IL FILOSOFO
Botturi: urge confronto leale, senza strillare per «lesa laicità»

Chiesa, diritto di parola

«E vero che lo Stato non ha una posizione da propugnare, salvo i valori stabiliti insieme; però ogni soggetto sociale deve poter affermare la sua verità»


Di Giorgio Bernardelli

Un «corto circuito» da smontare. Per restituire alla laicità dello Stato il suo ruolo di garante di tutte le voci. Il professor Francesco Botturi, docente di filosofia morale all'Università Cattolica di Milano, inquadra così il dibattito nato in queste ore intorno al diritto di parola della Chiesa nel dibattito pubblico innescato dalla contestazione contro il cardinale Camillo Ruini avvenuta venerdì a Siena. «Mi pare che il nodo centrale sia il problema della lealtà del confronto - commenta -. Si trattano con tono polemico questioni delicate, decisive per il futuro umano».
Lo si fa sbandierando la parola laicità.
«C'è una grande confusione (e a volte, mi sembra, non innocente) nell'uso di questo termine. Laico è lo Stato, che non è preposto a difendere una verità pubblica prestabilita, ma a proteggere quei valori, peraltro rivedibili, che la comunità ha stabilito per via costituzionale o legislativa. Questo non chiude, ma apre il dibattito. Ricordo il rabbino capo di Francia, Emmanuel Sirat, che qualche tempo fa diceva, a mio parere acutamente, che a differenza dello Stato, "la società non è laica". Ogni soggetto sociale ha il diritto di esprimere la sua posizione e ha diritto alla pretesa della sua verità. E questo vale ovviamente anche per i capi di una comunità religiosa».
Anche le loro voci plasmano il dibattito pubblico?
«In una società pluralistica qualificata ci sono un relativismo e un assolutismo inevitabili entrambi e per chiunque: c'è il relativismo della comunicazione sociale, in cui ogni tesi si definisce in rapporto in rapporto alle altre; ma c'è anche l'assolutismo di ciascuna posizione presa in se stessa. Quando X dice: io non credo in alcuna verità, questa è comunque un'affermazione assoluta. Nessuno può pensare di sottrarsi a questo vincolo. Ne va della possibilità del confronto. Normalmente, invece, si gioca col concetto di "laico", confondendo il non essere "cattolico" con l'essere in accordo con la laicità del lo Stato. È un gioco scorretto: l'essere "laico" è una posizione culturale di parte, come ogni altra, che non può dare a se stessa una garanzia di correttezza e legittimità equivocando sul senso della laicità. Il "laico" interviene a pari titolo di chiunque altro nel dibattito della società pluralista, reso possibile dalla laicità dello Stato».
Il tema degli affetti oggi è tornato al centro dell'etica pubblica. Perché?
«È una delle caratteristiche culturali del nostro tempo: la rilevanza politica delle grandi questioni antropologiche è divenuta più immediata. Sono messe in discussione le forme tradizionali di regolazione delle esperienze antropologiche fondamentali (il nascere, la relazione sessuale, la morte). Il caso del matrimonio è particolarmente evidente: fino a cinquant'anni fa l'ovvia regolazione sociale della relazione sessuale era considerato il matrimonio pubblicamente celebrato tra un uomo e una donna per costituire una famiglia. Oggi non è più così. Si sono messi in movimento degli strati profondi della nostra autocomprensione».
Qual è la posta in gioco?
«Quella che Giovanni Paolo II definiva la questione sull'humanum: che cosa è davvero degno dell'uomo? È una domanda di fronte alla quale il relativismo mostra il suo vero volto: ripropone i problemi senza nessuna traccia di soluzione. Dire che ognuno la pensa a modo suo sta a significare che non c'è alcuna identità umana. Ma assumere questa tesi mi pare piuttosto problematico. Per questo è così essenziale oggi la lealtà del confronto: vita, morte, relazione, famiglia, educazione, non sono ambiti con cui possiamo giocare, definendoli ad arbitrio».
Dunque è proprio di un confronto realmente laico che ci sarebbe bisogno?
«Bisognerebbe rendersi conto che le questioni sono profonde e quindi non le si può liquidare con l'accusa di "lesa laicità". La sproporzione tra il problema e l'atteggiamento è clamorosa. Il nesso tra relazione affettiva e riconoscimento g iuridico, ad esempio, va preso sul serio. Per evitare la pretesa di trascrivere giuridicamente quelli che sono desideri puramente soggettivi. Ci ci chieda: qual è il bene che si vorrebbe tutelare? E quale tutela è proporzionata a quel bene? Non si può procedere con il cortocircuito tra desideri e riconoscimento giuridico: siccome io lo faccio, tu devi riconoscermelo. La laicità di uno Stato non ha questo scopo».

Avvenire - 27 settembre 2005