| Martedì 25 Ottobre 2005 - 14:17 | Siro Asinelli |

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha dato il via libero all’avvio dei negoziati sul futuro status costituzionale della provincia serba del Kosovo e Metohija. Una decisione che non sorprende nessuno, tanto meno Belgrado. Lo scippo alla sovranità serba non si è compiuto ieri al Palazzo di Vetro di Nuova York; la rapina ha origini lontane, in quella guerra dei Balcani infinita, trascinatasi dalla Bosnia alla Krajna, dall’Erzegovina al Kosovo ed alla Metohija, finendo per lambire la Voijvodina e sconfinare in Macedonia. Un disegno atlantico studiato nei minimi particolari per minare dalle fondamenta l’ultimo dei baluardi sovrani, europei e soprattutto non allineati, la Jugoslavia assediata, stritolata, messa a fuoco e divisa. Come sempre nel nome della ‘democrazia’, la stessa che emerge in tutta la brutalità sanguinaria di cui è capace l’imperialismo buono, quello atlantico.
Il semaforo verde per la spartizione finale del Kosovo e Metohija è solamente un epilogo formale di un percorso burocratico e gestionale affidato all’Onu da Washington. Se lo aspettavano con amarezza a Kosovska Mitrovica come a Belgrado, se lo aspettavano le ultime sacche di resistenza civile serba nella regione e il Palazzo della Federazione della capitale.
Lo bramavano gli occupanti albanesi, chiamati a svolgere il ruolo sporco, quello del cacciatore per conto degli Usa, con una Pristina diventata il simbolo dell’imperialismo che avanza, passaggio obbligato della ‘tratta delle bianche’, del commercio degli organi, scalo per l’eroina in viaggio verso l’Europa. A vegliare una grande statua della libertà in plastica eretta sul tetto dell’Hotel Freedom, un cubo di cemento colorato che saluta i pochi visitatori in entrata dalla Serbia, da quello che ne rimane. Un monito la cui facciata nord è decorata con una gigantografia del capo dei ‘liberatori’, quel Bill Clinton che diede vita al massacro della Federazione di Jugoslavia.
Sarà passato di qui anche il messo dell’Onu, il norvegese Kai Eide, inviato nella regione per assicurarsi che fossero maturi i tempi per la secessione coatta. Un mandato che aveva ridato speranze ai pochi serbi rimasti da quelle parti, sicuri che qualcuno, prima o poi, avrebbe svelato qualche magagna, magari portando all’attenzione del Palazzo di Vetro l’insostenibilità delle condizioni di vita della comunità serba sotto il giogo dei terroristi in doppiopetto dell’Uck. Ma così non è stato.
Certo, qualche contentino per Belgrado c’è stato: il fido Eide ha parlato di una certa carenza di democrazia, di parametri violati, di diritti negati. Ma il risultato non cambia: per le Nazioni Unite solo una spinta indipendentista può portare ‘libertà’ e ‘democrazia’ nella regione, in barba alla stessa risoluzione 1244 che sanciva la “sovranità della Serbia sul Kosovo e sulla Metohija”.
Una sovranità che Belgrado non è disposta a cedere, almeno a parole: “Non accetteremo una separazione violenta di parte del territorio serbo”, ha dichiarato il primo ministro Vojislav Kostunica da Nuova York. Belgrado è disposta a cedere su uno statuto autonomo, tutt’al più su una cantonizzazione della regione. I negoziati inizieranno entro poche settimane e saranno unilaterali, come è costume in questo scenario atlantizzato. Belgrado non opporrà resistenza, perché in ballo ci sono gli accordi di pre-associazione con Bruxelles, i finanziamenti usurai della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.

Siro Asinelli