Robert FAURISSON 1 settembre 2005



L'immagine degli ebrei presso i francesi: verso un deterioramento?



Secondo un rapporto del “Centre d’étude de la vie politique française” (CEVIPOF), il 35% dell'insieme della popolazione francese pensa che si parli troppo dello sterminio degli ebrei, il 20% ritiene che gli ebrei abbiano troppo potere in Francia e il 51% ha un’immagine negativa dello Stato d'Israele. Per la popolazione francese originata dall'emigrazione turca ed africana, le percentuali sono rispettivamente del 50%, del 39% e, paradossalmente, del 49% (“Des préjugés antisémites plus répandus”, Le Monde, 31 agosto 2005, pag. 7).



Sia che si tratti d’indigeni o allogeni, molti Francesi non si lasciano dunque ingannare troppo dal martellamento della propaganda ebraica.



Troppa propaganda ebraica



E' vero che, nel complesso, i francesi sembrano credere a ciò che i mezzi di comunicazione, i politici, la scuola e l'università ripetono loro con insistenza circa il preteso sterminio degli ebrei. Essi ignorano quasi tutto delle argomentazioni revisioniste. Persistono nel confondere forni crematori e “camere a gas”. Scambiano le fotografie di detenuti morti (a causa di epidemie) per fotografie di detenuti uccisi. Non sanno che i mucchi di calzature, di capelli e di occhiali nei campi di concentramento testimoniano semplicemente che, nell'Europa in guerra e vittima di un blocco, veniva organizzato il recupero di tutto ciò che poteva essere riutilizzato e riciclato a fini diversi. (Ancora oggi, nella nostra società dei consumi, non si raccolgono forse prodotti come occhiali o grucce inutilizzate per farne beneficiare le popolazioni del terzo mondo?). In Francia, durante la guerra, i capelli tagliati nei saloni dei parrucchieri venivano obbligatoriamente raccolti per l'industria che li utilizzava per la confezione di abiti, maglioni o pantofole. Ogni campo di concentramento aveva i propri laboratori di calzoleria e molti altri laboratori ancora. In modo più generale, è anche possibile che i Francesi prestino fede alle false testimonianze dei “sopravvissuti” e dei “miracolati” che invadono i nostri schermi e le aule dei nostri licei. Quei Francesi continuano a credere che la “soluzione finale” significasse “sterminio fisico” e che il pesticida Zyklon B servisse ad uccidere gli ebrei.



Ma questa propaganda, che essi credono fondata su una buona parte di realtà, infastidisce molti nostri concittadini o li stanca.



Il rimedio raccomandato da certi ebrei: ancora più propaganda!



Certi ebrei se ne rendono conto. Nel numero di settembre 2005, la rivista L’Histoire, diretta da Michel Winock, pubblica (pagg. 77-85) contemporaneamente un’inchiesta di Claude Askolovitch intitolata “Y a-t-il des sujets tabous à l’école ?” (Ci sono forse argomenti tabù a scuola? – N.d.T.), e un’opinione di Annette Wieviorka. In grande misura una bidonata, l'inchiesta porterebbe a credere che non si possa più insegnare la Shoah nelle scuole senza rischiare una sorta d’“incendio” [sic] da parte degli allievi. Vi si riconosce di sfuggita che, per parlare della Shoah, gli insegnanti dispongono di “un materiale pedagogico ormai pletorico” (Annette Wieviorka, pag. 80); vi si ammette che alcuni di loro “confermano il sentimento di ‘saturazione’ provato dagli allievi davanti al genocidio ebraico” (pag. 81) e vi si rileva che questi ultimi sono talvolta “saturi ed ormai indifferenti” (pag. 85). Il rimedio dovrebbe dunque consistere nel rompere meno i timpani degli allievi e nel risparmiare loro questa perpetua insistente ripetizione. Eppure tale non è l'opinione di Annette Wieviorka. Per lei, l'errore è stato quello di fare della Shoah un corso “a parte” e sarebbe opportuno che ormai l'intero insegnamento portasse il marchio della Shoah. Non ci si accontenterebbe più del Concorso sulla Resistenza e la Deportazione, della Giornata della Deportazione, di Nuit et Brouillard, di film di Spielberg, di Polanski o di Lanzmann, della lettura obbligatoria del Diario di Anna Frank o di opere di Primo Levi e di Jorge Semprun, di incontri con ex-deportati e, soprattutto, di corsi specifici su questa Shoah. Annette Wieviorka vorrebbe molto di più e scrive: “Dovunque sia possibile insegnare normalmente, è possibile anche insegnare la storia della distruzione degli ebrei d'Europa”. La frase è oscura ma il contesto la rende chiara. Per questa storica, autrice di un’opera intitolata Auschwitz expliqué à ma fille (Seuil, 1999) (Auschwitz spiegato a mia figlia, Einaudi, 1999 – N.d.T.) quasi tutti gli insegnanti potrebbero cogliere l'occasione per evocare la Shoah: in storia, in geografia, nei corsi d'educazione civica, nelle lingue straniere, in matematica, in chimica, nelle scienze naturali, in tecnologia, in musica, in disegno e, certamente, in talune attività parascolastiche. Alla lunga i bambini si ritroverebbero così impregnati di Shoah senza nemmeno rendersene conto. Si può immaginare che le visite dei campi di concentramento, già organizzate a pieno ritmo con sistema charter, si trasformerebbero in pellegrinaggi pienamente consentiti. Già nell'insegnamento elementare, alla riapertura delle scuole per l'anno scolastico 2005-2006, i piccoli Francesi non avranno forse a disposizione la “cartella Simone Veil” ?



Contrario al senso comune, quest’atteggiamento di Annette Wieviorka e dei suoi correligionari si spiega anzitutto con la loro millenaria pratica del gemito e della rivendicazione. Esso trova anche la sua fonte nel timore che ispira agli ebrei l'apparizione alla luce del sole di uno scetticismo generalizzato che, finora, essi sono riusciti a contenere. Questi ebrei sanno che, sul piano razionale, il revisionismo ha vinto[1]. Non resta loro che una scappatoia: spingere a fondo, ancora più a fondo, il loro impianto di sonorizzazione shoatico, con il rischio d'alienarsi ancora di più le simpatie dei Francesi di qualsiasi origine[2]. Clamori e macchinazioni dei propagandisti non cambieranno nulla: il revisionismo è la loro camicia di Nesso e non se ne sbarazzeranno.



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[1] Vedi Robert Faurisson, “Dieci anni fa la capitolazione di Jean-Claude Pressac” (15 giugno 2005). In un testo assai poco conosciuto, l'uomo della Provvidenza, che aveva fama di essere colui che aveva sbaragliato i revisionisti, ha finito per dichiarare che, a ben considerare il tutto, il dossier ufficiale della storia concentrazionaria era irrimediabilmente “putrefatto” e conteneva troppi elementi “destinati alla pattumiera della Storia”.

[2] In un'opera recentemente tradotta in francese (Rescued from the Reich: How One of Hitler's Soldiers Saved the Lubavitcher Rebbe, Yale University Press, 2004), lo storico israelo-americano Bryan Mark Rigg descrive questa propensione a mettere la memoria ebraica al di sopra di tutto anche a detrimento dell'esattezza storica. Citando le parole di un famoso rabbino Lubavitch: “La Torah e il Talmud vengono prima della storia”, egli prosegue: “Sebbene si possano rispettare queste credenze, l’approccio astorico dei Lubavitch al loro movimento si rivela in modo drammatico allorché qualcosa nella documentazione sminuisce l’immagine della loro organizzazione o del loro rebbe [capo spirituale di un gruppo di ebrei chassidim; in questo caso il rebbe Joseph Isaac Schneersohn]. Se un elemento può essere interpretato negativamente [da questi ebrei], essi dicono spesso che è falso o che si tratta di un’errata interpretazione dei documenti, o della spiegazione di coloro che li odiano, o semplicemente del segno di un’inadeguata comprensione del loro movimento. Per molti di loro, è inconcepibile mettere in discussione il rebbe. Inoltre, quando a loro non piace qualcosa nei documenti che riguardano il loro gruppo, spesso censurano il materiale o lo modificano. Sono persino noti, secondo Avrum Ehrlich, per aver falsificato dei documenti per provare un’affermazione o celare un fatto spiacevole della loro storia” (pag. 211). Bryan Mark Rigg non fa che confermare qui ciò che Bernard Lazare descriveva nel 1894, nel primo capitolo della sua opera L’Antisémitisme, son histoire et ses causes, con molti altri esempi che mettono in discussione l’intera comunità ebraica.