Sari Nusseibeh intervistato da Umberto De Giovannangeli
Da l'Unità online, 29 ottobre 2005
"Io palestinese condanno Teheran
«No, non basta dire che quelle affermazioni ledono la causa palestinese. Non
basta denunciare il fatto che per l'ennesima volta nella storia, qualcuno
cerca di strumentalizzare la causa palestinese a fini di legittimazione
interna e per logiche di potenza. No, tutto questo non basta per spiegare le
ragioni della mia più totale contrarietà all'invocazione della distruzione
di Israele fatta dal presidente iraniano. Oggi più che mai noi palestinesi
dobbiamo riaffermare con forza, senza ambiguità di sorta, che la nostra
lotta è per costruire uno Stato indipendente, democratico che viva a fianco
dello Stato di Israele. È per aggiungere uno Stato non per distruggerne un
altro. Chi vaneggia la cancellazione del sionismo dal mondo e Israele dalla
carta geografica del pianeta fa violenza a due popoli». A parlare è Sari
Nusseibeh, presidente della Università Al-Quds di Gerusalemme Est, il più
autorevole intellettuale palestinese. Sulla ripresa del terrorismo,
Nusseibeh è altrettanto netto: «Non basta più dire che gli attentati suicidi
danneggiano la causa palestinese. Dobbiamo avere la forza di affermare una
volta per tutte che l'Intifada dei kamikaze è una condanna a morte per il
popolo palestinese. L'alternativa ai kamikaze non è il silenzio, non è la
resa; l'alternativa è nella disobbedienza civile, nella resistenza popolare
non violenta, nell'affermare i propri diritti e la propria identità contro
tutti i signori della guerra, qualunque divisa o corpetto essi indossino».
La Comunità internazionale ha condannato le affermazioni del presidente
iraniano Ahmadinejad sulla distruzione di Israele.
«È una condanna inevitabile a cui mi associo. Qui non si tratta di
stigmatizzare singoli atti della politica israeliana che ledono la dignità,
oltre che i diritti, del popolo palestinese. Non è di questo che ha parlato
il presidente iraniano. Il suo è stato un discorso che si proietta anche
oltre la guerra di religione e va rigettato per ciò che è e non solo perché
potrebbe offrire un pretesto a Israele per arroccarsi su posizioni di
chiusura. Da palestinese dico: quel discorso sconvolge la mia storia,
violenta lotta del mio popolo piegandola strumentalmente a una visione che
non ha niente a che vedere con le ragioni per cui ci battiamo. Nessuno può
considerare i palestinesi carne da macello per inaccettabili Guerre sante
combattute per conto terzi».
Qual è il punto culturale oltre che politico che deve servire da spartiacque
rispetto alle affermazioni del presidente iraniano?
«Lo spartiacque? Criticare, anche aspramente se è necessario, Israele per
quello che fa e non per quello che è. Criticarlo quando realizza il Muro in
Cisgiordania che spezza villaggi palestinesi, divide famiglie, distrugge
terre coltivate; criticarlo per le umiliazioni inflitte quotidianamente a
migliaia di palestinesi ai ceck-point, per l'unilateralismo delle sue scelte
che nega legittimità alla rappresentanza della controparte, per il rifiuto
ad aprire un negoziato di pace che affronti senza pregiudiziali tutti i
contenziosi ancora aperti. Ma mai, mai metterlo sotto accusa per la sua
identità, per essere uno Stato ebraico. Perché è con questo Stato, con la
sua inalterabile identità, che lo Stato di Palestina dovrà convivere».
Oggi (ieri, ndr) a Teheran migliaia di persone hanno partecipato ad una
manifestazione al cui centro c'era lo slogan: «Morte a Israele».
«Le manifestazioni in cui mi riconosco sono quelle che costruiscono e non
che distruggono. La solidarietà di cui abbiamo bisogno è quella positiva, di
chi è convinto che la pace, una pace giusta, durevole, tra pari, si fondi
sul principio di due popoli e due Stati. È questa la solidarietà che
ricerco, la solidarietà che costruisce ponti di dialogo e non innalza invece
altri "Muri" di odio».
Dello stesso avviso non sono i kamikaze tornati a colpire Israele.
«Non è da oggi che contesto l'Intifada dei kamikaze. Il terrorismo contro i
civili non può avere alcuna giustificazione, va rigettato senza se e senza
ma. Il che non significa costringersi al silenzio, arrendersi di fronte alla
logica del più forte, accettare di vivere come un popolo oppresso e
sconfitto. L'alternativa alla militarizzazione dell'Intifada è nella pratica
della non violenza, è nello sviluppare la disobbedienza civile, è
organizzare manifestazioni pacifiche, di massa ai ceck-point. È mostrare il
volto vero di un popolo fiero, che non si piega e non rinuncia ai propri
diritti e ai propri sogni di libertà, ma che nel momento stesso in cui si
batte per la propria liberazione riesce a parlare anche all'altro popolo,
agli israeliani. È questa la sfida del dialogo che dobbiamo lanciare, è la
scommessa con noi stessi. Il nostro modello è Nelson Mandela e non Mahmoud
Ahmadinejad».