La Storia
Nel 210 a.C., una donna che avesse voluto abortire sarebbe stata libera di farlo a condizione di non urtare la volontà del padre del bambino; oggi, in una struttura deputata, una donna può interrompere la gravidanza entro il novantesimo giorno dal suo inizio, nella certezza di essere l’unica responsabile della decisione.
Nell’antica Roma, come già in Grecia, l’aborto era una pratica largamente diffusa, moralmente accettata e giuridicamente lecita.
Il solo limite era connesso alla tutela dell’interesse maschile: laddove avesse disatteso l’aspettativa del padre, non era ammesso.
Con la nostra legge 194, l’uomo responsabile del concepimento può essere sentito solo laddove la donna lo consenta, (art. 5) ma non ha potere di decisione. Nel corso dei secoli l’aborto è passato dall’essere una questione privata a una questione pubblica; il feto, prima mera parte delle viscere materne, è diventato (in virtù delle scoperte scientifiche) un soggetto definibile autonomamente; la donna, da essere subalterno, ha acquistato diritti e status che le hanno finalmente riconosciuto pieni diritti nello Stato, e sul suo corpo; la gravidanza è divenuta una relazione potenzialmente conflittuale tra due entità separate.
Nel tempo è anche mutato il modo in cui il diritto si è occupato del padre del nascituro. Inizialmente, è stato protetto in quanto potenziale vittima della decisione della donna di interrompere la gravidanza.
In seguito, il diritto si è occupato dell’uomo in quanto possibile responsabile della pratica proibita.
Da quando però l’aborto è diventato una pratica legalizzata, il padre del concepito ha posto un problema nuovo: se è lecito decidere di interrompere la gravidanza, qual è lo spazio dell’uomo nella scelta? Solo la donna ha voce in capitolo?
Tantissime le mogli che abortiscono per far dispetto ai loro mariti nell’antichità: stando alle fonti dell’epoca, è tutto un pullulare di donne che, con potenti veleni o ricorrendo a strumenti meccanici, interrompono la gravidanza in odio al coniuge. Racconta il retore Sopatro (V secolo) come Antigene avesse accusato la propria moglie di omicidio: ella infatti aveva volontariamente abortito onde impedirgli “d’esser chiamato padre di un figlio”. Iseo, nel suo discorso Sull’eredità di Chirone (databile tra il 383 e il 363 a.C.) riferisce invece di una moglie che, volendo cercare di trattenere – per ragioni ereditarie – il marito dall’adottare nipoti, finse prima di essere incinta, e poi di aver subito un aborto spontaneo. Racconta Tacito, che quando Nerone decide di liberarsi di Ottavia, lo fa accusandola falsamente di aver commesso adulterio con Aniceto (prefetto della flotta di Miseno). Se anche è indubbiamente falso in questo caso che la donna abbia abortito (l’imperatore si dimentica di aver egli stesso, poco prima, denunciato la sterilità di sua moglie), è anche in virtù di questa accusa che ella verrà confinata a Ventotene, e fatta uccidere.
Ancora, sarebbe stata proprio la preoccupazione per la nascita di suo figlio, ad indurre Rutilio Severo ad avanzare al pretore una singolare richiesta. Temendo per l’esito della gravidanza dell’ex moglie Domizia (che nega di essere incinta), egli domanda infatti che le sia affiancato un custode onde impedirle di abortire. La richiesta, accolta dagli imperatori dell’epoca Marco Aurelio e Lucio Vero (161-169 d.C.), darà vita al nuovo istituto giuridico della ispezione e della custodia del ventre nell’interesse del marito. Racconta Ulpiano che “una cosa nuova sembra desiderare Rutilio Severo: di porre un custode alla moglie, che da lui aveva divorziato e dichiara di non esser incinta; […] suggeriamo un nuovo criterio e rimedio. Se dunque persiste nella stessa richiesta, è perfettamente adeguato che si scelga la casa di un’onestissima donna, in cui Domizia si rechi, ed ivi tre ostetriche sperimentate per scienza e coscienza, (…) la sottopongano in esame. E se tutte, o due di esse, abbian riferito che appare incinta, allora bisognerà indurre la donna ad accettare un custode (…). Se viceversa o tutte o le più, abbian riferito che la donna non è gravida, non sarà ragione di porle un custode”.
In un contesto giuridico-culturale che considerava la pratica lecita, l’aborto compiuto dalla donna in odio al marito (motivazione che compare ancora nelle pagine del Digesto italiano nel 1927) suscitava nella legislazione dell’antica Roma diverse reazioni: dava diritto al marito di chiedere il divorzio, comminava alla moglie la multa del sesto dotale, e, dalla fine del Secondo secolo in poi, poteva condurla all’esilio temporaneo. L’interruzione della gravidanza contro il volere del coniuge era legittima causa di divorzio. Così fino a Costantino che, nel 331, riordinando i casi in cui è ammesso il ripudio (il divorzio consensuale invece rimarrà valido anche dopo) escluderà il caso di aborto della donna contro la volontà del coniuge. Tale motivazione verrà però ripescata da Giustiniano nel 533 (“se invero la donna sia di tanta malvagia da arrivare a procurarsi l’aborto e addolorare il marito e togliergli la speranza di figli”).
Si tratterà però di una comparsa fugace: nove anni dopo, l’aborto della moglie a dispetto del coniuge non compare più tra le cause legittime di divorzio. Ma Leone VI (928) riammette questa eventualità:
“Assurdo infatti mi sembra, ed assolutamente ingiusto, che colei che in così manifesto modo ha preso avversione al marito da corrompere il suo seme, e tralascio che anche della comune natura è insidiatrice, conviva con lui”.
Tornando al diritto romano, laddove la coppia avesse divorziato per colpa della donna, era previsto che l’uomo potesse trattenere un sesto della dote per ogni figlio (“col massimo però di tre sesti” scrive Ulpiano). Ebbene, aggiunge il giureconsulto Paolo, la donna che s’è procurata l’aborto contro la volontà del marito è multata di un sesto della dote come se avesse partorito. Dopo il divorzio e la multa, arriviamo all’esilio temporaneo per la moglie. Una svolta importante, perché è la prima sanzione pubblica contro il procurato aborto.
Con questo provvedimento degli imperatori Settimio Severo ed Antonino Caracalla (al potere dal 198 al 211 d.C.), il procurato aborto esce dall’ambito della famiglia e diviene un fatto penalmente perseguibile. La norma, oltre a coinvolgere chi l’abbia praticato (lavori forzati in miniera o relegazione in un’isola con parziale confisca dei beni; pena capitale in caso di morte della donna), riguarda specificatamente la divorziata e la sposata che abbiano abortito contro il volere del marito. Il quale può pretendere che le sia inflitto l’esilio temporaneo. L’aborto era classificato tra i “crimina extraordinaria” e l’esilio era di durata non specificata, ma non permanente. Dal provvedimento erano escluse le donne che avessero agito d’accordo con il marito, così come le non coniugate. Il messaggio è chiaro: non importa la sorte del feto, interessa solo il rispetto dell’autorità del marito. Già Cicerone, nel difendere un suo cliente nel 66 a.C., aveva richiamato nella sua arringa il precedente di una donna di Mileto “condannata per crimine capitale perché, per denaro avuto dai secondi eredi, s’era procurata con medicamenti l’aborto”. Anche qui, la colpa è quella di aver “tolto di mezzo la speranza del padre, il ricordo d’un nome, l’erede di una famiglia”.
Il curatore del ventre
Non che la prima fase della storia dell’aborto si chiuda qui. La visione della pratica come una eventualità accettata e lecita permarrà fino al Settimo secolo; dopo invece, per l’influenza cristiana, in molte legislazione muterà l’impostazione di fondo.
Perseguendo l’aborto non si tutelerà più l’interesse dell’uomo di riferimento, ma piuttosto quello del feto a non essere danneggiato. Gli ordinamenti secolari però non avranno una propria visione in materia, limitandosi a seguire a ruota le indicazioni religiose. Così ad esempio troveranno spazio quelle che erano le due esimenti al peccato previste dalla Chiesa, e cioè l’aborto dovuto alla causa d’onore e quello imputabile alla grave povertà della donna. Non solo la Chiesa dunque, ma anche lo Stato “perdonava” molto più facilmente l’aborto delle ragazze-madri, non certo le sole ad abortire per disperazione, ma pur sempre le più disperate.
Solo dopo la Rivoluzione francese, per la prima volta, i legislatori elaborano costruzioni autonome in materia di aborto. In nome del fatto che la forza dello Stato dipende dal numero di quanti lavorano e combattono, l’aborto verrà perseguito con uno zelo prima sconosciuto. Nessuna esimente per la povertà: anche i poveri sono numericamente utili (almeno finché non esagerano, come insegna Malthus) e, soprattutto, l’aborto è una pratica che si ritiene coinvolga le fasce sociali inferiori.
Scrive Johann Peter Frank (1745-1821), illustre esponente del riformismo austriaco e uno dei massimi teorici della polizia medica in Europa, che “la donna gravida non è più semplice moglie del cittadino, ma in un certo modo proprietà dello Stato”. Non si poteva essere più chiari e sintetici: l’ordinamento instaura con il futuro cittadino un rapporto diretto, superando non solo la mediazione materna (mai come in questo momento la donna è puramente funzionale alla produzione del nuovo individuo) ma anche quella paterna. Se già il legislatore longobardo aveva previsto la pena della morte o dell’accecamento (a discrezione del giudice) tanto per la madre quanto per il padre, ora però l’ottica generale è cambiata; l’uomo non è più il dominus incontrastato della scena, ora c’è dell’altro. Come sottolineerà il celebre penalista Enrico Pessina (1828-1916), nell’aborto ciò che viene leso non è la persona del nascituro, ma “il diritto della società verso il processo di formazione a vita”.
Se la parte lesa diventa lo Stato, non c’è più spazio per il padre come potenziale vittima dell’aborto. Le leggi penali di Giuseppe Bonaparte per il Regno di Napoli del 1808 ad esempio, nell’occuparsi all’articolo 190 del parricidio “commesso in persona de’ figliuoli”, contempleranno, oltre all’infanticidio e all’esposizione, anche l’aborto procurato. Del resto, ci sono addirittura dei legislatori che scelgono di occuparsi espressamente del responsabile del concepimento, non essendo (per così dire) sufficiente farlo genericamente rientrare tra quanti concorrono al reato. Così, ad esempio, il Codice penale austriaco del 1852 prevede tra le aggravanti dell’aborto, il caso in cui il padre del nascituro sia stato correo del crimine, come i coevi codici dell’Uruguay e del Venezuela.
Dopo che quasi tutti i progetti di codice penale proponevano di aggravare la pena contro il marito (così ad esempio il secondo progetto, il progetto Vigliani, il progetto senatorio, il progetto Mancini, il primo progetto Zanardelli e il progetto Savelli), anche il codice Zanardelli, il primo codice penale unitario del 1889, contemplerà questa aggravante. Essa però operava solo in caso di aborto non consensuale: “Le pene […] sono aumentate di un sesto, se il colpevole sia il marito”.
In realtà molti avevano proposto di estendere l’aggravante anche all’aborto consensuale, “per la maggiore facilità di commettere il delitto, per l’influenza del marito sulla moglie, per la violazione dei doveri familiari”, ma poi si lasciò perdere; se la donna era d’accordo, non v’era motivo di aggravare la pena per l’uomo.
A partire dal codice penale francese del 1810, i testi ottocenteschi collocano l’aborto tra i reati contro la persona, in particolare tra gli attentati alla vita, a parte qualche eccezione, come il codice sardo di Carlo Felice che lo inserisce tra i delitti contro l’ordine della famiglia. La tesi però non ebbe successo. Essa infatti lasciava fuori gli aborti delle gravidanze extraconiugali. “Siccome non può esservi diritto senza un soggetto cui spetti […], a chi dovrà attribuirsi il diritto di famiglia violato mediante l’aborto? Al marito, come opinavano i romani? No certamente poiché il più spesso soggetto dell’aborto è una donna nubile”, così notava Tommaso Mura Succu (nel suo “L’aborto nel diritto penale e nella medicina legale”). L’unica cosa che conta ormai è l’interesse dello Stato. Per questo non si fa più differenza tra aborto di nubile o aborto di coniugata, ed è sempre per questo che l’esimente della povertà di cristiana memoria viene fatta cadere. Del resto, è pur vero che verso i figli illegittimi, con il loro attentare all’ordine sociale, il diritto ottocentesco sarà particolarmente duro, ma ai fini dell’aborto non interessa: bastardi o legittimi che siano, i nati lavorano e combattono (negli anni Quaranta, il giurista Antonio Visco scrive che “la pratica antiumana” del coitus interruptus “froda lo Stato poiché sottrae migliaia e migliaia di cittadini alla nazione”). Dopo la Seconda guerra mondiale tutto cambia di nuovo: il numero non conta più così tanto. Le macchine infatti lavorano al posto degli uomini e, al posto di tanti uomini, fanno la guerra. Nel giro di qualche decennio, anche sulla potente spinta delle rivendicazioni del movimento femminista, nel mondo occidentale abortire diviene legale (anche se ci sono paesi, come Irlanda, Portogallo e Malta, in cui abortire è ancora illegale).
La prima legge in questo senso fu l’Abortion Act inglese del 1967. Pur se inquadrata differentemente (diritto alla privacy negli Stati Uniti, diritto alla salute da noi), la scelta di interrompere la gravidanza è attualmente riconosciuta alla donna, e a lei sola.
Ma alcuni uomini hanno cominciato a reclamare il diritto di aver voce in capitolo.
Nel maggio 1978, mentre da noi entra in vigore la legge 194, Joan Mary Paton, cittadina inglese, decide di abortire. Si reca , come previsto dalla legge, da due medici, i quali le rilasciano il necessario certificato: in esso si affermava che l’aborto era opportuno onde evitare eventuali danni fisici o psichici alla gestante o al nascituro. Tutto è pronto per l’intervento, quando il marito di lei viene a conoscenza dei fatti: è fermamente contrario all’aborto, mentre la donna è decisa nel volerlo eseguire, e la legge le dà il diritto di decidere. L’uomo si rivolge ai giudici perché emanino un’ingiunzione inibitoria. Tempo una settimana, e l’Alta Corte di Giustizia di Liverpool (24 maggio 1978) decide che la Paton è libera di abortire, perché al marito non è riconosciuto alcun diritto di interferire in quella decisione.
Né come genitore né come marito William Paton ha diritto di dire la sua. L’uomo non si dà per vinto, e decide di rivolgersi agli organi europei. Anche la Commissione però gli darà torto (13 maggio 1980).
Che cosa è cambiato nella modernità
Molto interessante è anche la successiva vicenda di un norvegese di religione ebraica, che dopo un lungo periodo di convivenza decide con la sua compagna di avere dei figli. La donna rimane incinta ma cambia idea, e decide di abortire alla quindicesima settimana. Inutilmente, rivolgendosi alla giustizia, l’uomo tenta di evitare l’aborto, o almeno di vedersi riconosciuto il diritto ad essere consultato e informato (anche alla richiesta di poter seppellire il corpo del figlio secondo il rito ebraico riceve risposta negativa). Altrettanto inutilmente del resto, egli si rivolgerà agli organi comunitari (19 maggio 1992).
Il dibattito sul ruolo maschile è molto acceso anche in Italia. Basti ricordare lo scandalo che ha sollevato l’intervento di Giuliano Amato sull’Espresso, nell’aprile del 1988. Amato sosteneva che “l’aborto deciso dalla madre senza neppure informare il marito […] ignora il valore costituzionale dell’unità familiare”. Il tema è, del resto, balzato agli onori della cronaca quando, qualche anno fa, un giovane torinese, volendo impedire l’aborto della sua fidanzata, sparò al soffitto della sala operatoria (se non ricordo male, venne poi fuori che in realtà nemmeno lei voleva farlo; già alle mie orecchie di bambina sembrò più un gravissimo problema di comunicazione…). Fatto sta che la questione è stata riproposta più volte dinnanzi alla nostra Corte costituzionale. Essa però, interrogata anche di recente, ha continuato a ribadire come “la norma impugnata è frutto della scelta politico-legislativa […] di lasciare la donna unica responsabile della decisione d’interrompere la gravidanza”.
La questione è indubbiamente molto complessa, ma la risposta della nostra legge 194 è chiara. Non è tanto questione della proibizione di cui all’art. 5 citato in apertura (in base al quale l’uomo può essere sentito solo laddove la donna lo consenta).
Il punto è un altro. In base alla legge infatti, abortire entro i primi novanta giorni dal concepimento è possibile solo nella misura in cui ciò avvenga per tutelare la salute della donna, quando cioè la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comportino un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica.
Ciò deve avvenire, alternativamente, in relazione a stato di salute (non più intesa in senso meramente organico, ma allargata a comprendere “l’equilibrio esistenziale” della donna), condizioni economiche, sociali o familiari, circostanze del concepimento, previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. L’autodeterminazione della donna non risulta garantita e protetta come valore in sé, né la vita del feto è a discrezione della madre. L’esercizio della possibilità di scegliere le viene accordato infatti in quanto possibile soluzione per l’eventuale conflitto tra la sua salute e la difesa dell’esistenza del feto. In base alla 194 cioè, non esiste una “libertà” costituzionalmente garantita di abortire, né la donna ha diritto di rifiutare liberamente la maternità in atto.
E’ evidente comunque come dal conflitto tra la salvaguardia della salute della donna e la difesa dell’esistenza del feto rimanga escluso qualsiasi diritto del padre a interferire nella decisione che porta all’aborto.
Giulia Galeotti
(autrice di “Storia dell’aborto”, Il Mulino)
Da il Foglio
saluti