Il desiderio di rivedere Verona, dopo circa quattro lunghi anni di lontananza, si era mostrato con tale urgenza che domenica, incoraggiato da affettuosi amici veneti, ho deciso di partire da Torino per ritrovare la bella e delicata città che riposava dolcemente nella mia memoria.
Non sarò all'altezza, e me ne scuso già da questo istante, di tradurre in parole quel sapore nauseante e disgustoso che ho assaggiato con amara e sconcertante ripugnanza prima ancora di annusare l'aria fuori dalla stazione. Ho viaggiato molto nella mia vita, sia in vesti professionali che in quelle da turista, ma nel mio passato non c'è ombra di quel violento straniamento emotivo che ieri ha assalito con sorpresa la mia anima. Vivendo a Torino ho imparato con sicurezza quasi scientifica che ogni stazione ferroviaria rappresenta a tutti gli effetti un microcosmo della città di cui è parte. Anche in questo caso, l'implacabile legge non ha disilluso le più disperate ipotesi: gruppetti di negroidi molleggianti e muniti di catene e divise XXL d'ordinanza ciondolavano a muso duro insieme ad albanesi, rumeni e zingari di ogni risma, dalle gote schifosamente arrossate, muniti di luridi stuzzicadenti tra i denti e sguardi bavosi verso ogni creatura anche vagamente femminile.
Non riuscivo a spiegarmi, e fatico ancora oggi, come fosse possibile che una città così sensibile alle tradizioni e alla difesa della propria identità, possa essersi lasciata ingannare da squallidi strozzini che, nel santo nome del giudaico profitto, sfruttano il lavoro (in nero ovviamente) di questi subumani senza patria e senza dignità, null'altro che impietose caricature umane buone solamente ad essere derise o del tutto annientate.
Verona, fragile e amata Verona. Ieri si limitavano a sfiorare il seno della tua bella Giulietta, oggi le infilano un dito culo. E ridono, ridono di gusto.