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    Andrea Anselmo

    IL SIMBOLISMO POLARE
    E LA TRADIZIONE ARTICA
    La terra di Thule e la mitica età dell’oro






    I parte

    Se si volesse rintracciare nella Tradizione un elemento di assoluta sacralità che accomuni le forme spirituali dei popoli indoeuropei non si potrebbe trascurare il mitico continente iperboreo dove, sempre secondo la Tradizione, gli antenati degli indoeuropei vissero quella esistenza in senso superiore che molti autori classici Greci e Romani chiamano “Età dell’Oro”. Questo leggendario continente situato all’estremo Nord del mondo era chiamato terra di Thule ed essa era la patria degli Iperborei, che secondo la leggenda furono dei semi-dei, primi antenati degli indoeuropei. Da Thule deriverebbe secondo la mitologia Greca, Apollo, divinità solare per eccellenza e vedremo che la solarità che deriva da Thule non è per nulla casuale. L’età dell’oro viene descritta, ad esempio da Esiodo e da Virgilio, come un’era in cui i primi uomini vissero un’esistenza di tipo semi-divino, lontana dalle fatiche del lavoro e consacrata ad una esistenza rituale, nel senso che specificheremo in seguito, superiore a qualsiasi civiltà umana venuta in ere successive. La summa delle esperienze che questi iperborei conobbero presso Thule è detta Tradizione e i germi di quest’ultima sarebbero destinati a risiedere addormentati nel sangue dei loro discendenti nei secoli successivi, pronti ad essere risvegliati attraverso il rituale dell’iniziazione. Thule, dopo la fine dell’età dell’oro, diventa irraggiungibile ed introvabile per chi non è degno di arrivarci e inoltre nelle descrizioni mitiche è spesso rappresentata come una montagna in mezzo al mare (si parlerà nei prossimi articoli del simbolismo della montagna). Nelle ere successive a quella dell’oro gli unici che potranno raggiungere Thule saranno i guerrieri attraverso una morte eroica sul campo di battaglia.

    Negli ultimi due secoli queste antiche leggende, che sarebbe una colpa considerare solo tali, furono esaminate e comparate nelle loro differenti versioni a seconda del ceppo indoeuropeo che le tramandò. In questo senso hanno lavorato autori come G.Dumezil, R. Guenon e J. Evola, scandagliando tradizioni e miti spesso degenerati in forme folkloristiche, in tutte le aree di influenza indoeuropea, riscoprendo analogie linguistiche, culturali e spirituali a tratti sorprendenti tra cui la succitata “Tradizione Artica” che ruota attorno alla leggendaria Thule, la terra degli antenati di tutti gli indoeuropei che vista in chiave moderna, potrebbe essere la “fatherland” di chi oggi, Nobile Europeo, non vuole assoggettarsi all’omologazione della società mondialista e multirazziale. R. Guenon oltre a scrivere numerosi libri di stampo tradizionale con riferimento alle leggende sull’estremo Nord (Il re del mondo, Crisi del mondo moderno) fece conoscere in Europa uno studioso indiano, Tilak, esperto di antichi testi sacri indù che col suo libro “L’origine artica dei veda” confermò la tendenza ad una riscoperta della Thule. I veda sono infatti i più antichi testi sacri indù che riportano la religiosità degli Arii, una popolazione indoeuropea proveniente dal Nord (quindi dalla pelle bianca) che invase la penisola indiana intorno al 1500 a.c. istituendo il sistema delle caste, che anticamente significavano “colore”, riferito al colore della pelle, ponendo ai gradi più bassi gli autoctoni dalla pelle scura e ai gradi più alti (guerrieri e sacerdoti) gli invasori Arii (vedremo come questa divisione non sia una forma di discriminazione razziale ma bensì una sistemazione organica in cui ogni casta incarna la propria funzione in base alle proprie caratteristiche spirituali e materiali, proprie della stirpe di appartenenza). I veda antichi sono quindi la raccolta della “religio” del popolo Ario, una religiosità di tipo uranico ed olimpico (che cioè credeva nell’esistenza di divinità che risiedevano in una realtà posta “fisicamente” al di sopra della terra). Tilak studiando minuziosamente i Veda ritrovò numerosissime descrizioni di fenomeni celesti che si potevano rilevare soltanto all’estremo Nord del mondo. Per esempio in alcuni passi si parla di una notte e di un giorno che durano sei mesi, oppure in altri passi, si parla della posizione di alcune stelle, come la stella polare ma in posizioni che non sono osservabili in India ma solo al Polo nord (la stella polare viene infatti descritta nei Veda posizionata nello zenit “come l’asse del mondo”) oltre che dell’arrivo di un anno il cui inverno dura dieci mesi e la cui estate solo due. Tutte questi esempi non possono essere casuali e provano che effettivamente gli Arii derivassero dall’estremo Nord del mondo, dando così una veste più realistica alla leggenda di Thule. Ma Tilak non si ferma qui e rintraccia analogie di questo genere anche presso la religione Iranica e presso alcuni filosofi presocratici come Anassimene. Un altro studioso, L. Wirth, compie lo stesso tipo di indagine analizzando il “Crepuscolo degli Dei” nordico, il “Ragnarokk”, giungendo a conclusioni simili a quelle di Tilak e in Italia Renato del Ponte rintraccia un simbolismo Artico nella religiosità, nelle misurazioni del tempo e nel simbolismo urbano di Roma antica. Si scoprì quindi che il mitico Ragnarokk nordico presentava, come i Veda, descrizioni di fenomeni celesti che si possono rilevare solo al Polo ed inoltre descrive, attraverso il mito del crepuscolo degli Dei l’arrivo dell’ultima glaciazione, ovvero dal nostro punto di vista la fine dell’età dell’oro e l’abbandono della Terra originaria, che costringerà gli indoeuropei a spostarsi in continuazione in cerca di terre ospitali . Una di queste è il Lazio, dove la tribù dei Latini fondò Roma antica. E’ interessante notare come anche nella religione delle origini Romana e nel sistema di misurazione del tempo in vigore nei primissimi periodi emerga un simbolismo polare stupefacente che sarà oggetto di una trattazione specifica in futuro. Possiamo dire in conclusione come anche i Romani, in quanto popolazione indoeuropea, presentino reminiscenze artiche e quindi legate, dal punto di vista mitico e metastorico, all’età dell’oro e al simbolismo di Thule. Per concludere possiamo affermare di aver tracciato un inquadramento generale in cui inserire in futuro una descrizione sui simboli e sui significati della Tradizione indoeuropea affinché essa ci guidi nell’attuale età di decadenza che stiamo attraversando. Inoltre è importante riscoprire questo tipo di retroterra tradizionale per ricongiungersi a quelle forme di pensiero che più ci avvicinano alle nostre radici etniche e conoscitive per ritrovare una visione del mondo che sia al tempo stesso nuova ma anche antica da contrapporre all’ideologia massificante della globalizzazione e della società multiculturale e multirazziale che per loro stessa natura distruggono le realtà preesistenti per poi ricomporle su base esclusivamente economica e consumistica.

    II Parte

    Nel precedente articolo abbiamo delineato come esistesse presso gli indoeuropei un mito, quello di Thule, collegato ad una più alta forma di esistenza, che rappresenta il ricordo trasposto in chiave mitica della patria originaria degli indoeuropei. Ma la forza di un mito trova sempre una rappresentazione simbolica e in questo caso la simbologia che andiamo prendere in esame è quanto di più evocativo possa esserci per chi come noi voglia creare un movimento di vera destra radicale. Questa simbologia è quella dello swastika, del fyrfos, della ruota del sole e della croce celtica. Mi rendo conto che gli avvenimenti della prima metà del secolo scorso abbiano messo in cattiva luce alcune simbologie, come quella dello swastika, che secondo me andrebbero riproposte nel loro significato originario, così come suggerito dalla Tradizione stessa. Per quanto riguarda gli altri simboli, come la croce celtica, è utile delinearne il vero significato e la sua vera collocazione spirituale dopo che agli occhi dell’opinione pubblica essa è stata associata troppo spesso a fenomeni che con la vera destra tradizionale e radicale nulla hanno a che spartire. Allo swastika sono associati da parte di numerose tradizioni alcuni significati di base che ritengo oltremodo indispensabile esaminare:

    · CENTRALITA’: Il centro dello swastika è la parte più importante di questo simbolo. Si può pensare ad esso come il popolo Ario stesso.

    · SOLARITA’ Nel centro molti autori collocano la posizione del sole o per lo meno del principio o motore immobile dell’universo. A mio parere sono gli uncini a possedere il senso di solarità. Vedremo in seguito perché.

    · PREDESTINAZIONE ALLA NOBILTA’ E AL COMANDO Secondo alcune leggende chi vede uno swastika in sogno è predestinato al comando. Inoltre il numero di riferimento dello swastika è il 12+1 ovvero il 13 numero che contraddistingue, e vedremo perché, il prescelto.

    · FORZA VORTICOSA DI PERENNE RIVOLUZIONE Dal centro si sviluppa una forza di rotazione che il centro stesso (motore immobile) provoca ma di cui non fa parte. Vedremo che da questa si può pensare come trasposizione in chiave meta politica al capo di un popolo che ordina in modo sacro la società che è destinato a comandare senza però che gli umori e le pulsioni inferiori della massa lo possano turbare.

    Detto ciò bisogna ricollegare la Tradizione e il suo simbolismo alle festività che più di tutte la rappresentano ovvero i riti ancestrali del solstizio celebrati con l’accensione di un falò sacro. I solstizi sono due quello d’estate e quello d’inverno. Gli antichi indoeuropei vedevano nel solstizio d’inverno il momento più tragico nella “vita” del sole poiché la notte era la più lunga dell’anno e quindi il sole sembrava morire senza mai più rinascere. Dalla festività del solstizio d’inverno nasce il Natale. Infatti la data del 25 dicembre è la data approssimativa del solstizio che gli antichi indoeuropei collocavano tra il 21 e il 25 dicembre a seconda del ceppo di appartenenza (la scarsa precisione è imputabile ovviamente alla mancanza di precisi strumenti di misurazione). Un esempio su tutti è la nascita di Mitra dio sole della religione iranica che nasce il 25 dicembre. Anche le usanze dell’albero di Natale e dei doni sono di origine pagana. Il solstizio d’estate era invece il momento del trionfo e dell’apoteosi del sole. Esso veniva festeggiato sempre con l’accensione di un falò (pratica che si può facilmente rintracciare nella festa di S.Giovanni in quel di Torino).

    La mia personale teoria sullo Swastika parte dalle origini artiche delle stirpi Arie che avrebbero dovuto assistere, alle origini della loro esistenza quando abitavano nella regione artica, quindi dal punto di vista mitico presso la terra di Thule, a fenomeni celesti del tutto particolari come quello del sole che sembra ruotare, senza mai calare, attorno alla testa dell’osservatore che sarebbe così al centro del moto di rivoluzione apparente del sole attorno alla terra. Ho assistito personalmente a questo fenomeno, detto comunemente sole di mezzanotte, in gioventù a capo Nord in Norvegia in occasione del solstizio di estate. In effetti per un osservatore posto nella regione artica il sole, in quel momento, sembra girargli attorno compiendo un moto di rivoluzione apparente. Di qui la mia teoria sul significato dello swastica in cui gli Arii sarebbero il centro della croce e gli uncini sarebbero le varie fasi del sole nel suo moto di rivoluzione apparente attorno al polo.



    Dalle figura anche se un po’ artigianale, si può appurare come la mia teoria sia facilmente comprensibile. Nella figura tradizionale seguente si può notare ancora meglio l’adattabilità della mia tesi.


    Ora mi auguro che il lettore attento possa applicare senza difficoltà allo swastika le caratteristiche enunciate precedentemente (Solarità, Centralità, Forza vorticosa di perenne rivoluzione)

    Per ciò che riguarda il significato numerico e di predestinazione bisogna ricordare che lo swastika può essere rappresentato da dodici punti più il punto centrale. Il dodici è un numero il cui simbolismo sacro si manifesta nel numero dei mesi dell’anno, nel numero dei segni dello zodiaco, nel numero degli Ansen (gli eroi che siedono accanto a Odino nel Wahlalla), nel numero delle verghe che compongono il fascio, nel numero degli dei Olimpici, nel numero dei cavalieri di Re Artù, nella durata del III Reich e infine nella tradizione cristiana, quindi appartenente a un ciclo già decadente, nel numero degli apostoli. Il punto centrale, il tredicesimo, è quello che contraddistingue il prescelto e/o l’eletto, colui che è destinato a compiere più alte imprese. Basti per tutti l’esempio di Parzival il cavaliere della Tavola Rotonda che sedette nel tredicesimo seggio senza subire disgrazie (al contrario di coloro che vi si erano seduti in precedenza) dimostrando di essere colui in grado di cercare il Santo Graal. Il centro dello swastika è il tredicesimo seggio, quindi il punto più importante in cui si situa il motore immobile, la forza prima della forza di rivoluzione che non viene però coinvolta dal moto stesso. Ora si può capire pensando al tredicesimo, cioè all’eletto, la leggenda orientale in cui chi vede uno swastika fiammeggiante nel cielo durante il sonno, è destinato a comandare. Lo swastika può essere sostituito da figure leggermente diverse dal punto di vista grafico ma equivalenti dal punto di vista simbolico. Queste figure sono la ruota del sole, il Tryfos, la croce uncinata e la croce celtica.








    Nelle figure abbiamo rispettivamente una ruota del sole, una celtica e una croce uncinata. La croce celtica assume oltre al significato solare anche un significato di collegamento tra mondo terreno e mondo celeste. Infatti l’asse orizzontale rappresenta il mondo terreno mentre quello verticale il mondo celeste. Inoltre il simbolismo è doppio in quanto il cerchio è tradizionalmente un simbolo di divinità mentre la croce un simbolo di materialità. Per finire ricordiamoci che le croci celtiche venivano scolpite nella pietra e conficcate nella terra creando quindi un asse simbolico terra cielo così come i menhirs preistorici. Parleremo in seguito dei dati archeologici legati a questi simboli.

    III parte
    Sino ad oggi abbiamo descritto significati e origini etniche e tradizionali indoeuropee al di fuori della storia di cui comunemente siamo abituati a parlare. Ovvero l’esperienza di Thule che si colloca prima dell’inizio della storia stessa (per questo parliamo di riferimento mitico) e delle manifestazioni della tradizione nell’ evo antico. Ma ora dobbiamo occuparci di come si è passati dal cosiddetto evo antico al medioevo e quali sconvolgimenti culturali si sono accompagnati a questi fenomeni. Con la diffusione del cristianesimo tra le plebi del mondo conosciuto venne a cadere il principio gerarchico dell’elite pagana soppiantato dalla necessità di abolire qualsiasi differenza tra gli uomini che è uno dei cardini del cristianesimo delle origini. Il cristianesimo che può sembrare un movimento tollerante a prima vista nascondeva invece un intollerante senso di rivalsa nei confronti della cultura che lo aveva preceduto (azzarderei un parallelo col comunismo sovietico) distruggendo interamente la cultura pagana grazie alla sua capacità di conquistare le plebi (con discorsi di facile comprensione e di facile utilizzo per i ceti più poveri) e di sconvolgere il principio aristocratico della superiorità della qualità rispetto al numero (ovvero la superiorità delle imponenti plebi pelagiche e orientali dell’Urbe rispetto alle aristocrazie romane, o per lo meno di quel che ne rimaneva dopo le guerre civili). Contemporaneamente allo sfascio politico, sociale, religioso e quindi culturale della società romana sotto l’impeto fanatico del cristianesimo ( a cui non riuscì di riuscì di ribellarsi neanche Giuliano imperatore che volle ristabilire il tradizionalismo pagano) avveniva lo sfascio militare ad opera delle possenti orde barbariche provenienti dal centro-nord europa. In Italia si riversarono quindi almeno 500.000 tra goti di varie tribù, sassoni, longobardi, franchi e assieme a loro numerose altre piccole tribù di origine germanica. Queste che in parte erano ancora legate al paganesimo o alla eresia Ariana (da non confondersi con la razza Aria o Ariana), con la sola eccezione dei franchi, ristabilirono in forme grezze le aristocrazie militari e le divisioni sociali classiche delle società indoeuropee. Quindi con l’alto medio evo abbiamo un ritorno ad una europa gerarchica il cui ordinamento verrà riconosciuto dal sistema feudale che ordinerà l’impero carolingio. Al di là del grande interesse in noi suscitato dall’ordinamento imperiale non possiamo tacere le stragi che perpetrarono i carolingi sotto la pressione del papato contro chiunque non volesse abbracciare il cristianesimo abiurando le proprie origini pagane. Ora sono d’obbligo due esempi dell’influenza papale sui carolingi e gli effetti devastatori da essi causati. Lo sterminio di gran parte dei Sassoni (compresi donne e bambini) rei di non voler abbandonare Odino e Thor (Donar) e l’invasione della penisola italiana sempre da parte dei franchi e la conseguente distruzione del regno longobardo che avrebbe portato l’Italia sotto un unico regno non fosse stato per la malafede del papato romano. Tornando ai nostri argomenti tradizionali possiamo chiederci come e quando il sistema simbolico polare e artico si camuffò per resistere all’inquisitorio sistema d’intolleranza della nuova religione dominante (peraltro di chiara origine semita). I simboli come lo swastika e suoi simili vennero in parte cristianizzati e in parte modificati e inseriti nell’araldica da parte delle gilde dei disegnatori di araldica. Almeno questa è la teoria, a mio giudizio più che accettabile di Guido von List e Lanz von Liebenfels. Il primo fu l’autore di numerosi testi neo pagani tra cui “Il segreto delle Rune” in cui espone chiaramente come lo swastika e altri simboli runici vengano a far parte dell’araldica europea. In particolare ricordiamo la croce di malta come l’insieme di due croci uncinate che si contrappongono, la croce dei cavalieri teutonici come due swastika che si oppongono e di nuovo la croce di altri ordini cavallereschi e religiosi.





    E’ possibile rintracciare simboli polari nei rosoni degli edifici religiosi medioevali come ad esempio il rosone del duomo di Parma. Molto curioso e interessante è a mio giudizio uno studio approfondito di questi temi e lo consiglio a coloro che sono soliti ammirare araldi o affreschi medioevali come ad esempio gli affreschi del castello di Issogne in Val D’Aosta dosi possono notare alcuni degli araldi con “swastika” camuffati simili a quelli descritti da Von List. Come si vedrà in modo più approfondito nel prossimo articolo “Nero, Bianco e Rosso” le due vie dell’uomo nobile o se si preferisce Ario sono quelle della religiosità o della guerra santa. Due vie che corrispondono a mio giudizio a diverse modalità di Trasmutazione alchemica di passaggio dal nero al bianco o dal nero al rosso. Ciò verrà spiegato meglio in seguito. Il simbolismo polare è sopravvissuto nonostante tutto ma ora tocca a noi farlo sopravvivere e soprattutto rinascere nel suo significato originario legato ai solstizi e alla mitica età dell’oro presso Thule. Incompreso ai più anche nell’antichità il suo significato era compreso, anche allora solo dalle èlite (sacerdoti, scaldi, bardi…) e portato come fregio e simbolo di vittoria dai guerrieri; oggi tutto sembra perso e solo una èlite ancora più ristretta può comprendere certi significati. Ma questa èlite ha il dovere di preservarsi e preservare il proprio sapere così coerentemente con i miei principi, ho cercato di preservare tutto ciò mettendo nero su bianco le mie intuizioni che penso possono interessare anche chi crede di sapere tutto in materia.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Andrea Anselmo
    NERO, BIANCO E ROSSO. LE QUATTRO ETA' DEL MONDO


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    I. Introduzione
    Chiunque avrà pensato una volta almeno nella vita perché molte insegne imperiali o bandiere inneggianti al Terzo Reich o altre bandiere a sfondo politico (croce celtica nera in cerco bianco su sfondo rosso) possiedono questi tre colori fondamentali. Io me lo sono chiesto e ho voluto vederci chiaro. Dopo “Il simbolismo polare e la Tradizione artica” voglio chiarire anche questo aspetto cromatico della Tradizione Aria riscoprendo quegli aspetti per così dire “esoterici” (nel senso che possono essere attualmente capiti da pochi) che stanno dietro a quel che rimane della civiltà di origine Indoeuropea. Vista la vastità dell’argomento trattato e la difficoltà di procedere in maniera sistematica chiedo venia al lettore se sarò costretto ad elencare numerose nozioni nella fase iniziale per poi spiegarle e riunirle alla fine dell’articolo.

    II. Nero, Bianco, Rosso nella tradizione
    Per iniziare ritengo doveroso ricordare che le iscrizioni su menhir, dolmen e altri monoliti destinati al culto indoeuropeo, molti dei quali ritrovati in Italia, erano dipinte con questi colori. In epoca successiva anche alcune insegne dell’impero romano erano nere bianche e rosse.

    Ricordo inoltre che in tutte le scuole iniziatiche dell’antichità le vesti di questi colori corrispondono ai gradi di iniziazione e soprattutto il rito di investitura di un cavaliere medioevale (che affonda le proprie radici come ritualità nell’ethos germanico) prevedeva che il cavaliere si cingesse durante la cerimonia di vesti nere, bianche e rosse a seconda se si trattava di una fase di purezza (bianco), una fase legata alla morte (nero) o infine una fase legata al dovere di versare anche il proprio sangue per difendere il proprio signore(rosso).

    Inoltre pare che alcuni riti di iniziazione e investitura si svolgessero in prossimità del solstizio d’estate, del cui significato abbiamo già discusso nel precedente articolo. Durante il medio evo le famiglie germaniche che spesso giungevano alla consacrazione imperiale possedevano questi colori nel loro araldo. Anche in Italia alcune famiglie nobili ebbero questi tre sacri colori come insegna del loro potere. In epoca più recente sotto questi colori sono sorti il II Reich e il III Reich tedesco.

    III. Le quattro età del mondo tradizionale
    L’esperienza delle origini Arie che possiamo chiamare Età dell’oro si è conclusa migliaia di anni fa e attualmente viviamo l’ultimissima delle età: l’età del ferro o Kali-Yuga.

    Le ere dell’umanità sono quattro (Oro, Argento, Bronzo e ferro) come anche il numero delle caste di origine indo-aria (sacerdoti, guerrieri, borghesi e lavoratori) più i senza casta, i paria. Ogni età e ogni ciclo tradizionale rappresenta una discesa rispetto a quella precedente così come dall’oro si passa all’argento, al bronzo e al ferro. Inoltre ogni età è a sua volta suddivisa in quattro cicli che corrispondono per quanto riguarda la nostra età del ferro alle quattro caste. Ricordo che tutte le società delle origini di impronta indoeuropea possedevano delle caste: Bramani, guerrieri, borghesi e shudra presso gli Arii dell’India, Patrizi, Pontefici e Plebei a Roma ma anche a Sparta e presso i Celti, i Liguri, e i Germani. Questo ordinamento sociale è detto tripartizione della società indoeuropea. Al concetto base di tripartizione si aggiunge la casta o classe dei borghesi che ha però come ben sappiamo un ruolo antitradizionale per eccellenza. Inoltre alcune società indoeuropee non attribuivano alla borghesia una specifica casta (nell’alto medio evo abbiamo soltanto guerrieri, monaci e lavoratori). Tornando alla dottrina delle origini quando i discendenti dei mitici iperborei dovettero lasciare le terre del nord (terra di Thule) per recarsi in varie ondate in territori più ospitali passarono, almeno dal punto di vista mitico, dall’età dell’oro all’età successiva. Cominciarono quindi a subire le fatiche del lavoro e le peripezie della vita caduca (c.f.r Esiodo). Cominciò così il ciclo dell’autorità spirituale dominato dalla costruzione dei templi dal punto di vista architettonico e dall’autorità e dal rispetto indiscusso per l’autorità spirituale (la casta sacerdotale). In seguito venne l’era dei guerrieri e della nobiltà non più basata sulla spiritualità ma soprattutto sulla forza militare (era dominata dalla costruzione di castelli e opere militari) e sulla casta guerriera. Venne poi una età che di molto differiva- in senso peggiorativo- rispetto alle prime età, quella dell’avvento al potere della borghesia denominato dagli aspetti puramente economici e dalle costruzioni degli apparati produttivi e degli edifici commerciali. Infine anche la casta “oscura e demonica” prese il potere ma non come un popolo, una razza o una stirpe ordinata bensì come una massa informe di bisognosi “posseduta” da falsi miti e obbediente a falsi profeti. Schiavo ormai di tutte le sua pulsioni inferiori, rinchiuso dal punto di vista architettonico in veri e propri alveari di cemento, l’uomo-massa rappresenta la degenerazione massima con le sue perversioni delle verità, la perdita delle identità e delle differenze e l’omologazione etnica e culturale. Il Kaly Yuga si presenta nella sua massima bestialità e informità, un’ era in cui chi rappresenta ancora una qualche forma pura e incontaminata viene tacciato di eresia e pericolosità rispetto alle posizioni dominanti. I ruoli dell’uomo e della donna, che paiono in altre epoche ben definiti, sfumano, scompare in alcuni casi addirittura la differenza tra i sessi (per giunta teorizzate dalle massime correnti antitradizionali: femminismo e bolscevismo).

    IV. Basi etniche e sociali nella dottrina delle caste indo arie
    Le caste della tradizione indo aria non sono il riflesso di una distinzione economica o soltanto materiale: sono in realtà il risultato di specifiche qualità spirituali.

    La casta sacerdotale e la casta guerriera erano dette, nel loro insieme, Arya, che significa in sanscrito “nobile”. Dato che il termine sanscrito per casta era “varna”, colore, e gli Arya erano detti i “bianchi amici degli dei” o descritti dagli altri popoli come “i guerrieri dalla pelle bianca” è stato desunto, anche attraverso altri importanti studi, che le caste erano un sistema sociale-organico che vedeva come guerrieri e come sacerdoti ( gli Arii appunto) i discendenti di un popolo indoeuropeo (quindi dalla pelle bianca) che arrivò nell’area indiana intorno al 1500 a.C. soggiogando e confinando nelle caste inferiori gli autoctoni dalla pelle scura. Dal termine “Arya”, secondo il ragionamento sopra enunciato deriva quindi il famoso termine di razza o stirpe “Aria” o “Ariana”. Ma la semplice discendenza non bastava per essere un “Arya”. Ovvero era necessaria una iniziazione con la quale un giovane nato da genitori appartenenti alle prime due caste divenisse pari ai suoi antenati: senza quella iniziazione il giovane sarebbe stato pari ad uno “shudra” (ovvero un appartenente all’ultima casta detta “oscura”). Quindi l’Ario non è solo colui che è bianco di pelle ma è colui che attraverso l’iniziazione riscopre in sé l’esperienza atavica della divinità e la fa rivivere attraverso questa consacrazione per conoscere la divinità così come la conobbero i suoi antenati durante l’età dell’oro (quando dei e uomini stavano sullo stesso livello). Quindi risveglia in lui (attraverso l’esperienza del divino) quel nume che già i suoi antenati avevano conosciuto così da divenire, se il suo sangue lo consente, un vero e proprio Ariano. Per questo gli Arya erano detti “nati due volte” richiamando appunto la loro doppia nascita (materiale la prima, spirituale la seconda). Inoltre gli Arya erano portatori di una “razza dello spirito” ovvero praticavano un culto Ario e patrizio (simile a quello degli altri popoli indoeuropei) solare e connesso alla “guerra santa” mentre i popoli “oscuri” delle altre due caste praticavano culti ctoni e talvolta demoniaci, pervasi dal caos e dalla bestialità, fomentatori del disordine e della promiscuità. Gli Arii quindi avevano una funzione ordinatrice rispetto ad un sostrato infero: non erano quindi dei tiranni nel senso moderno del termine.

    V. L’iniziazione alchemica come ritorno all’età dell’oro e come via esoterica occidentale
    La parola alchimia è di solito associata alla trasmutazione dei metalli meno pregiati in oro, ad essa poi si lega la figura di un “proto chimico” che in un oscuro antro del suo laboratorio tenta esperimenti impossibili. Questo aspetto “romantico” e “goticheggiante” della figura dell’alchimista e quanto mai puerile e privo di fondamento. L’alchimia attraverso una metafora, la trasmutazione dei metalli in oro, si prefiggeva di purificare l’uomo e di fargli raggiungere un più alto livello di spiritualità: una spiritualità non altrimenti raggiungibile nell’era moderna. La fasi dell’alchimia, nella loro formazione spiritualmente più elevata sono rappresentate dai fatidici colori: NERO, BIANCO, ROSSO.

    Vediamo come.


    FASE AL NERO: Questa è la fase basilare detta anche “morte alchemica” che poco però ha a che vedere con la morte profana e materiale. Si tratta invece di una morte degli istinti più bassi dell’uomo, quelli più egoistici che ci portano ad avere paura, a rinnegare gli ideali per pensare a noi stessi, a lasciarci andare a comportamenti turpi e degeneri. In una parola la fase al nero significa smetterla di comportarci come la casta oscura dell’india tradizionale.

    FASE AL BIANCO: E’ la fase dell’ascesi e della pura spiritualità: non da intendersi come disprezzo della materialità ma bensì come un “non avere più bisogno della materia e dei piaceri corporei”. E’ il raggiungimento e la conoscenza dell’essenza divina, una forma di Teosofia. La ricerca di un tramite con la divinità è un leit-motiv della aristocrazia Aria poiché un detto nordico dice “chi è capo deve essere ponte”. Di qui il significato di pontefice “facitore del ponte” colui che ricongiunge dopo la fine dell’età dell’oro l’umanità con la superumanità divina ricostruendo quel ponte che si è drammaticamente spezzato con la fine dell’età aurea creando una divisione peraltro non insuperabile tra gli dei e gli uomini.

    FASE AL ROSSO: E’ la fase eroica per eccellenza, dominata dal colore del sangue, dalla “Mors Triunphalis” ovvero della morte che deifica e rende immortali. Pensiamo quindi agli eroi nordici che morendo in battaglia vengono accolti da Odino nel Walahalla o in tradizioni più tarde ai cavalieri medioevali che morivano durante una crociata con la speranza di essere accolti in paradiso. Ritornando alle caste indiane possiamo capire come la casta sacerdotale fosse dominata dalla fase al bianco mentre quella guerriera dalla fase al rosso. Ambedue però dovevano aver superato la “demonia” della casta oscura troppo intenta nei propri istinti più terreni per alzare gli occhi verso le forze celesti.

    Ancora più importante è vedere come la trasmutazione del metallo in oro significa il ripristino dell’età dell’oro e della spiritualità che la contraddistingueva.


    Passiamo ora a fare qualche esempio.
    Nel culto celtico di Cernunno (il dio cervo con i piedi piantati nel terreno e le corna svettanti ne cielo) troviamo un concetto molto simile. Come i nordici “Yggdrasill” (albero secco della vita) e “colonna di Irninsul” (colonna che sostiene il mondo) Cernunno è l’asse tra la terra e il cielo (in questo ricorda i menhir). Funge quindi da collegamento di due mondi (così come la concezione dell’imperatore nel Sacro Romano Impero ghibellino). Con i suoi piedi piantati per terra ci ricorda gli istinti terreni e inferiori che vanno superati (FASE AL NERO) per raggiungere la divinità a cui tendono le corna del cervo (FASE AL BIANCO).
    Nella leggenda greca di Teseo e del Minotauro dobbiamo registrare il fatto che Teseo rappresenta la Tradizione che uccidendo il Minotauro nel labirinto uccide i propri istinti animaleschi e impuri (FASE AL NERO). Non è casuale che in ambienti di purificazione interiore come chiese e monasteri sia presente il labirinto (come siepe al centro di un chiostro o come elemento decorativo). Inoltre esistono raffigurazioni del labirinto a forma di Swastika di cui abbiamo precedentemente parlato.
    Nella leggenda di re Artù (nome legato al simbolismo polare secondo Guenon) quest’ultimo rappresenta il potere guerriero (FASE AL ROSSO) , il bardo Merlino rappresenta il potere spirituale (FASE AL BIANCO); Avallon è la trasposizione nordico atlantica della terra di Thule mentre il santo Graal è il mezzo per reintegrare la condizione di età dell’oro. Ci sarebbero ancora migliaia di corrispondenze in questa leggenda celtico-cristiana ma ritengo che questa sarà oggetto di una trattazione futura.
    Quando ci troviamo di fronte ad un guerriero che uccide un drago ci troviamo in corrispondenza di numerosissimi significati per la dottrina Aria. Il drago come tutte le creature elementari e ctonie rappresenta la spiritualità delle stirpi non bianche, dominate dal caos, che vanno combattute e sconfitte come fecero tutti i popoli indoeuropei; inoltre la sua uccisione può rappresentare una FASE AL NERO (combattere i propri istinti inferiori) seguita da una FASE AL ROSSO (rappresentata dal guerriero che mette a repentaglio la sua stessa vita). Come figure leggendarie dobbiamo pensare a Beoulf (il cui suffisso “ulf” sta per lupo connesso talvolta a simboli solari) che nella tradizione anglo sassone uccide vari mostri, a Sigurd/Siegfried (che significa amico della vittoria) che combatte le forze infere per conto di Odino/Wotan, a Thor (dio protettore dei vichinghi) che con il suo martello Mjollnir distrugge i giganti elementari che vogliono distruggere l’Asgard (la sede degli Dei vista talvolta come la Thule) , a Giove che con l’ascia (connessa al fascio littorio) combatte i giganti, a San Giorgio della tradizione cristiana che uccide il drago e a tanti altri ancora che non ho tempo di elencare. Come figura di alchimista in questo senso possiamo vedere Dante nella “Commedia” che con la sua selva oscura attraversa una FASE AL NERO, e che finirà con il raggiungere nel paradiso la FASE AL BIANCO, dopo un difficile cammino. Potrei poi citare le varie forme di metamorfosi della letteratura antica a cui corrispondono vari cambiamenti di fase e infine si può rintracciare qualcosa di simile nell’opera di Tolkien ma sono costretto per motivi di spazio a fermarmi qui.

    VI. La riunione dei due poteri, spirituale e guerriero, nell’imperatore
    Tra gli Arii per occupare i posti più alti della gerarchia vi erano due vie (sacerdotale e guerriera) per raggiungere la pura spiritualità (nella loro massima espressione erano incarnate perfettamente dall’aristocrazia guerriera e sacerdotale al tempo stesso degli imperatori romani) : la via che conduce alla divinità attraverso la spiritualità che oggi definiremmo “religiosa” (FASE AL BIANCO) e la via che conduce alla spiritualità attraverso l’eroismo sul campo di battaglia (FASE AL ROSSO). Nell’antica Roma i pontefici incarnavano la funzione sacerdotale e in quanto “facitori del ponte” (nel senso che abbiamo specificato precedentemente) erano i responsabili di quel ponte che sorgeva sul Tevere e che veniva costruito senza l’uso di strumenti e componenti di ferro ( il ferro probabilmente richiamava l’età del ferro e in generale la degradazione ultima rispetto all’età dell’oro). Con Ottaviano Augusto la funzione di capo sia materiale che spirituale viene a riunirsi nella figura dell’imperatore che è anche pontefice massimo. Ovvero il corpo “sociale” di tipo tradizionale e quindi imperiale tendeva a ricongiungersi nella divinità attraverso le varie fasi alchemiche (nero, bianco, rosso) rappresentate dalle caste. I lavoratori erano l’aspetto tellurico (legato alla terra e al colore nero), i guerrieri divenivano simili agli dei attraverso la morte eroica (il dono del proprio sangue, di colore rosso) mentre i “pontefici”, le caste sacerdotali Arie ricostruivano il ponte che divideva uomini e dei (raggiungendo la purezza del colore bianco). Le due massime funzioni di questo “organismo sociale” erano incarnate contemporaneamente del capo, o dall’imperatore che era al tempo stesso pontefice e guerriero, portatore di pace e di luce ma anche capo supremo degli eserciti. Una concezione simile animava il concetto di imperatore del Sacro Romano Impero per i ghibellini.

    VII. Il cerchio si chiude
    Spero che adesso il lettore possa capire il perché del continuo parlare delle caste indiane come realizzazione delle fasi alchemiche a loro volta rappresentate dai colori fatidici che ci eravamo proposti di spiegare. Possiamo così pensare che l’araldo dell’uomo che ritorna allo stato primordiale di età dell’oro sia NERO, BIANCO e ROSSO coronato magari da un simbolo solare/polare.
    Inoltre si capirà come le quattro ere di cui parlavo all’inizio fossero varie fasi discendenti e di contro iniziazione: passaggio dall’oro al ferro, dalla casta sacerdotale ai demoni della vita estenuata, dalla FASE AL BIANCO alla FASE AL NERO. Spero che si possa capire l’esigenza posta in essere dal sapere tradizionale che chi comanda (gli Arii) debbano aver superato l’abbandono del puro istinto che è di per sé egoistico poiché per comandare bisogna prima di tutto essere in grado di comandare se stessi. Inoltre la FASE AL ROSSO fa si che una parte di chi comanda sia disposto a versare il proprio sangue per un ideale superiore ( i cavalieri medioevali ad esempio) e che la struttura sociale così delineata non è una forma di tirannia ma una figura piramidale che si ricongiunge nella divinità magari con la figura dell’imperatore come rappresentante di entrambi i poteri e di tutte le fasi (NERA, BIANCA, ROSSA).
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  3. #13
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    Le "tre morti" degli indoeuropei

    di Alberto Lombardo

    La scoperta fatta da Georges Dumézil di una "ideologia tripartita indoeuropea", come egli ha definito la sua tesi secondo cui le civiltà dei popoli indoeuropei sono caratterizzate da una tripartizione, a vari livelli, tra sacralità magico-giuridica, regalità guerriera, fecondità-produttività (o, in altri termini, tra sacerdoti, guerrieri e produttori), ha fornito gli studiosi di mitologia comparata e folklore di uno strumento analitico straordinariamente efficace. Già il Dumèzil in vita, la sua "scuola" successivamente, hanno posto in luce un importante aspetto del rito e del sacrificio comune ai vari popoli che dall’India all’Islanda e da Roma alla Scandinavia sono accomunati nel retaggio linguistico, etnico e spirituale. La tesi, in estrema sintesi, riconduce a ciascuna delle tre funzioni sovrane un peculiare tipo di morte, che si connette a sua volta a una particolare forma di sacrificio. Già il poeta romano Lucano, nel descrivere i costumi sacrificali dei Celti, afferma che questi avvenivano alla divinità Esus per impiccagione della vittima (prima funzione - sovranità), a Taranis per vivicombustione in un cesto di vimini (seconda funzione - guerra) e a Teutates per affogamento in una tinozza (terza funzione - fecondità). Sempre nell’ambito celtico, la tradizione gallese riportata dai Mabinogion intorno a Lleu Llaw Gyffes narra della triplice morte di quest’ultimo avvenuta a un tempo per affogamento, ferimento con un’arma (una lancia), impiccagione. Anche nella tradizione irlandese ritorna questo motivo nella triplice morte di Aedh il Nero, profetizzata da San Colombano, e in quella del santo Moling. Ricca di ulteriori esempi è l’area T nordico-germanica. Il Ward in particolare, tra i seguaci di Dumézil, ha portato numerosi esempi in tal senso. Tra le fonti di questi stanno Adamo di Brema, Saxo Grammaticus, la favolistica popolare; ruolo centrale, in tali vicende, riveste il dio Odino, incarnante essenzialmente la prima funzione, ma che in alcune versioni subisce una triplice morte. Infatti le diverse versioni del modello in questione si presentano essenzialmente sotto due aspetti: o le tre morti di tre diversi soggetti, o la triplice morte subita da un unico soggetto, incarnante l’insieme delle funzioni. Altro elemento che gioca un ruolo importante in tale ambito è quello connesso alle "tre colpe" indoeuropee, già esaminate dal Dumézil, e cui corrispondono altrettanti tipi di morti, legate inoltre, come detto, alle tre funzioni sovrane. Nel suo saggio Agamennone e il triplice indoeuropeo della morte (Centro Studi la Runa, Chiavari 1997), David Evans riscontra e analizza il modello in esame, oltre che nei luoghi letterari e tradizionali citati, anche come compare con alcune varianti nella favolistica e nelle leggende d’area greca, finlandese, baltica (a questi ambiti tradizionali si può forse inoltre aggiungere quello romano arcaico). Ne emerge un ampio quadro dell’estensione del modello in esame, che appare nella sua pressoché univoca presenza in tutta l’area coperta dalle civiltà indoeuropee. Successivamente a tale panoramica, l’autore rivela il riverberarsi di tale modello nella tragedia eschiliana Agamennone, il cui protagonista subisce tre morti, coincidenti con quelle proprie alle tre funzioni sovrane: per soffocamento; per tramite di un’arma; per annegamento. Tale scoperta si rivela di notevole importanza sia per lo storico delle religioni e il cultore degli studi tradizionali, soprattutto perché permette di inquadrare in una corretta prospettiva indoeuropeistica una vicenda che, come altre, mostra affondare le sue radici in trame più risalenti di quanto si creda comunemente.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  4. #14
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    Il Monte ELBRUS nel Caucaso, regione da cui provengono le ondate di popoli Indoeuropei.

  5. #15
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    Predefinito dumezil non è credibile

    vale infatti solo per gli indo-iranici le cui lingue rappresentano (insieme al greco) l'ultima fase della lingua indoeuropea. se si crede questo si cade nel sanscritismo e nel letto di procuste che questo modo di pensare rappresenta. brahman e flamini derivano ambedue da "offerta" ma questo non giustifica il dire che presso gli indoeuropei esistesse una classe sacerdotale. (e anche le altre classi). infatti gli allevatori seminimadi (cultura kurgan) che bisogno hanno di una classe sacerdotale ? basta e avanza uno sciamano.
    quello che ci hanno rivelato le lingue anatoliche smentiscono tutte le affermazioni di dumezil.
    praticamente sono illazioni di dumezil e della sua scuola di cinquant'anni fa, ormai da tempo sorpassata.

  6. #16
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    Il significato cattolico di questi 3 colori qualcuno me lo saprebbe spiegare?
    Se non ricordo male il bianco rappresenta la Fede, il Rosso il martirio...e il nero?
    Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui.

  7. #17
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    Citazione Originariamente Scritto da Legionario Visualizza Messaggio
    Ave Insubrico, noto che non c'è il mio precendete post, forse un disguido tecnico.
    Riporto l'interessante bandiera dela Repubblica Romana del 1799.
    Come si può vedere i colori erano proprio bianco rosso e nero

    ODDIO...

  8. #18
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    il significato "cattolico" del tricolore è in ritardo di 3000 anni.

  9. #19
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    Sulle caste
    Maurizio Blondet
    23/01/2007
    Un lettore che immagino giovane mi scrive una cosa curiosa: «Mi rivolgo a Lei perchè forse Lei sa darmi una risposta a questa domanda: perchè più conosco la democrazia più sono attratto dal sistema delle caste? Mi sono preso il libro di Thibon 'Ritorno al Reale' che ho trovato molto bello…».
    La cosa curiosa è che anch'io da ragazzo ebbi questa illusione: che fosse possibile la restaurazione, se non del sistema di caste ossificato in India, il sistema del «rango», degli «ordini», o dei tre «Stati» che hanno ordinato le società indo-europee per millenni: sacerdoti, nobili, «mercanti»- e - produttori.
    C'è un errore in questo, ed è di credere che il sistema degli ordini sia una istituzione, qual'è la democrazia, e che possa legalmente essere sostituito alle istituzioni democratiche in modo positivo. E come? Con il voto, non avrebbe mai la possibilità di passare.
    Imporlo con la forza, ove pur fosse possibile, sarebbe falsarlo alla radice.
    Perché? Perchè per millenni, l'ordine castale fu sentito non già come qualcosa di imposto o sovrapposto alla società, bensì come «la natura delle cose».
    In India, le caste sono dette «varna», «colori», e non in senso razziale.
    S'immagina che ogni uomo sia come un tessuto colorato, perché formato dall'intreccio di tre fili (guna).
    Uno è bianco, «sativa», ed è la pulsione ascendente, spirituale; l'altro è rosso, «rajas», e indica la tendenza espansiva, iraconda e generosa. Il terzo filo è nero, «tamas», e simboleggia la pulsione discendente, volta alla soddisfazione del ventre e del sesso.
    In ogni uomo prevale per natura uno dei tre fili del tessuto: nel brahmano è ritenuto prevalere il «sativa», negli kshatrya (re, guerrieri e giudici) il «rajas», nei vaisha (mercanti) e nei sudras il nero «tamas», sempre più abbondante.
    Platone non pensava altrimenti, quando immaginò l'uomo come un carro spinto da tre cavalli focosi, tendenti verso l'alto o verso il basso.
    San Tommaso d'Aquino parla ugualmente di anima «spirituale» (sattva), «irascibile» (rajas), «concupiscibile» (tamas).
    E con bella spiegazione del «rajas», sostiene che il giudice, per far giustizia, deve saper adirarsi.



    Da qui la gerarchia degli uomini; ma questa gerarchia si auto-imponeva naturalmente perché l'umanità indo-europea viveva in una temperie metafisica oggi perduta.
    Risaliamo a tempi antichissimi.
    Dumézil ha riconosciuto nel «flamen», nome maschile di forma neutra, la derivazione da «brahman».
    I collegi dei sacerdoti detti «flamines» avevano cura ciascuno di Giove, Marte e Quirino, divinità tutelari dei tre «Stati», i sacerdoti, i guerrieri e i produttori.
    Parimenti, nella guerra e poi nella fusione di Romani e Sabini, è dato intravvedere l'epica scandinava degli Asi e dei Vani, divinità prima nemiche poi unite per sempre e divenute indistinguibili.
    Del resto, in eroi «storici» della storia romana primitiva, Orazio Coclite e Muzio Scevola, si celano figure della mitologia scandinava: Odinn l'Orbo (1), e Thor il Monco.
    I Sabini portano alla banda guerriera di Romolo le donne e le «ricchezze», opes, della produzione agricola e dei tesori: sono i produttori, sotto il segno della fecondità.
    Parimenti, fra gli Osseti, la società era divisa tra gli Intelligenti (Alaegatae), i Forti (Aehasaergkatae) e i Ricchi (Boratae).
    In Roma, l'ordine duale può risalire alla realtà più primitiva in cui i due «stati» superiori, quello addetto ai riti e l'addetto alla guerra, erano ancora indistinti e si identificavano nel «rex» (raja), capo bellico e anche divinatore in contatto col divino, funzione ancora detenuta in età repubblicana dal «rex sacrorum».
    Più tardi avvenne la distinzione.
    In India, un richiamo nordico-ario assegna come animale sacro dei brahmani il Cinghiale, forse solo perché il nome indiano del facocero è «varaha», analogo del greco «borea» (che si pronunciava «vorea»), ossia «Nord»: ricordo della beata isola settentrionale sveta Dvipa, dove vigeva eterna la primavera e tutti gli uomini appartenevano alla sola casta più alta (dediti cioè esclusivamente alla contemplazione).
    Alla casta guerriera spetta l'Orso, «Arcthos» (altro animale nordico), da cui il nome di re Artù.
    In India gli kshatrya risultano eliminati da un evento enigmatico e tragico, forse storico, contenuto e celato nel mito di Parashurama (Rama con l'ascia), e da qui la prevalenza dei bramani, in qualche modo la clericalizzazione-ossificazione della società (anche se potenti gruppi di contadini poterono col tempo assurgere a kshatrya, come i Maura).
    Nelle società indo-europee occidentali prevalse l'elemento guerriero, divenuto aristocrazia, patriziato, nobiltà.



    Questo ordine imponeva alla società una tendenza pedagogicamente «ascendente».
    Proprio le figure di Coclite e Scevola, divinità umanizzate, indicano bene questa pedagogia: sono «exempla», proposti ai giovani per incitarli ad azioni eroiche, disinteressate e «belle», al sacrificio di sé oltre il dovere.
    Il brahmano non si definisce per dei privilegi, ma per degli obblighi, la frugalità estrema della vita, la povertà serenamente vissuta.
    Allo stesso modo, il generale romano era sempre disposto a compiere il rito della «devotio», dove accettava la morte per la salvezza del proprio esercito minacciato dalla rotta e dal panico. Significativa, nella formula della «devotio», la richiesta agli dei: «peto feroque», ossia non solo chiedo ma già «ottengo» (fero), perché sono pronto a morire insieme all'esercito nemico.
    Atteggiamento patrizio, esemplare, incitante gli inferiori.
    Nella società gerarchica e tripartita, anche i sudras tendevano, non fosse che per costrizione, all'ordine superiore.
    Questo è il punto.
    Il nobile e il sacerdote passavano, come dice il Vangelo, per la «porta stretta».
    Solo in parte il loro rango era determinato dalla «natura» e dall'eredità genetica; essi dovevano, ciascuno, diventare quello che erano.
    Essere brahmani o kshatrya era insieme un modo d'essere ed anche un compito.
    Voleva dire formarsi un carattere, una tempra.
    Ancora Goethe dirà: «Vivere a proprio gusto è da plebeo. Il nobile aspira a un ordine e a una legge» a cui si sottopone volontariamente, ed è una legge assolutamente esigente. (2)
    In questo senso, oggi, siamo tutti sudras, intoccabili.
    Ci contentiamo di essere quello che già siamo, senza sforzo, edonisticamente: e così cadiamo sempre più nella sfera discendente del tamas, nero come Kalì.
    La «democrazia» e le sue patologie terminali non sono, in fondo, che questo.
    Ancora nell'India moderna, etnologi britannici videro in atto un fenomeno curioso, chiamato «la brahmanizzazione delle caste».
    E' il caso di una sottocasta di barbieri, le cui mogli facevano le levatrici; il contatto con i peli e il sangue, realtà corporee «impure», ne rendeva basso il rango, quasi da intoccabili.
    Il consiglio della sottocasta, gli anziani, decise da un certo punto in poi di «brahmanizzarsi», vietò alle donne il mestiere di levatrice, gli uomini smisero di fare i barbieri per un mestiere più «puro», quello di vasai, e studiarono i Veda.
    In poche generazioni, la società circostante li accettò - non come individui ma come gruppo - come brahmani.
    Ecco un esempio della tensione ascendente che ancora poteva esercitare l'esemplarità delle caste superiori, il loro essere «imitate».



    Nell'Europa moderna Herman Berl identificò il fenomeno contrario, della «regressione delle caste».
    Si tratta dell'emergere e del diventare egemoni degli «Stati» via via più bassi.
    Nella lotta medioevale per le investiture, si vide la rivolta dell'elemento aristocratico e guerriero, imperiale, contro il clero (peraltro sempre meno adeguato al suo compito, parassitario: da qui nasce l'insubordinazione).
    Poi, nella Rivoluzione Francese, è il dominio tirannico del «Terzo Stato» - la borghesia - ad imporsi, con le sue avidità e i suoi calcoli economici.
    Con la rivoluzione bolscevica, è la volta del quarto Stato, gli operai, i sudras di aspirare al dominio.
    Oggi, nella sfatta anarchia edonistica trionfante, si deve deplorare l'emergere di un «quinto Stato»: i frequentatori di stadi e discoteche che impongono la «loro» visione del mondo, che vogliono essere amministrati anziché governati, che vogliono soprattutto godere (significativamente, un gruppo sessantottino lanciò lo slogan «Godere operaio» al posto di «Potere operaio»).
    Nella visione castale, costoro sono «chandala», sotto-uomini, puro «tamas», incapaci di sacrificare un poco l'oggi al domani, e dunque incapaci di reggere la civiltà.
    Nelle loro mani, la civiltà decade, la democrazia diventa criminalità, la religione è abbandonata, la tempra morale si liquefa (e chi ne ha viene deriso).
    Persino ogni forma d'arte - come constatiamo - deperisce e muore, sostituita da un «mercato dell'arte» con aste e denaro.
    Costoro che credono di essere liberi perché «vivono a loro gusto», infatti, sono soggetti alla più dura delle «leggi» impersonali, l'economicismo, il «libero mercato globale» che fa di ciascuno di loro (e di noi) i suoi zimbelli.
    Costoro imitano non già gli «exempla» nobili, ma i peggiori e più ripugnanti: con gli orecchini e i tatuaggi, si vogliono simili allo zingaro, al ladro di cavalli, al pirata e al galeotto.
    Persino la sessualità - non essendo più assunta come compito - diventa intercambiabile e incerta: si glorifica il travestitismo, si lodano come «normali» le perversioni.
    Sono personalità larvali, a-razionali, spinte da impulsi primari.
    La ragione sparisce, sostituita da una violenza idiota e corpuscolare, da un arraffare generale, da una guerra molecolare di tutti contro tutti.
    Secondo l'antica sapienza indo-europea, questo disordine estremo indica l'estremo limite della decadenza, del Kali Yuga.



    E' possibile un rovesciamento, in queste condizioni? Un ritorno all'ordine gerarchico «naturale»?
    Non ci illudiamo.
    Nell'India d'oggi le caste persistono, e sono diventate veleno.
    Erano funzionali e pacifiche nell'antica cultura contadina, quando l'India non aveva città, non conosceva il denaro e ignorava la «produttività» come imperativo.
    Oggi, nella cultura urbana e vaysha (borghese) dominante anche là, rompono il tessuto sociale anziché rafforzarlo.
    Le caste sono nemiche fra loro.
    Ogni visitatore straniero resta colpito dalla crudele insensibilità con cui l'indiano fortunato guarda al miserabile affamato e scheletrico sul marciapiede: non è tenuto alla carità perché quell'uomo non è della sua casta, è radicalmente a lui estraneo, come uno straniero.
    Conosco l'India d'oggi.
    La insopportabile volgarità esibizionista del vaysha arricchito.
    La televisione indiana è di una bassezza sensuale quasi intollerabile, persino peggio della nostra. Anche l'India è entrata nella «civiltà globale», e le caste non l'hanno protetta, anzi ne incrudeliscono le iniquità.
    Dunque non è possibile una restaurazione? Nella visione tradizionale, essa non solo è possibile.
    E' ineluttabile. Poiché l'ordine sociale gerarchico è «la natura delle cose», e l'attuale disordine è contro natura, esso non può reggersi.
    Non sarà però una restaurazione e contro-rivoluzione politica a rovesciarlo.
    Sarà una catastrofe cosmica a spazzarlo via, come è già accaduto nel Diluvio, ad Atlantide e alle mille Atlantidi che ciclicamente ci hanno preceduto.
    La natura umana che si guasta infatti, per corrispondenza sottile tra il microcosmo e il macrocosmo, guasta l'intera natura.
    Ieri «mineralizzata» dal dominio borghese e poi operaio, con le sue retoriche costruzioni d'acciaio e d'alluminio, oggi la natura manifesta essa stessa un disordine anarchico, si disfa.
    Gli ignari lo chiamino pure «effetto serra», riscaldamernto climatico e via elucubrando, e sostenendone responsabile l'industria umana: intuizione insufficiente ma non errata.



    Ciò non è superstizione.
    San Paolo stesso dice che la natura intera grida di essere salvata - e salvata dall'uomo, il solo che può farlo.
    Venuto meno al suo compito («sforzatevi di passare per la porta stretta, perché è larga la via della perdizione»), l'uomo non può aspettarsi che la rivolta della natura, quella dei cui ritmi vive, e che crede - cieco idiota - garantiti.
    E' questo che dobbiamo attendere, senza augurarcelo.
    Perché sarà spaventoso, e probabilmente milioni di uomini che stanno vivendo «a proprio gusto» moriranno, insieme ai giusti che vegliano.
    I primi, del resto, hanno anche questo difetto: che sono ermetici ai «segni».
    Impareranno solo sulla propria carne.

    Maurizio Blondet




    --------------------------------------------------------------------------------
    Note
    1) Odinn senza un occhio è il sacerdote-mago, che spaventa il nemico con il suo occhio. E' Wotan nella tradizione germanica. Nell'India vedica è Varuna, ossia «Ouranos», il cielo stellato.
    2) Questo era il senso dello «sport» olimpico: l'adesione allegra, per puro eccesso d'energia vitale, a regole arbitrarie e faticose di un «gioco», in cui contava la lealtà sopra tutto.


    Libro consigliato

 

 
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    Di Demogorgon nel forum Cattolici
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