Newsletter Osservatorio Iraq
15/2005
28 settembre - 13 ottobre

Sabato 15 ottobre in Iraq si svolgerà il referendum sulla Costituzione, ma già da giovedì hanno iniziato a votare i detenuti. Anche se il testo attualmente in distribuzione agli elettori è quello dell’ultima versione del 14 settembre, le trattative fra i vari gruppi politici sono continuate fino a martedì 11 ottobre, quando è stato raggiunto un compromesso su ulteriori emendamenti, nel tentativo di ottenere l’appoggio delle formazioni politiche sunnite, che, con il loro voto contrario, potrebbero determinare la bocciatura del documento.
Il principale di questi prevede la possibilità che il prossimo parlamento, che uscirà dalle elezioni che dovranno tenersi entro il 15 dicembre, possa emendare la nuova costituzione, anche dopo la sua (eventuale) approvazione nel referendum.

Ma, nonostante la massiccia campagna pubblicitaria, in molti non hanno ancora ricevuto la copia del testo sul quale saranno chiamati ad esprimersi, e molte sono le zone in cui il referendum sarà ostacolato dalle continue operazioni militari.
La situazione nel paese, a oltre due anni e mezzo dall'invasione, resta , come più volte ripetuto, pesante: lo evidenziano i racconti fatti dagli esponenti delle associazioni per i diritti umani venuti in Italia nel mese di settembre per testimoniare la loro situazione.

Manifestazioni si svolgono quasi ogni giorno nel paese, per i diritti sul lavoro, sulla terra, per chiedere al governo di mantenere le promesse fatte: a protestare sono realtà spesso sconosciute o ignorate dai media.
Del resto, soprattutto il terreno della ricostruzione, mostra oggi la sua fragilità: la corruzione dilagante ha portato infine a un mandato di arresto per l’ ex Ministro della Difesa, Hazem Shaalan.

Quando si parla di ricostruzione si parla di grandi imprese, di appalti, e quasi mai si parla invece di coloro che lavorano davvero: provenienti dai paesi poveri, reclutati con l'inganno, costretti a restare in Iraq perché gli viene sequestrato il passaporto: sono gli oltre 38.000 stranieri della KBR, consociata della Halliburton, la cui situazione è stata denunciata dal quotidiano Usa Chicago Tribune in un suo articolo dello scorso 9 ottobre.

Che ci stiamo a fare in Iraq, quindi? E' la domanda che continuano a porsi molti analisti della situazione irachena: non certo per evitare una guerra civile, come sottolinea Michael Schwartz: la presenza delle truppe di occupazione, e in particolare di quelle statunitensi, sostiene, non fa che aumentarne il rischio.
Lo stesso dilemma del resto se lo pongono i generali statunitensi, e coloro che la guerra l'hanno appoggiata: sfidando Bush sul diritto di veto, mettono in dubbio l'intera strategia fin qui seguita.
L'Italia non sta meglio: la strategia "umanitaria" mostra anch'essa tutti i suoi limiti, e quella militare deve fare i conti con le troppe bugie e omissioni.
La Farnesina avverte i direttori delle testate che è pericoloso andare in Iraq: ma forse è più pericoloso non conoscere quella realtà.

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