabora la proposta più balzana sperando nellovazione di una base che non va tanto per il sottile. Una volta, prima della malattia di Bossi, era solo Borghezio a permettersi questo lusso. E il suo era un gioco funzionale alle mosse del capo. Adesso, in mancanza di una guida strategica, impazzano gli imitatori di Borghezio, come il capogruppo al Senato - Pirovano che ricorre al turpiloquio proprio come fanno i bambini per sentirsi grandi, o quello alla Camera Gibelli che si esibisce in una ammuffita tiritera anti-islamica, o il vice-sindaco di Treviso Gentilini che insignito dellonore di parlare subito dopo Bossi regala insulti a tutto e a tutti per arrivare a dire che lui pretende «il controllo sui phone center». Fino ad arrivare a Rosi Mauro, sedicente sindacalista che (avendo tre ministri alle spalle) esordisce così: ».
Insomma, un caos totale. Nel quale chi prende la parola per lanciare qualche messaggio politico rischia di annegare nel mare della sguaiataggine. E il caso di Bobo Maroni, pure lui costretto ad alzare la voce per tornare a proporre «il referendum contro leuro» e ricordare che « se la devolution non sarà approvata, la Lega uscirà dalla maggioranza un minuto dopo. Per noi è lora di passare alla cassa, e mi auguro che il vecchio spirito democristiano non prevarrà facendo il gioco delle tre carte». Anche Calderoli prima di una sparata acchiappa consensi contro culattoni e pedofili- rinverdisce la minaccia agli alleati. Ma le loro parole, peraltro non inedite, sono tutto ciò che di concreto restituisce il giorno dedicato al rito dellampolla. E questo spettacolo desolante non è certo un bel regalo per Bossi alla vigilia del suo sessantacinquesimo compleanno.
Messaggero