L'Università nella decadenza italiana



L'Italia è un paese in decadenza. La decadenza italiana non è un fenomeno
occulto, nascosto, da ricostruire aggregando e disaggregando dati economici
e sociologici. La decadenza italiana la si legge facilmente nelle
statistiche che parlano di una paese che ha sempre meno industrie, che perde
sempre più terreno nel commercio internazionale, un paese in cui si consuma
meno e ci si indebita.
Ma la decadenza italiana è, soprattutto, un'esperienza diffusa. La conoscono
direttamente i pendolari, che subiscono nei nostri treni le offese
quotidiane di sporcizia e ritardi. La sperimentano docenti e studenti di una
scuola nella quale si può fare praticamente di tutto, tranne insegnare e
imparare. La vivono medici e pazienti, i primi che tengono faticosamente in
piedi ospedali a organico ridotto, i secondi che vivono sulla propria pelle,
nel senso più stretto possibile, le conseguenze di questa situazione. La
temono i ceti medi e bassi, che vedono sempre più ridursi il loro poter! e d'acquisto
e diventare più buie le prospettive per l'avvenire. La verificano i giovani
che non possono fare a meno dell'aiuto dei genitori, e sanno benissimo che
non potranno mai fornire lo stesso aiuto ai propri figli.

Che fare? La stragrande maggioranza di politici e opinion leader, analisti e
commentatori, ci ripete ossessivamente sempre la stessa litania: innovare e
modernizzare, liberalizzare e privatizzare, seguire l'esempio "degli altri
paesi", o "dell'Europa", abbattere i diritti dei lavoratori e le prestazioni
dello stato sociale.
A tutti costoro occorre rispondere: Basta. Abbiamo già dato. Da almeno
quindici o vent'anni le "modernizzazioni", cioè distruzioni dei diritti dei
lavoratori, privatizzazioni, riduzioni delle prestazioni sociali, sono
moneta corrente di tutti i governi. E il risultato è appunto la decadenza
italiana. Quello che proponete non è la soluzione, è il problema.
I teorici del pensiero unico dominante risponderanno certo che il problema
sta nel non aver fatto abbastanza, non nel modo giusto, e che la prossima
innovazione, la prossima privatizzazione, il prossimo diritto negato,
saranno proprio quelli decisivi, quelli che faranno ripartire l'Italia.
Diran! no questo, ma non si vede perché dovremmo credergli. I diritti dei
lavoratori sono attaccati ed erosi da almeno vent'anni (almeno dal decreto
di Craxi del 1984 che aboliva la scala mobile), l'economia pubblica si è
cominciato a privatizzarla nel 1992, e questi processi sono continuati fino
ad ora. Stiamo parlando di decenni, cioè di un periodo storico. Se un
decennio di misure di questo tipo ha portato a questi risultati, come si può
pretendere di continuare su questa strada? Chi continuerebbe a prendere una
medicina che, ingoiata per 15 anni, non ha fatto che peggiorare il male?
Ma perché queste misure sono così dannose per l'Italia, visto che funzionano
in tutto il resto del mondo? La risposta, naturalmente, è che non funzionano
neppure nel resto del mondo. La fase attuale del capitalismo produce meno
sviluppo e più ineguaglianze sociali della fase precedente (quella dello
stato sociale e del modello "keynesiano-fordista"). Una ricostruzione
dettagliata di come l! e politiche "neoliberali" abbiano bloccato lo
sviluppo italian! o ed europeo la si può leggere in un recente libro di
Andrea Ricci . Ma, al di là di queste considerazioni di tipo economico, è
importante sottolineare come questa fase stia distruggendo la basi stesse
della vita sociale. Infatti il dato fondamentale della realtà sociale
attuale non è quella "globalizzazione" sulla quale tutti puntano l'attenzione,
ma è l'estensione dei rapporti sociali di tipo capitalistico a tutte le
sfere sociali, anche quelle che si erano sempre sviluppate secondo una
logica autonoma. Il modello sociale-economico capitalistico implica la
regolazione di tutti i rapporti secondo contratti nei quali ciascuno
persegue il proprio interesse. Ma se questo modello ha un senso nella vita
economica, non ne ha nessuno, se non secondario, nella scuola, nella sanità,
nei rapporti personali (per fare solo qualche esempio). Le nostre società
per sopravvivere hanno bisogno di giudici che credano nella legge, di
funzionari con senso dello stato, di docenti convinti del v! alore della
cultura e del sapere che trasmettono, di ricercatori appassionati di verità,
di lavoratori che amano il lavoro ben fatto, e non ultimo di madri e padri
che fanno figli e li allevano per amore. Ma i valori spirituali che questi
tipi umani rappresentano non hanno nulla a che fare col contratto e con l'interesse
economico. Come dice Castoriadis, "questi tipi non sorgono e non possono
sorgere da soli. Sono stati creati in periodi storici antecedenti, con
riferimento a valori allora consacrati e incontestabili: l'onestà, il
servizio dello stato, la trasmissione del sapere, il lavoro ben fatto ecc.
Ora noi viviamo in una società dove questi valori sono diventati, per comune
opinione, oggetto di derisione; dove conta solamente la quantità di denaro
che uno ha intascato, poco importa come, o il numero di volte in cui è
apparso in televisione" . Distruggendo questi tipi umani e i valori che essi
rappresentano, il modello sociale capitalistico distrugge in realtà le basi
! stesse della vita sociale, e qui sta la radice ultima della no! stra
decadenza. Che essa sia più evidente in Italia, rispetto ad altri paesi,
deriva da vari tipi di debolezze che il nostro paese si portava con sé e che
il boom economico e lo sviluppo del dopoguerra avevano occultato ma non
sanato.

Oggi ad essere presa di mira da modernizzazioni liberalizzatrici e
privatizzatrici è l'Università. Dopo la sciagurata riforma Berlinguer, il
ddl Moratti sullo stato giuridico dei docenti prosegue sulla strada della
distruzione dell'Università pubblica italiana. Questa opera distruttiva,
come tutte le precedenti, viene naturalmente descritta come modernizzazione,
innovazione, stare al passo coi tempi, e consimili banalità. Per un esame
analitico del ddl, che mostra come esso comporti, fra l'altro, la fine di
una struttura nazionale dell'Università e la reintroduzione di forme di
precariato a tutti i livelli, rimando ai molti documenti che circolano in
questo periodo, elaborati in quel vastissimo ambito del mondo accademico che
si oppone ad esso.
Per capire cosa fare e cosa pensare, di fronte a questo ulteriore passaggio
di distruzione sociale e culturale, occorre prendere molto sul serio quanto
abbiamo fin qui detto. Se l'Italia è un paese in decadenza, e l'Università
p! artecipa a questa decadenza, occorre tirarne tutte le conseguenze. Si
potrebbe obiettare che la decadenza italiana è una conseguenza del cattivo
governo del centrodestra, mentre un governo di centrosinistra riuscirà a far
ripartire lo sviluppo. La risposta, per quanto riguarda l'Università, è del
tutto ovvia: la distruzione dell'Università pubblica italiana è cominciata
con la riforma Berlinguer, voluta dal centrosinistra. Ma la stessa risposta
vale per tutti gli altri aspetti della vita del paese: liberalizzazioni,
privatizzazioni, distruzioni dei diritti dei lavoratori e delle prestazioni
dello stato sociale sono state compiute indifferentemente dai governi di
centrodestra e di centrosinistra. I governi di centrosinistra della seconda
metà degli anni 90 hanno approfittato di una congiuntura economica
internazionale favorevole, che ha ritardato l'esplodere delle conseguenze
negative delle loro scelte. Non si può dunque credere che una vittoria del
centrosinistra alle pross! ime elezioni arresti la decadenza italiana.
Nemmeno si può! sperare che sorgano in tempi brevi altre forze che siano in
grado di contrastare la fase attuale della società capitalistica,
"globalizzata" e decadente .
Ma se la decadenza italiana è una prospettiva alla quale non si vedono
alternative, nel breve e medio periodo, occorre, come dicevo sopra, trarne
le conseguenze. In una fase di decadenza, ieri era meglio di oggi, e oggi è
meglio di domani, e tutto ciò che è sensato fare è cercare di rallentare la
decadenza stessa. In concreto, mantenere le cose così come sono, o meglio
ancora riportarle a come erano ieri, e soprattutto impedire ogni
innovazione, che in una fase di decadenza è sempre un peggioramento. L'unico
programma realistico e sensato per l'Università italiana è dunque il
conservatorismo più tenace e intransigente: lasciare tutto com'è oggi, o
meglio ancora riportare l'Università a com'era prima della catastrofica
riforma Berlinguer. Cioè: abolire la riforma Berlinguer. Si tratta di una
proposta ragionevole, in una! fase di decadenza come la nostra, e facilmente
realizzabile: non si tratta di introdurre qualcosa di nuovo e sconosciuto,
con tutte le difficoltà che questo sempre comporta, ma di tornare ad una
Università della quale si sa tutto, pregi e difetti, che funzionava
(maluccio, certo, ma sempre meglio dell'Università berlingueriana di oggi o
di quella morattiana di domani), e per la quale tutte le leggi sono già
scritte.

Naturalmente, meglio ancora sarebbe riflettere su come uscire dalla
decadenza, sia per l'Italia sia per l'Università italiana. Si tratta, è
chiaro, di un tema enorme, perché, se si tiene presente quanto detto sopra,
uscire dalla decadenza vuol dire uscire dalla fase attuale dello sviluppo
capitalistico. Su questi temi, che non possono essere discussi in un
intervento breve come questo, mi permetto di rimandare al testo citato alla
nota 3. Ma anche le brevi considerazioni qui svolte hanno, mi pare, un'utilità.
Caratteristica della decadenza attuale è, infatti, il suo non essere
dichiarata: i politici non parlano d'altro che di progresso, sviluppo e
innovazione, eventualmente attribuendo la decadenza allo schieramento
opposto, e i giornalisti non sono da meno. In questa situazione, affermare
con forza la nostra realtà di decadenza e ricavare da tale affermazione
delle conseguenze razionali significa sforzarsi di capire dove realmente
siamo. Che è la condizione per potersi m! uovere.


Marino Badiale
Università di Torino
10 Ottobre 2005

1 Andrea Ricci, Dopo il liberismo, Fazi 2004.
2 C. Castoriadis, La monteé de l'insignifiance, Seuil 1998. Citato in L.
Gallino, L'impresa irresponsabile, Einaudi 2005, pag. 250.
3 Per una argomentazione più distesa di questa tesi, che non posso svolgere
qui, mi permetto di rimandare a M.Badiale, M.Bontempelli, Il mistero della
sinistra, Edizioni Graphos 2005.