CONVEGNO SULL’EUROCENTRISMO INDETTO PER IL 26 NOVEMBRE A NAPOLI DA “RED LINK” e “RETE DEI COMUNISTI”
INVITO AL CONFRONTO ED ALLA RICERCA COLLETTIVA:

Cari compagni, dopo una prima fase di discussione informale abbiamo convenuto, assieme alla RETE DEI COMUNISTI, di organizzare per il prossimo Sabato 26 Novembre, a Napoli, un CONVEGNO PUBBLICO che affronti la questione dell’EUROCENTRISMO nei suoi vari aspetti teorici e nel variegato arco di ricadute politiche che tale questione contiene. La Traccia di Discussione che alleghiamo a questo Invito - pur non essendo un punto di vista neutrale - vuole essere uno stimolo ad un lavoro di ulteriore ricerca e di riqualificazione delle nostre categorie teoriche/politiche utili all’agire sociale. Tutto ciò specie nella nostra Italietta dove tali questioni o sono state rimosse o hanno subito l’egemonia culturale di un accademismo volgare e razzista anche quando si ammanta di “sinistra” o di “progressismo”, svelando il suo volto xenofobico, differenziante e negatore di ogni istanza di trasformazione sociale. Abbiamo invitato a questo CONVEGNO alcuni intellettuali che porteranno alla discussione il loro contributo, particolarmente nella fase mattutina del 26/11; inoltre, dopo la pausa di mezza giornata, prevediamo un dibattito – più a ruota libera – dove compagni ed attivisti dei movimenti potranno articolare una modalità di affrontamento della tematica in forme meno specialistiche e più vicine ai compiti di lavoro politico che quotidianamente viviamo. Vi aspettiamo SABATO 26 NOVEMBRE a Napoli, dalle ore 10, alla Sala Santa Chiara (Piazza del Gesù). RED LINKRETE DEI COMUNISTI Per informazioni, contatti: · red_link@tiscali.it (3292403339 Roberto, 3297856389 Michele) · cpiano@tiscali.it TRACCIA DI DISCUSSIONE …………..casualmente scritta il 12 ottobre, Columbus day Cosa ci ha spinto ad un convegno del genere? La sinistra che dice di richiamarsi al marxismo non ha generalmente una grande considerazione dei lavoratori, che in misura via via maggiore sono utilizzati lontani dai processi produttivi avanzati, siano questi ultimi collocati nelle periferie sia nelle stesse metropoli dominanti. A giustificazione di questa sottovalutazione, essa adduce, a volte, che tali lavoratori spesso iniziano le loro lotte sotto l’influenza di ideologie populiste e reazionarie, altre volte, la minore incidenza delle stesse sulla forza del capitalismo. Per esperienza ultradecennale e anche per parziale nostra condivisione di tale sottovalutazione, ci siamo sempre più resi conto che questo, che consideriamo un grave errore, ha motivi diversi e più profondi –sebbene non confessabili per un marxista- di quelli addotti. In parte, questi diversi e più profondi motivi, sono affiorati con la ripresa delle aggressioni imperialiste, a partire dalla cosiddetta Guerra del Golfo del 1991, e sono affiorati per la prima volta sorprendentemente anche nella sinistra più radicale. Per meglio evidenziare la pretestuosità dei motivi apparenti e la necessità di indagare quelli veri, basti preliminarmente fare due considerazioni: 1)-la dovuta maggiore valutazione dei lavoratori periferici può bene accordarsi –e ben si è accordata nel passato- con una critica delle ideologie populiste e reazionarie; 2)-i lavoratori “avanzati” –assunti come parametro per definire reazionari quelli “periferici”- non sono generalmente immuni nei lunghi tran-tran dei conflitti di bassa-media intensità da ideologie altrettanto reazionarie, anche quando seguono partiti e sindacati della sinistra riformista; per dirlo con una battuta, non ci pare di cogliere molta differenza, per stabilire il grado di “purezza” classista, tra chi “si beve” gli sciroppi imperiali del DS e chi s’inebria con le illusioni del gruppo dirigente di Hamas; è davvero stupefacente che il discrimine –come pure ci capita di sentire- sia una laicità progressista, resasi complice delle immani distruzioni del XX secolo. La gravità del problema non può più essere elusa, quando diventa sempre più chiaro che l’attitudine sopra riportata non tende ad evitare il terzomondismo, ma, alla prova dei fatti, a ritenere terzomondismo una concezione unitaria di tutti gli sfruttati o a ritenere populista una manifestazione di precari con presenza di disoccupati. Questa attitudine denudata di tutti gli orpelli demagogici, sostiene di nuovo la centralità –e nei casi limiti, l’esclusività- dei lavoratori avanzati: che poi questi si possano chiamare classe operaia europea, operai intellettuali o precari-cognitivi non cambia molto la sostanza. Essa, pur con la pretesa di voler cambiare il mondo intero, arriva perfino a prendere atto con soddisfazione che, per esempio nei paesi arabo-musulmani, un’area abitata da circa un miliardo e mezzo di persone, i comunisti e simili sono praticamente scomparsi e, spesso, invisi: ciò dimostrerebbe che i comunisti rappresentano veramente la rivoluzione contro una marea di reazionari che ancora si ostinano ad esistere. Specificità dell’eurocentrismo Un esame storico e sistematico del problema –che cercheremo di far discutere nel convegno- ci ha convinto che la predetta sottovalutazione (che talvolta arriva a forme di indifferenza o addirittura di disprezzo cripto-razzista come quando gli immigrati vengono assimilati ai crumiri o certe forme di lotte vengono viste come espressione di una vocazione genetico/culturale all’autodistruzione) si produce sotto l’influenza dell’eurocentrismo di matrice e origine liberali, al di là dell’inganno che può suscitare un linguaggio politically correct. Questa ideologia –che è un’idea-forza alimentata in vari modi da organizzazioni materiali- non è un generico difetto dell’umanità, non è solo una sorta di xenofobia o di etnocentrismo associato ad una naturale paura verso ciò che è diverso, ma è una specifica attrezzatura emersa a sostegno delle prime conquiste coloniali: essa è finalizzata al dominio, talvolta anche allo sterminio; non è paura dell’altro, è senso di potenza e di superiorità. Rafforza la nostra convinzione il fatto che il primo senso di superiorità razziale europea (per giustificare genocidi e il ritorno della schiavitù), manifestato e praticato dagli “arretrati” iberici non solo non viene superato o attenuato con il passare dei secoli, ma si radicalizza mano a mano che lo sfruttamento coloniale viene egemonizzato dai paesi sempre più “avanzati” e più capitalistici: esso raggiunge la sua maggiore asprezza proprio con la rivoluzione industriale che incomincia, nel contempo, a generalizzare il proletariato massimamente “libero”. E’ una ricostruzione questa che, ovviamente, contrasta (oltre che con quella che cerca di giustificare i segni più orrendi del capitalismo come mali oscuri e ineliminabili della specie umana) anche con quella posizione che assume come bersaglio un eterno Occidente sempre razzista, aggressivo, predatore, competitivo, efficientistico e perciò generatore del capitalismo. Tale posizione, per certi versi anche comprensibile, è bene espressa da Serge Latouche (1), che, pur di esagerare il ruolo negativo dell’efficientismo, del produttivismo e dell’economicismo in sé, arriva a ritenere marginale e perfino inesistente il saccheggio e lo scambio ineguale operato dall’imperialismo: per uno autore come lui, la disgrazia venuta a subire dai popoli extra-europei è quella di essere stati omologati agli europei, di essere stati costretti ad introiettare i loro valori negativi, e non (tanto) di essere diventati vittime di un supersfruttamento con tratti di vera e propria rapina. Egli dice di intravedere nella denuncia marxista “economicista” del supersfruttamento e della rapina a danno delle periferie un’alternativa di società comunque produttivistica: produttivistica in proprio. Francamente, non riusciamo a credere che egli non abbia letto proprio in Francia, e soprattutto negli “anni sessantotto”, quella letteratura marxista minoritaria, ma abbondante negli ambienti che frequentava, che parlava di “piani di disincentivazione della produzione, di distruzione anche di alcuni settori produttivi antisociali, di decongestionamento edilizio delle città, di dimezzamento dell’orario di lavoro”, in base a quel nocciolo critico, senza il quale non ha neppure di ragione di essere, diretto contro il meccanismo “della produzione per la produzione”. O questa letteratura sarebbe anche per lui “tamquam non esset” per non essere assurta agli onori della grande cronaca? Riusciamo invece a credere che, in effetti, dietro la facile demagogia contro la socialdemocrazia “marxista”, quella dei Latouche è una concezione che, partendo dalla Grecia classica e continuando con la storia di Roma, dell’Impero carolingio e delle Crociate, ripropone un vero e proprio eurocentrismo “alla rovescia”, nella parte in cui condivide con quello dominante la stessa chiave interpretativa: sarebbe stata la specificità culturale a rendere gli europei dominanti. In breve, si tratterebbe di “imperialismo culturale”…che ammetterebbe anche un eurocentrico “alla dritta” appena un poco intelligente. Per rendere conto invece del carattere storicamente determinato del fenomeno in questione, offriamo una traccia che mette in rilievo il razzismo (eurocentrico) emerso in coincidenza con la Reconquista in Spagna e accentuatosi –con pretesa di supporti scientifici- nell’epoca dell’Illuminismo/Romanticismo, ponendolo a confronto con l’etnocentrismo della cosiddetta antichità classica, quest’ultima con il suo razzismo solo ancora episodico anche nell’area caratterizzata dall’uso generalizzato della schiavitù. Non smentiscono l’origine recente del razzismo sistematico ed endemico alcuni episodi di razzismo nell’antichità a danno degli ebrei e saremo ben disponibili a confrontare la nostra ipotesi, secondo cui si sarebbe trattato prevalentemente, fino ala vigilia della limpieza de sangre, di intolleranza religiosa con fini di conversione forzata. Nel seguire questa traccia, non si potrà ancora una volta evitare di considerare il paradossale parto gemellare, della modernità capitalistica, costituito dalla libertà e dalla schiavitù. Nel periodo considerato –a parte poche eccezioni- non abbiamo due “partiti” contrapposti: uno che difende la libertà, l’altro che difende la schiavitù; ma la difesa di entrambe da parte degli stessi autori: esattamente come lo stesso genitore difende i suoi due figli gemelli (2). Non sorvoliamo certamente sull’esistenza di liberali abolizionisti (non solo della schiavitù praticata dagli concorrenti): essi però facevano parte in un primo momento dell’Illuminismo più radical/popolare e diventano maggioranza solo quando, anche per il pericolo di frequenti rivolte, la schiavitù, assoluta e giuridicamente formalizzata, non è più un affare. In questo nuovo contesto culturale che accompagna l’apoteosi del colonialismo vengono accumulate montagne di dati con il contribuito di tutte le nuove scienze (antropologia, etnologia, filologia, archeologia, sociologia, storiografia, numismatica) il cui scopo precipuo è quello di dimostrare “scientificamente” la giustezza della raggiunta supremazia europea (occidentale) su tutti gli altri continenti. A tal fine e in base all’assioma che una certa Europa è il modello perfetto o perfettibile della storia universale, vengono ricercati motivi culturali in senso ampio, religiosi, climatici, genetici, alimentari, per provare l’inferiorità degli altri popoli e la loro naturale inclinazione ad essere soggiogati dal dispotismo, con il sottointeso che tale dispotismo sarebbe sacrosanto solo se su quei popoli viene esercitato dagli europei. Nasce così l’idea che la maggioranza dei popoli extraeuropei siano stati e siano afflitti dal dispotismo asiatico, caratterizzato dall’assenza della proprietà privata, dell’artigianato indipendente, di vere e proprie città, di un vero e proprio commercio, insomma di tutto ciò che- secondo i canoni liberali- poteva dar luogo a bilanciamenti di poteri, e quindi caratterizzato dal potere illimitato di un imperatore: tra le principali cause di questo straordinario accentramento di potere viene individuata la necessità di lavori idraulici in aree semiaride servite da grandi corsi d’acqua (3). Per meglio dare l’idea di come l’eurocentrismo –in quanto etnocentrismo razzista- sia un prodotto della modernità capitalista, porremo all’attenzione del convegno alcune indagini storiche (4), che ricostruiscono con accuratezza e abbondante documentazione non solo come il “miracolo greco” (su cui prende avvio “il miracolo europeo”) sia stato una invenzione di fine Settecento/metà Ottocento, soprattutto in ambiente tedesco, ma anche la necessità di dovere nel contempo distruggere la convinzione dei greci stessi di essere tributari di civiltà mediorientali e in particolare della civiltà egizia: una convinzione peraltro conservatasi non solo durante il Rinascimento, ma anche fino ai tempi della rivoluzione francese; una convinzione più che giustificata, se è vero, tra le altre cose, che la maggioranza dei toponimi greci sono di derivazione egizia e fenicia. Va da sé che tali indagini, nonostante abbiano cura di evidenziare che in Grecia vi fu presenza di popoli provenienti anche dall’Europa orientale (i presunti indo-europei) che si mescolarono non solo con gli egizi ma anche con i fenici, sono state ferocemente criticate come negro-centriche. Come al solito, per qualcuno, la pretesa di uguaglianza sottenderebbe una nuova gerarchia alla rovescia. Marx e l’eurocentrismo Con l’imponente mole di “informazione” storica fornita da uno schiacciante eurocentrismo deve fare i conti anche Marx, che, non senza fatica, riesce a liberarsene con l’approfondimento dei suoi studi più diretti e più puntuali sulle società extra-europee, in particolare –negli ultimi dieci anni della sua vita- sulla Russia. Si dovrebbe una buona volta ammettere (da parte dei suoi adoratori e dei suoi detrattori) che anche Marx spinge la sua ricerca rivoluzionaria, movendosi dentro convinzioni generali ereditate dal contesto in cui si sono formate, convinzioni che, per quanto condivise, non sono ancora oggetto diretto di conoscenza. La grandezza di un pensatore non consiste nel saper fare a meno di tutto e subito: è impresa impossibile per l’essere umano! Ma nel saperle di volta in volta infrangere, con decisioni e approfondimenti presi in situazioni determinate, quando nuovi fatti e nuove proposizioni irrompono e mettono in crisi, scongelando le vecchie regole per formarne nuove. Marx non è grande per essersi liberato di tutti i luoghi comuni, ma perché presenta perfino un eccesso di rotture in continua tensione anche contro quel se stesso che, prima di ogni balzo in avanti, lo accomuna ai suoi contemporanei…e nessuno può esigere che a quei tempi evitasse anche la parola “virile” e si decidesse a togliere la tuba per indossare l’eskimo. L’importante è ora che qualche imbecille non dica (e pensi) più “virile”, perché lo ha detto Marx. Egli, comunque, già, dovendo controbattere ad alcune errate interpretazioni del suo “Capitale”, preciserà che quanto è successo in Europa non è il passe-partout per tutti gli altri continenti e che le comuni contadine russe possono essere protagoniste, a determinate condizioni, di una trasformazione comunista moderna: in ogni caso –preciserà meglio- assolutamente non era sua intenzione scrivere un’altra “filosofia della storia”. Insomma, piaccia o meno agli euro-marxisti e ai terzomondisti estremi, non è ricavabile da Marx –se non operando disoneste estrapolazioni di un pensiero in formazione- che l’unica titolare della rivoluzione comunista sia la classe operaia, per di più europea, e che il capitalismo sia un passaggio obbligato per l’umanità. Peraltro, proprio in un suo precedente scritto, inedito e più controverso (“le forme economiche precapitalistiche”, parte dei “Grundrisse”), in cui pure concorda con l’esistenza del dispotismo asiatico, il suo obiettivo è prevalentemente quello di polemizzare a)-con la concezione unilineare e progressista della storia,b)-con la convinzione che assumeva il capitalismo come il modo di produzione più naturale dell’umanità, un fenomeno quasi sempre sotteso anche ai primordi della storia e che sarebbe emerso spontaneamente alla prima occasione propizia;c)-con quanti assumevano le prime forme di danaro e di merci come prime prove del capitalismo. L’intento eurocentrico di tale scritto, ancorché attinga dall’archivio dell’epoca, deve essere ancor più escluso, se si tiene conto che esso cerca di cogliere il dispotismo asiatico anche in alcune aree europee occidentali: nella penisola iberica e nella Scozia. E soprattutto deve essere escluso, se non si sorvola sul fatto che Marx si pone sempre dalla parte dei “barbari” (a differenza di molti suoi critici radicali). La nostra critica all’eurocentrismo non si ispira al relativismo terzomondista, post-modernista (5) o post-colonial. Naturalmente, noi rigettiamo la validità storico/scientifica del cosiddetto dispotismo asiatico, anche se in un primo tempo (e precisamente nell’inedito succitato) fu sostenuto da Marx; e accogliamo come fondatissima l’auto-correzione, da parte dello stesso, del “colonialismo come solvente delle arretratezze”. Ma, la nostra griglia critica è diversa da quella terzomondista e ancor più da quella post-modernista (con il suo accentuato relativismo) che, tra l’altro, pur di dimostrare a tutti i costi la ineluttabilità per qualsiasi europeo di essere eurocentrico, arriva perfino a selezionare frasi sparse di Marx e a considerare marxisti tutti quelli che, pur complici del colonialismo, si dichiarano tali e addirittura solo sembrano tali: non abbiamo esitazioni a definire questa foga iconoclastica una versione dotta del qualunquismo o, in alcuni casi, una smania di proporsi come nuovi Messia. Ed è diversa anche da quella cosiddetta post-colonial, anche se quest’ultima è sicuramente più avvertita e ricca di documentazione nella critica all’imperialismo in un’ottica che tenta di superare i limiti del vecchio terzomondismo. A sostegno di questa diversità, potrebbe bastare la recente autocritica di uno dei massimi esponenti della tendenza post-colonial, Robert Young (6), a Napoli introdotto da uno stimolante discorso di Sandro Mezzadra. Per Young, non si può più tacere il fatto che la generalità degli esponenti post-colonial restano accademici nelle maggiori università occidentali, scrivono in un linguaggio pressoché incomprensibile per i loro interlocutori post-oppressi, e si limitano a criticare l’imperialismo trascurando i suoi fondamenti strutturali. Con il convegno quindi ci sforzeremo di chiarire che all’universalismo astratto e/o assimilazionista opponiamo l’universalismo concreto. Con una precisazione: non è vero –ed è stato dimostrato da molti studiosi- che il rifiuto della teoria del dispotismo asiatico ci riporta nell’alveo stretto della concezione unilineare della storia. E’ vero invece che questa teoria, basata su un fascinoso determinismo climatico/geografico, comunque oggi la si voglia camuffare, è un pezzo fondamentale dell’eurocentrismo, che, peraltro penosamente in affanno a confronto di alcune clamorose sorprese, arriva perfino a teorizzare che il miracolo del capitalismo giapponese e ora di quello cinese sono dovuti rispettivamente alle propulsive culture shintoiste e confuciane…dopo che per più di un secolo aveva con supponenza definito le stesse come culture della tradizione, della conservazione e dell’immobilismo. E da qualche tempo c’è chi comincia a dubitare che il protestantesimo in sé possa essere stato, con la sua concezione fatalistica della predestinazione, il propellente del capitalismo, e che in sé poteva essere più stimolante la concezione cattolica del libero arbitro…e che, alla fin dei conti, i discorsi sulla cultura in sé non spiegano molto. Noi facciamo ogni cosa con unocchio rivolto a qualcos’altroAristoteleL’abbaglio dei libertari sul dispotismo asiatico Nel fare questa precisazione, prendiamo le distanze da quei marxisti libertari (7) che, per un eccesso polemico sia pure comprensibile contro quanto stava succedendo in Urss, hanno sposato la sostanza del discorso elaborato dal massimo teorico del dispotismo asiatico, Karl Wittfogel, che peraltro fece tanto parlare di sé per essere stato uno studioso di sinistra passato al maccartismo (8). I libertari sostenevano di poter epurare il nocciolo scientifico del “dispotismo asiatico” dagli scopi dichiaratamente maccartisti del suo autore impegnato anche politicamente nella caccia alle streghe comuniste. E ciò senza considerare che nella stessa Urss la teoria del dispotismo asiatico, prima messa fuorilegge per motivi politici (oltre che per riaffermare la teoria delle evoluzioni dei cinque stadi), torna negli anni sessanta del XX secolo ad essere la teoria più in voga per motivi che di nuovo hanno poco a vedere con esigenze “scientifiche”. A noi sembra che ai libertari, più che interessare un’analisi spassionata di quanto sia successo in certe aree del mondo, importa(va) strumentalizzare la teoria del dispotismo asiatico per inferire che l’origine di tutti i mali sia il Potere: in principio non c’era il Verbo, ma la libidine del comando…dell’uomo sulla donna, degli adulti sui minorenni. Non vogliamo sottovalutare la lotta al Potere, ma sembra davvero incredibile non accorgersi che la teoria del dispotismo asiatico –che assume come fattore determinante l’ambiente climatico/geografico- è diventata la stampella dell’eurocentrismo, quanto più quest’ultimo ha dovuto occultare, dopo la rovina del nazifascismo e le rivolte anticoloniali, i fattori biologici e/o culturali. *** Negli anni in cui si accese il dibattito sul “dispotismo asiatico”, vuoi per la pubblicazione dell’inedito di Marx vuoi per la pubblicazione del libro di Wittfogel, non è mancato anche qualche lavoro meno influenzato da pregiudizi ideologici o da immediati obiettivi di polemica contro il proprio bersaglio di turno e più attento ad un’analisi diretta e “oggettiva” dei paesi extra-europei. In un’Italia, già poco attenta alla storia mondiale, va segnalato per quel periodo (1969) il libro di Gianni Sofri (9) che appunto mette in guardia sull’uso eurocentrico del concetto e invita ad assumerlo con cautela, pur dichiarandosi sostenitore –e con buona cognizione di causa- di una concezione multilineare della storia. Segnaliamo particolarmente un lavoro come questo (nonostante gli approdi odierni del suo autore, a noi molto sgraditi), perché, pur con tutta la sua onesta apertura sulle società extra-europee, finisce per ammettere in chiusura, sebbene a denti stretti, una qualche superiorità europea nella considerazione, apparentemente ovvia, del fatto che comunque l’Europa, sia pure deplorevolmente, è riuscita a conquistare le Americhe, a colonizzare altri popoli, e quindi a prendere il sopravvento su tutti gli altri. Anche per Sofri –che non riesce o non vuole analizzare le cause della conquista colombiana ovvero il suo rapporto con il secolo che la precede- gli europei avrebbero avuto il quid pluris, “un certo non so che” per le loro nefaste imprese. E poiché questo evento (che non indagato lascia supporre una superiorità comunque europea) è l’estrema risorsa dell’eurocentrismo, siamo così costretti a tornare alla genesi del capitalismo, alla cosiddetta accumulazione primitiva già trattata con spunti notevoli da Marx, quindi a quel secolo lungo (10), in quanto comprensivo, senza soluzione di continuità, del 1400 e del 1500, e che viceversa a noi sembra bruscamente diviso dallo straordinario 1492, cioè da un evento “catastrofico” simile al terremoto che distrusse la civiltà micenea. L’esame del secolo che precede la conquista dell’America distrugge definitivamente il mito della superiorità europea. Occorre onestamente riferire che nel 1969 ancora non era ben noto che Colombo non conquistò l’America in virtù del fatto che le sue navi (e i suoi finanziatori) sarebbero state superiori a quelle dei popoli all’epoca più evoluti sotto il profilo tecnico e scientifico (in particolare dell’Islam, della Cina e dell’India); o perché sarebbe stato spinto dallo spirito moderno dell’avventura e della ricerca del nuovo. E’ vero che alcuni studi molto seri erano già iniziati prima di quella data, ma solo successivamente un’analisi concreta del primo Ri-nascimento (11) –fuori dal mito- e un’analisi, per esempio, della Cina del Quattrocento, ci mostrano che all’epoca l’Europa, anche nella parte più avanzata, era ancora una periferia del mondo. Particolarmente documentato e convincente è Todorov (12), che ci consegna un Colombo che per le sue concezioni religiose e culturali è ancora figlio di quel Medio Evo che sogna un’ennesima crociata con finalità religiose: bravo come marinaio, ma molto lontano perfino dalla scienza raggiunta dagli arabi, salpa da Pàlos con la convinzione di raggiungere la Cina con un viaggio piuttosto breve essendo i suoi calcoli basati sulle sacre scritture che parlavano del mondo costituito per 4/5 da continenti e 1/5 dall’acqua. Al riguardo, non possiamo fare a meno di criticare, anche a costo di diventare noiosi, quella metodologia, ancora oggi diffusa fino a sfiorare il ridicolo, che, per esagerare la portata del primo Rinascimento, retrodata disinvoltamente una serie di avanzamenti sociali e tecno/scientifici del XVII e perfino del XVIII secolo al XV secolo. Per provare che questa metodologia, per quanto possa apparire incredibile, è vezzo corrente, invitiamo a leggere con attenzione anche serissimi studiosi che descrivendo il Rinascimento -che precede e spingerebbe Colombo- non si accorgono neppure di comprimere nello stesso periodo Ficino e Galilei, Leon Battista Alberti e Isaac Newton o di ignorare che “molte belle Madonne carnose, che celebravano il trionfo della gioia di vivere, sono finite al rogo non solo ad opera del Savonarola, ma soprattutto per incitamento di ‘riformatori’ religiosi anticipatori, secondo la vulgata, della ‘modernità’” (13). Come pure va richiamata l’attenzione sulla forzatura del testo marxiano che vorrebbe così individuare la prima accumulazione capitalistica nel XV secolo inglese. La parola magica per questa forzatura è il protocapitalismo, che –come sanno gli addetti ai lavori- è di recente invenzione, per inferire poi che protocapitalismo è quasi uguale a capitalismo, come nella famosa aria del barbiere di Siviglia. Non c’è dubbio che Marx parta dall’Inghilterra del XV secolo, ma una lettura un po’ meno distratta avverte subito che là e allora non si può parlare nemmeno minimamente di protocapitalismo. In effetti, in quel periodo stavano emergendo in Portogallo, Spagna, Francia e Inghilterra quei primi stati-nazione, sotto la guida di monarchie assolute più disposte a favorire i commercianti nella loro lotta per superare o limitare i poteri delle aristocrazie feudali. Emersione che in Cina si era verificata già molti secoli prima e stava prendendo avvio in Persia e in India. Peraltro e a tutto voler concedere, non bisogna mai dimenticare che dietro la “scoperta” dell’America c’era non l’Inghilterra presunta protocapitalista, ma quella Spagna che Marx individuò –come sopra detto- nel suo inedito come l’area più simile in Europa al dispotismo asiatico e, in una certa misura, quell’Italia che, pur promettendo per prima la nascita del capitalismo, era –sempre per Marx- in declino, anzi in regressione verso forme di produzione feudali. O, come dicono alcuni, addirittura l’Italia del Vaticano. Il Quattrocento cinese e la sua “flotta dei tesori” (14) Quindi, passeremo ad evidenziare la maggior forza tecno/scientifica della coeva Cina, elencando la sua secolare superiorità, cercando di sfatare la leggenda della sua assoluta compattezza e dell’assenza di proprietà privata, dell’agricoltura a pioggia, del commercio, delle vere e proprio città, e soffermandoci in particolare sulla straordinaria flotta fatta costruire dal terzo imperatore Ming. Una flotta di 1600 navi imperiali (oltre le migliaia private) con navi che raggiungevano i 170 metri di lunghezza e 1500 tonnellate, con i compartimenti stagni, costruite in tek e con nove alberi, munite di cannoni e con 60 cabine private, a confronto con le caravelle di Colombo lunghe 30 metri e con tre alberi. Una flotta che sicuramente compì dal 1405 al 1433 sette grandi viaggi oceanici raggiungendo le coste dell’Africa, e che forse approdò anche sulle coste dell’America, dell’Australia. Discuteremo anche il modo in cui gli eurocentrici hanno affrontato questa sorpresa via via che essa è diventata una certezza. A loro dire, proprio il fatto che questa flotta sia stata successivamente fatta distruggere dai Ming, sotto la pressione dei mandarini confuciani e conservatori, dimostrerebbe la tara comunque immobilista della Cina (in pratica della sua cultura) a confronto con il dinamismo europeo, che pur partendo in svantaggio trova modo di recuperare nel momento cruciale. A mandare in frantumi le obiezioni eurocentriche non sono solo i motivi, niente affatto conservatori, che spinsero i cinesi a privilegiare, dopo i sette grandi viaggi oceanici, il rafforzamento della loro potenza terrestre e l’agricoltura (con la relativa navigazione interna, in particolare sul Grande Canale di 1800 chilometri di lunghezza), ma le trasformazioni socio/economiche che li caratterizzarono nei secoli XVI, XVII e XVIII. Queste trasformazioni –secondo gli analisti che se ne occupano direttamente e non deduttivamente- non provocarono la stagnazione, ma portarono maggiormente la Cina a quella diffusione della proprietà privata e del libero mercato che, molto più dell’Europa occidentale, può far parlare di modello economico smithiano. Per dirla con un’altra battuta, se proprio volessimo andare alla ricerca di quel protocapitalismo (che qualcuno ha definito anche “rivoluzione industriosa”) che genererebbe ineluttabilmente il capitalismo, lo troveremmo più facilmente nella Cina dei predetti secoli (anche in India e in Persia) che non nella coeva Europa occidentale. Per inciso, va annotato che, mentre la rappresentazione di tale realtà economico-sociale della Cina circola ormai come un luogo comune tra numerosi studiosi, è ancora tranquillamente ignorata negli ambienti politici di sinistra, soprattutto in Italia, dove si è ritenuto perfino di non pubblicare il libro (intitolato “Eurocentrismo”) di un autore come Samir Amin (15), di cui si è tradotto tutto e più di tutto: di conseguenza, metteremo nel conto che definire la Cina del Sei/Settecento come più liberista dell’Europa occidentale suonerà come una boutade o una provocazione. Insomma, la ormai diffusa rappresentazione della Cina sei/settecentesca come realtà economica “smithiana” non è neppure fatta oggetto di contestazione…da una cultura politica che da tempo riesce solo ad accalorarsi su questioni metodologiche ed epistemologiche. Perché la Cina si blocca alla “rivoluzione industriosa” e in Inghilterra scoppia la “rivoluzione industriale”. Perché allora la rivoluzione industriale e il capitalismo vero e proprio ebbero luogo in Inghilterra (e poi in altri paesi europei) e non nella più avanzata Cina? Discuteremo due ipotesi. Ø La prima, quella più tradizionale (si fa per dire), lo spiega con il fatto che alcuni paesi europei con il saccheggio e le piantagioni americane, da una parte, si erano già irreversibilmente avvantaggiati e avevano accumulato il capitale necessario per l’ulteriore salto e, dall’altro, stavano impedendo, con i primi scambi ineguali e occupazioni militari (vedi India a metà Settecento), agli altri popoli di procedere verso analoghi avanzamenti: la Cina, pur non occupata militarmente, si vedeva comunque sempre più ridotti i suoi spazi di commercio da una presenza sempre più ingombrante e assolutamente egemonica delle navi inglesi, portoghesi, olandesi, francesi. Questa ipotesi si riallaccia –forse non ci sarebbe bisogno di dirlo- alle pagine che Marx dedica all’importanza del saccheggio dell’oro e dell’argento americano, delle piantagioni che nel nuovo continente funzionavano con il lavoro schiavistico e servile, e del commercio stesso molto fiorente degli schiavi. Pagine che poi hanno ispirato non solo la letteratura marxista sull’imperialismo degli inizi del XX secolo, ma anche i lavori di CRL James e di Williams negli anni trenta e quaranta sia pure in una griglia che via via ha forzato l’analisi in direzione terzomondista. Ø La seconda, sostenuta da Bin Wong (16) e Kenneth Pomeranz (17), ritiene sì che gli spazi coloniali americani abbiano offerto agli europei un grande vantaggio, ma questa condizione –seppur necessaria- non fu sufficiente per il verificarsi della rivoluzione industriale e l’avvento del capitalismo vero e proprio. Sottolineando –essi credono in polemica con Marx- l’aspetto altamente drammatico e discontinuo rappresentato dalla rivoluzione industriale, i due studiosi ritengono che sia stata la fortuna di essersi ritrovati con il carbone fossile, utilizzabile come nuova fonte energetica, l’elemento determinante. Questa ipotesi, accuratamente documentata, si discosta dalla prima, criticata di dare per scontato che in tutti i continenti si stava evolvendo verso un naturale o scontato capitalismo (impedito appunto dal colonialismo). Dell’ipotesi di Wong e Pomeranz cercheremo di cogliere tutti gli elementi di verità, senza però nascondere la nostra perplessità sulla loro tendenza a polemizzare oltre misura con la concezione unilineare e causale della storia e ad opporre un eccesso di casualismo, quasi caotico, nelle trasformazioni da loro considerate. Per dirne una, non ci sembra che essi abbiano esaminato con la dovuta attenzione il fatto che una Francia o un’Italia non avevano il carbone e, tuttavia, sia pure con qualche difficoltà in più, riuscirono ad avere successivamente la rivoluzione industriale e il capitalismo vero e proprio, mentre la Cina ha dovuto mettere in atto la più lunga e la più cruenta delle rivoluzioni antimperialiste per raggiungere solo ora, peraltro con un quinto solo della sua popolazione e con il rischio di una forte polarizzazione interna (brasilizzazione?), la sua rivoluzione industriale. In altri termini, senza nulla togliere all’importanza di una “forza produttiva” (definizione di Bin Wong) come il carbone inglese (e della sua improvvisa “scoperta”), probabilmente l’importanza del colonialismo è maggiore di quanto pensano i due studiosi sopra citati. Né a dire che la Cina avrebbe marcato il ritardo rispetto ad una Francia o un’Italia per via della maggiore condiscendenza dell’Inghilterra verso queste ultime e dalla maggiore ostilità verso la prima. Come è ben noto, l’Impero britannico cercò di ostacolare lo sviluppo del capitalismo anche sul continente europeo; con il Portogallo e la Spagna ebbe in parte a riuscirci, si scontrò con la maggiore forza della Francia per tutto il Settecento e fino alle guerre napoleoniche. Le scoperte dell’oro e dell’argento in America,lo sterminio degli indigeni, in alcuni casi, la loro messa in schiavitù o la loro sepoltura nelle miniere in altri; gli inizi della conquista e delsaccheggio delle Indie Orientali; la trasformazionedell’Africa in una zona adibita alla fornituradi schiavi, questi furono gli avvenimenti checaratterizzarono l’alba dorata dell’era della produzione capitalistica. Questi furono iprocessi idilliaci che formarono i fattori chiave dell’accumulazione primitiva (Marx) Consideriamo meglio il ruolo del colonialismo Per meglio illustrare il decisivo contributo del colonialismo, sarà opportuno riportare –come ha già fatto Blaut- (18) gli imponenti apporti quantitativi che dallo stesso derivarono agli europei e soprattutto a quegli europei che si affacciavano sull’Atlantico. Non è infatti un dettaglio che l’argento proveniente ufficialmente (e quindi senza tenere conto di un notevole contrabbando) dal saccheggio e dalle miniere americane triplicò nel XVI secolo l’ammontare dell’argento mondiale (l’oro aumentò del 20%). Finito nelle mani dei soli commercianti europei sulla lunga distanza, questo rapido e imponente aumento dell’argento riuscì ad evitare un rovinoso processo inflattivo, perché incontrò proprio in quel periodo la domanda dei cinesi, che nel XV secolo avevano deciso di coniare le monete in argento. Per tal motivo, finalmente l’Europa, battuta prima nelle Crociate, riuscì a vincere il monopolio del commercio con l’Asia detenuto da secoli dagli islamici. Come pure non si può sorvolare sul fatto che nel solo anno 1600 l’esportazione del Brasile dello zucchero (da canna) raggiunse l’ammontare di 2 milioni di sterline, cioè il triplo di tutte le esportazioni inglesi. E’ opportuno ripetere: del solo zucchero brasiliano a confronto di tutte le merci esportate dall’Inghilterra! Ma perché si tende a sfuggire ad un esame del genere, anche nel migliore dei casi? Le risposte a volte vengono date dagli stessi studiosi che hanno questa tendenza: la produzione nelle colonie, in quanto basata sul lavoro schiavistico e servile, e quindi in quanto arretrata o precapitalistica, aveva un peso secondario. Con totale noncuranza di una realtà (caratterizzata ancora da lavoro a domicilio e poche manifatture di modeste dimensioni), questi studiosi continuano a sostenere che il motore principale della genesi del capitalismo funzionava in Europa. E’ singolare che alcune di queste risposte, che minimizzano il ruolo del lavoro schiavistico (con l’aria di chi pensa che in Europa già ci fosse l’industria fordista), chiamino a sostegno anche Marx, che invece più volte chiarì la differenza tra l’antica schiavitù e quella moderna perfettamente inserita nel capitalismo. E’ il caso di aggiungere che, mentre in Europa molti vincoli impedivano ancora il moderno sfruttamento capitalistico, nelle colonie senza alcun freno furono introdotte le più avanzate tecnologie e furono ammassate enormi quantità di schiavi e servi in grandi aziende. Non si trattava ancora, ovviamente, nelle moderne colonie di capitalismo vero e proprio (e ciò vale a maggior ragione per l’Europa), ma non possiamo mettere sullo stesso piano il nuovo quadro sociale, economico e istituzionale, venutosi a determinare intorno all’Atlantico a seguito della conquista delle Americhe, con l’economia di mercato che stava emergendo in Cina (e anche in India). Al di là di una rappresentazione statica e in termini puramente quantitativi, il valore in più dello scambio “atlantico” è costituito, proprio in virtù delle colonie e di quel commercio triangolare che comprende l’Africa occidentale fornitrice di schiavi (e stimola un’industria cantieristica e dei trasporti), dal fatto di essere di inserirsi in quel mercato mondiale finalmente realizzatosi. Mercato mondiale come presupposto nella genesi del capitalismo Sul punto, non abbiamo timore di prendere alla lettera Marx quando sostiene che il mercato mondiale, venuto a costituirsi con la conquista dell’America, è non solo il risultato del capitalismo, ma anche il presupposto. In altri termini, non pensiamo che il concetto espresso da Marx sia in effetti –come dicono a mezza bocca alcuni marxisti- una civetteria hegeliana, un gioco elegante di parole. Come è possibile parlare già di mercato mondiale in presenza di tante aree ancora precapitalistiche, di una rete così rudimentale di comunicazioni e di trasporti, con perfino un Mediterraneo ancora “lungo sessanta giorni”, con tante barriere statali? Il mercato mondiale dunque non può che essere solo il risultato del capitalismo, quello pienamente realizzato, quando tutti saranno proletari a fronte di pochi capitalisti in un unico spazio liscio libero da Stati e da barriere. E se tutto ciò non si è ancora verificato? Si sottolinea la “tendenza” e si aspetta che si avveri la profezia! Va da sé che, con questa ottica, non ci si è accorti neppure che il mercato mondiale nel Manifesto del 1848 veniva descritto con i verbi all’indicativo presente ed è stato letto con i verbi al futuro, e si continua imperterriti ad assumere gli avvenimenti militari, dal 1991 ad oggi, come ultimi rigurgiti imperialistici (19), backlashs. Ma, aspettando Godot, è invece abbastanza documentato che il mercato mondiale è all’epoca una realtà irreversibile e già spinge non più solo il commercio, ma a finalizzare, con una dinamica più accentuata, nel suo ambito più ampio la produzione delle merci, con i commercianti che non vanno a raccogliere più solo le merci “rare”, ma a finanziare la produzione. In tale ambito, la produzione delle merci in Europa e, ancora più in America, per quanto si avvalga dello stesso livello tecnologico e scientifico presente in Cina, è indirizzata preventivamente e sempre più esclusivamente alla vendita, perfino a già imporre il consumo, come è particolarmente evidente con la produzione di tabacco. In buona sostanza, il mercato mondiale, che vede prevalere sicuramente l’Europa occidentale per via dell’apporto coloniale, innesca una dinamica che, per quanto poteva stagnare in un circolo vizioso di labour intensive (o anche regredire) e non dava per scontato che portasse alla rivoluzione industriale, nondimeno la rendeva altamente probabile. Non si può negare che, nella misura in cui si accumulavano i maggiori capitali e si accumulavano esattamente nelle aree massimamente beneficiarie del colonialismo, si acceleravano anche gli avanzamenti tecno/scientifici. Il periodo coloniale che precede la rivoluzione industriale è quello che concentra –come mai era successo prima e come non stava succedendo nella pur avanzata e industriosa Cina- il massimo numero di questi avanzamenti. La rivoluzione industriale si presenta sì come un salto (non a caso, viene definita, a cominciare da Marx, “rivoluzione”), ma come un salto che prende le mosse dai predetti maggiori accumuli, accelerandoli con ritmi infernali, facendoli crescere esponenzialmente. Siamo critici della dialettica che spiega le trasformazioni sempre con le stesse leggi (20), ma il salto della rivoluzione industriale sembra proprio un caso (non di una regola, ripetiamo) “della quantità che si trasforma bruscamente in qualità”. Sull’importanza del mercato mondiale, già esistente con l’avvio del colonialismo e che si pone ad un livello superiore a quello venutosi a determinare nel 1250/1350 (21), è opportuno discutere anche per due altri motivi. Il primo può meglio dimostrare l’irrealismo, ancor più oggi, della teoria del delinking (lo sganciamento), quale nuova versione pudica della “costruzione del socialismo in un solo paese”. Il secondo per mostrare che fin dalle origini il mercato mondiale non tende ad omologare tutto il mondo, ma ad approfondirne le differenze. Né si può obiettare che quello delle origini non era un vero e proprio mercato capitalistico ma solo un colonialismo predatorio, giacché proprio nella misura in cui esso diventa sempre più capitalistico, a partire dalla rivoluzione industriale, le differenze prendono maggiormente ad approfondirsi e perfino a riciclare arretratezze e barriere. Queste ultime, che un certo evoluzionismo non si stanca mai di considerare come il non-ancora (not-yet) capitalismo, come residui comunque destinati ad essere superati, si reiterano invece incessantemente e risultano perfettamente funzionali al capitalismo sempre più avanzato. Ma dove si produce la causa di questo paradosso? Nel cuore del capitalismo stesso, nel suo “anello forte”. Il capitalismo, proprio perché riproduce anche al suo più avanzato livello una contraddizione di classe insuperabile (rappresentata da quel giano bifronte della forza lavoro/lavoro vivo, fascio di muscoli e cervello), deve incessantemente ricorrere alla ricerca di plusvalore assoluto (con orari prolungati, con lavoro prestato senza assistenza e previdenza, in ambienti di lavoro malsani), non disdegnando l’utilizzo di bambini, servi e schiavi di fatto. A tal fine, cioè per mantenere un mercato di lavoro fortemente gerarchizzato, gli occorrono ancora le barriere nazionali e razziali. E produrrebbe questa realtà complessa, anche se il suo punto di ri-partenza, imposto da qualche evento eccezionale, dovesse essere una società composta da soli capitalisti da una parte e soli proletari “liberi”, contrattualizzati e assicurati, dall’altra. Dopo tanti anni di pratica capitalistica, chi sogna ancora la generalizzazione del solo proletariato “libero”, come base per una vera lotta di classe per il comunismo, non può più essere considerato un estremista in buona fede: in realtà, appare sempre più evidente che sognatori di questo tipo mirano in effetti a restare “elegantemente” indifferenti o sprezzanti verso le lotte dei 9/10 dell’umanità, così intrise di impurità sottoclassiste o peggio. Not-yet, appunto; giorno verrà! Qualche puntualizzazione sull’imperialismo Nel sottolineare la persistenza dell’imperialismo, come espressione di uno sviluppo capitalistico non solo diseguale e combinato ma anche polarizzante, non intendiamo –come già sopra cennato- depennare o svalutare la contraddizione capitale/lavoro salariato nelle metropoli dominanti, per enfatizzare quella tra nazioni dominanti e nazioni oppresse. Il fatto, sempre più evidente, che nelle periferie oppresse si addensa ormai la maggior parte del lavoro salariato, non implica e non comporta che quello utilizzato nelle metropoli sia una nuova plebe parassitaria e beneficiaria di briciole. Né tale condizione può essere dedotta dalla sua tendenza al corporativismo e ad una sorta di complicità (che il più delle volte si esprime in comportamenti passivi e di indifferenza verso il supersfruttamento dei lavoratori periferici e degli immigrati). La valutazione di archi storici più ampi ci mostra che tale tendenza caratterizza determinate fasi e viene invertita quando le lotte diventano più radicali, generalizzate e vanno a prospettare prospettive alternative al capitalismo. Per cogliere il carattere di classe del lavoro salariato nelle metropoli, conta maggiormente l’esame dei processi produttivi e una più esatta localizzazione della distribuzione delle cosiddette briciole. A tal riguardo, fermo restando la necessità di meglio analizzare (più che il lavoro intellettuale, comunque sempre presente anche nelle più manuali delle mansioni) la produzione immateriale e l’apporto del general intellect, andiamo su quel facile che ancora vistosamente ha “tendenza” a ripetersi sotto le più varie spoglie, invitando a riflettere sulla relazione tra i lavoratori e la produzione in un paese come la Germania, che è risultato quest’anno il maggior esportatore del mondo, pur dovendo mantenere la migliore condizione salariale (al suo Ovest, of course!). Per meglio dare conto della portata di siffatto evento, va riportato che la Germania ha superato gli Stati Uniti e che il volume delle sue esportazioni è pure maggiore di quello del Giappone, India e Cina messe insieme. Il risultato è sbalorditivo sotto vari profili, di cui almeno due ci sembrano importanti. Infatti, da una parte esso viene raggiunto puntando –a differenza degli Stati Uniti- sulla produzione di beni materiali (macchinari e strumenti di precisione) e, dall’altra, perché supera quello dei paesi ritenuti i maggiori produttori di beni materiali sia in virtù del loro enorme bacino di forza lavoro sia per i bassissimi costi cui questa è assoggettata. A tal punto, non si può evitare di mettere in rapporto i lavoratori tedeschi con l’aumento di valore della produzione esportata che –ripetiamo- è stata crescentemente materiale. Qualcuno deduce dalla performance tedesca la possibilità di un nuovo welfare, nella constatazione –che farebbe lo stesso capitale- che i lavoratori, meglio sono pagati e trattati, meglio e di più producono. A noi pare invece che il miglior trattamento dei lavoratori tedeschi dipenda dalla loro forza, se è vero –come è vero- che essi sono da alcuni anni sottoposti ad un duro attacco tendente ad abbassare salari, previdenza e assistenza. Detto in estrema sintesi, per quanto il capitale, anche per ragioni di competitività, abbia bisogno nelle sue punte più avanzate di lavoratori altamente qualificati e “creativi”, si ritrova pure con la forza contraddittoria di questi lavoratori, che non essendo superabile, lo costringe a continue ristrutturazioni, senza poter risolvere la sua crisi ormai più che trentennale. Essendo altamente rischioso, oltre che difficile, tentare di abbassare –senza poter sempre ricorrere alle immani distruzioni belliche- il trattamento salariale di questi lavoratori al di sotto dei minimi necessari alla riproduzione, la soluzione più “normale” è rappresentata da secoli dall’utilizzo di un mercato di lavoro, altamente differenziato, polarizzato e gerarchizzato, con quote maggioritarie di lavoratori dislocati nelle periferie, pagati molto al di sotto del minimo, tenuti a bada con la massima violenza, giustificata al centro con abbondanti dosi di razzismo. Insomma, il “non-ancora” capitalistico ovvero ciò che sembra arretrato e marginale, prima o poi superabile, viene inserito funzionalmente in una lunga catena caratterizzata, dal centro fino all’estrema periferia, dalla contraddizione capitale/lavoro. Dentro vi rientrano non solo i disoccupati, ma anche gli addetti a lavori agricoli di minima sussistenza e al lavoro domestico (per rendere meno micidiale il sottosalario), in un processo che mercantilizza ogni sfera umana (diffusione della prostituzione, della vendita dei propri organi). Non sottovalutiamo certo che la differenza salariale al centro provochi, con l’attività incessante di quell’esercito sempre più ampio di funzionari politici (in senso lato) ai quali davvero sono distribuite le briciole, anche diffuse sensazioni e comportamenti di chi si sente privilegiato. Ma è un privilegio che, ancorché materiale, è definibile –riferendoci sempre alla maggioranza e fatta salva un’indagine più attenta su alcune figure lavorative- sempre più come privilegio del meno peggio. Come pure non sottovalutiamo che i più combattivi, all’immediato, lavoratori periferici sono costretti a difendersi dietro bandiere che vorrebbero contrapporli anche oggettivamente agli sfruttati del primo mondo. Sappiamo che le illusioni e le divisioni, sopra cennate, non si superano facilmente, ma ancor più sarà difficile superarle, stabilendo graduatorie di importanza e facendosi fuorviare dalle ideologie che cercano di influenzare l’uno o l’altro settore di lavoratori. I lavoratori periferici non sono, né strutturalmente né culturalmente, più deboli di quelli metropolitani; cioè non lo sono perché sarebbero collocati in processi produttivi di secondaria importanza e/o perché sarebbero reazionari: lo sono perché su di essi si scarica una maggiore violenza, una violenza all’occorrenza genocida e terroristica. Falluja era piena di operai! In conclusione sul punto, noi vorremmo essere criticati per la nostra tendenza, non a ritornare al mito delle campagne che assediano le città, ma a ritenere parimenti importanti le lotte del centro e delle periferie, al di là delle rispettive ideologie: queste ultime sono parimenti irricevibili anche quando assumono l’aspetto secolarizzato del Progresso, in nome del quale sono stati compiuti genocidi, due guerre mondiali e si è innescato quella immane “produzione di rifiuti a mezzo di merci”. Non dimenticando mai, però, un particolare: quella occidentale serve efficacemente ad aggredire, l’altra serve male a difendersi. La leggenda dei popoli creduloni Trattando l’argomento dell’eurocentrismo, ci sentiamo obbligati a mettere in discussione un’altra leggenda, che ha spacciato gli sfruttati delle aree extra-europee come meno combattivi, più disposti all’inchino e al servilismo: tutt’al più essi sarebbero esplosi in sporadiche e cieche rivolte solo per cambiare le loro sanguisughe. Questa attitudine, radicata da secoli, sarebbe –secondo alcuni- causa ed effetto del dispotismo asiatico, con il sottointeso assiomatico –tornato in voga alla grande negli anni ottanta e novanta del secolo appena scorso- che lo Stato è forte dove la società è debole e viceversa. Sempre osservando i reali processi storici, a noi sembra, tanto per fare un esempio, che lo Stato diventa più forte con Napoleone III in risposta “dialettica” (22) alla maggiore minaccia proletaria: e ci sembra pure che questo intreccio –che a tutta evidenza non da l’ingresso delle masse dello Stato e non è neppure lo Stato contaminato dalle masse- spieghi le successive e varie forme di “trasformazione autoritaria della democrazia”, che purtroppo anche noi abbiamo sempre assunto tutte le volte come l’anticamera della profezia orwelliana (23). Quanto al confronto tra gli sfruttati cinesi e quelli dell’area greco-romano caratterizzata dalla proprietà privata e dai primi embrioni di libertà, sarebbe ora di liberarsi da quell’immaginario che assume la rivolta di Spartaco come il paradigma di rivolte più diffuse nel tempo e nello spazio. Fermo restando che anche ad Atene e a Roma la condizione di schiavo non produceva assuefazione ed era fonte di tensioni, la grande e clamorosa rivolta capeggiata da Spartaco risulta essere un episodio eccezionale, peraltro incoraggiato dal fatto che i suoi protagonisti erano per lo più gladiatori avvezzi all’uso delle armi. Come altro episodio di rilievo si registra una rivolta in Sicilia, anch’essa agevolata dall’errore di aver concentrato migliaia di persone, peraltro istruite e da poco cadute in schiavitù (24). E’ pure da annotare che in entrambi i casi, non si registrano immediati miglioramenti della condizione degli schiavi. Per il resto, fino alla rivolta dei “proletari” Ciompi, ormai quasi in prossimità della svolta prodotta dalla conquista dell’America, non è rilevabile altro che dimostri una straordinaria propensione alla ribellione degli sfruttati europei. Semmai è da rammentare che nei feudi si arrivò nel Medio Evo ad imporre perfino “il diritto di prima notte”. Anche a questo proposito, non dobbiamo fidarci della “nostra” memoria che trasferisce nel passato quanto è successo dopo il 1492 e cioè il fatto che il lavoro salariato diventa endemicamente –si potrebbe anche dire “quotidianamente”- conflittuale. Viceversa, nella sola Cina sono state contate negli ultimi 2000 anni ben 18 rivoluzioni (25), che, provocate da eccessi di prelievi e di incuria per le opere di pubblica utilità, producevano non solo notevoli miglioramenti quantitativi ma anche vere e proprie riforme sociali. E’ in questa Cina, caratterizzata da produttori-contadini né schiavi né servi, che lo Stato è (costretto) ad essere forte. Non perché contaminato (26) dalla maggiore forza delle masse, ma per poter far fronte a questa maggiore forza. In merito, risulta pure istruttiva quella storiografia che ha messo in luce il processo che ha portato alla migliore organizzazione dell’agricoltura cinese. Il punto di partenza per tale agricoltura non sono stati le grandi opere idrauliche che necessariamente comportavano uno Stato forte (che così diventava sempre più forte), ma il lavoro dei contadini prestato a livello di “azienda” familiare o al massimo in modo associato a livello locale. Si ricorda, per inciso, che la Cina fino al III secolo a. C., erano una realtà frantumata almeno quanto quella del nostro Medio Evo (27). Le grandi opere idrauliche intervengono successivamente e vanno a rafforzare una dinamica produttiva già in atto e sono, come già detto, oggetto anche di forti conflitti, oltre che strumento per legittimare il potere dei mandarini. Peraltro, dovrà, prima o poi, pure far meglio riflettere che i mandarini non erano una casta ereditaria, ma già andavano a comporre per molti versi una burocrazia moderna (per noi sempre detestabile!) scelta per concorso: un potere che si rafforza su se stesso, solo abusivamente e approfittando della debolezza degli sfruttati, si forma invece con ben altri metodi…più simili a quelli noti nell’Europa della Magna Charta libertatis (dei baroni). Colombo conquistò l’America… e scoprì l’Europa Dobbiamo ora finalmente rispondere alla domanda: come mai l’arretrata Europa conquista l’America e ha la forza di soggiogare le sue popolazioni? Senza rispondere a questa domanda, è più che plausibile il dubbio di Sofri, anche ove tutte le nostre critiche all’eurocentrsmo venissero accolte al 100%. Noi cercheremo di rispondere riportando, commentando e integrando alcune risposte che già sono state date. E, poiché dedicheremo particolare cura ad una questione che risale alla cosiddetta epoca pre-moderna, chiediamo un po’ di pazienza ad eventuali lettori, anche giustamente più attenti alle vicende contemporanee, invitandoli a considerare il nostro impegno in tali vicende e il nostro sforzo –che ci sembra anche abbastanza trasparente- di attualizzare quella storia. D’altra parte, non è difficile capire che l’interpretazione della conquista dell’America (episodio scontato di una lunga vicenda o salto drammatico non prevedibile?) e del colonialismo (elemento decisivo per la genesi del capitalismo o effetto collaterale?) è un pezzo fondamentale dell’odierna diatriba sullo svolgersi delle vicende umane (grandi narrazioni hegelo-marxiste o caos post-modernista) e dell’attualissima discussione su Impero o Imperialismo. Peraltro, si sarà pure notato che sempre di più vengono pubblicati libri, saggi e articoli (ultimo in Italia quello di Federico Rampini su Repubblica e, in Francia, quello su Le Monde Diplomatique) (28) che ritornano sul Quattrocento cinese a confronto con quello italiano, e che un recente libro (29) “sulla scoperta cinese dell’America” è stato tradotto in più di trenta lingue e, pur narrando di cose accadute 600 anni fa, ha suscitato un vero e proprio putiferio, mentre in Cina si decidono imponenti celebrazioni sulle gesta dell’ammiraglio Cheng Ho, che diresse i sette grandi viaggi dal 1405 al 1433, e negli Stati Uniti viene clamorosamente contestato il Columbus day. A Caracas la statua di Colombo è stata distrutta da una folla inferocita, a città del Messico è stata protetta dall’esercito. Abbiamo già fatto cenno, attraverso Todorov, alle qualità personali di Colombo e alle caratteristiche tecniche delle caravelle. Certamente capaci di navigare in aperto Oceano, non erano, a tutto voler concedere, superiori alle navi cinesi e neppure a quelle arabe. Tuttavia, sarebbero (condizionale ormai d’obbligo, non solo considerando i vikinghi e la carta geografica (30) conservata nel Topkapi d’Instambul)) per prime arrivate in America e hanno aperto l’autostrada all’avvento del colonialismo.· Una prima spiegazione (non in ordine di tempo) è data dai terzomondisti estremi. A spingere Colombo (e i suoi finanziatori) sarebbe stata l’accentuata e atavica rapacità degli europei, alimentata appunto da una concezione individualistica nei rapporti umani, cui si contrapporrebbe una maggiore propensione dei non-europei a vivere valori collettivi meno conflittuali e in maggiore simbiosi con la natura. Questa differenza, che enfatizza in negativo le qualità culturali degli europei, non trova riscontro nella reale vicenda storica. Tutti i popoli hanno fatto ricorso alle guerre, non meno feroci di quelle condotte dagli europei, con tentativi di espansione verso l’esterno. La Cina non fa eccezione.· Samir Amin –con il quale ci piacerebbe confrontarci- invece richiama l’attenzione su una differenza materiale tra l’Europa e una Cina. La prima, essendo periferica e povera all’interno, era spinta irresistibilmente verso l’esterno. Ma, poiché la semplice volontà di espandersi non basta, anch’egli enfatizza le conquiste rinascimentali del Quattrocento (rese possibili dalla collocazione periferica dell’Europa e dalla debolezza del suo feudalesimo) come trampolino di lancio per la straordinaria impresa colombiana e quindi coloniale. Leggendo attentamente il suo, pur pregevole “Eurocentrismo”, si avverte una certa vaghezza su tali conquiste, che in fin dei conti egli stesso è costretto a mantenere ancora nei limiti di una diversa cultura, più sperimentale, più aperta alla scienza: si tratta, in buona sostanza, ancora di potenza che non è passata all’atto. Ci sembra davvero poco per spiegare il fatto che tre caravelle di 30 metri di lunghezza e con 270 marinai a bordo possano aver sorpassato una flotta di navi cinesi, con navi anche 170 metri lunghe, che raggruppavano fino a 30.000 uomini, con a bordo anche medici, astronomi e interpreti. Stando alla persuasiva descrizione di Colombo fatta da Todorov, risulta peraltro quanto mai difficile cogliere il rapporto tra l’ammiraglio genovese e Leon Battista Alberti.· Una terza spiegazione è data da Enrique Dussel (31), secondo il quale i cinesi, più avanzati a livello tecno/scientifico degli europei, più moderni nella loro organizzazione statale e pervasi perfino di una Welteschaung che valorizzava l’individuo, erano arrivati in America molto tempo prima di Colombo, ma non se ne sentirono attratti per lo stesso motivo che spinse Colombo ad attraversare l’Atlantico: essi erano già il centro del mondo, assieme all’India, con vicini evoluti come i persiani e gli islamici; ed erano un centro del mondo che, potendo contare su una fiorente agricoltura, era anche in gran parte autosufficiente. Ma perché gli europei, pur con la modestia dei loro mezzi, non solo arrivano in America, ma riescono anche a stabilire con essa un interscambio continuo, lo spiega molto bene Blaut, sistematicamente ignorato a tal riguardo anche da quelli che lo citano abbondantemente per altri versi, perché la sua spiegazione è micidiale perfino per il più prudente degli eurocentrici. Gli europei, rispetto alla Cina, hanno la fortuna (che non ha alcun nesso causale con tutta la precedente vicenda storica a partire dal “miracolo greco” fino alle spettacolari guglie gotiche e alle prospettive pittoriche rinascimentali) di essere situati 3500 miglia (più di 5000 chilometri) più vicini all’America: e vanno in America con l’aspettativa di andare in Cina. Inoltre, sulla rotta più breve hanno la fortuna (anch’essa non ereditata, attraverso le varie “astuzie” della storia, dal soffio di libertà che incominciò a spirare ad Atene) di avere gli alisei regolari sia all’andata che al ritorno: il Pacifico che invece separa la Cina dall’America, con una distanza maggiore di oltre 5000 chilometri, non solo è privo degli stessi regolari alisei sulla rotta più breve, ma è caratterizzato da venti e tempeste imprevedibili e più devastanti di quelle Atlantiche. I dati sottolineati da Blaut (che è anche un geografo) sono assolutamente inconfutabili. Si potrebbe solo pensare che degli stessi non si valuta la portata in riferimento a quei tempi. E’ il caso di far notare che all’epoca viaggi eccessivamente lunghi erano quasi impossibili per via della difficoltà (in piccoli scafi) di trasportare viveri e acqua a sufficienza e delle frequenti malattie che falcidiavano equipaggi già non troppo numerosi. In altri termini, se Colombo avesse avuto davanti a sé il Pacifico, non avrebbe neanche immaginato il suo viaggio; idem, se avesse saputo, dovendo partire da Pàlos o dalle Canarie, la vera distanza che occorreva percorrere per giungere in Cina (senza la presenza in mezzo dell’America); e se non avesse incontrato l’America nel suo viaggio previsto in Cina, sarebbe prima o poi morto per fame, per sete o per malattie insieme a tutto il suo equipaggio, se pure fosse scampato alla prima tempesta del Pacifico. In ogni caso, anche dopo la sua scoperta, un’America con un Pacifico in mezzo non avrebbe consentito di stabilire un proficuo interscambio regolare. Gli eurocentrici, per rilanciare la superiorità europea, ribattono che anche gli islamici, affacciando sull’Atlantico, erano vicini all’America e, come già detto, che i cinesi distrussero la loro grande flotta per spirito conservatore. I due argomenti non possono restare senza risposta. Come è noto, gli islamici non erano globalmente in declino, ma già da qualche secolo stavano spostando il baricentro della loro potenza nella loro area più orientale. Ciò è dimostrato dalle loro conquiste territoriali a danno dell’Europa e, sebbene ricevano una battuta d’arresto con la sconfitta di Lepanto, continuano fino alla conquista dell’Ungheria e con l’assedio addirittura di Vienna nel Seicento inoltrato. Lo spostamento è dovuto a due motivi. Il primo dipende dall’egemonia turco/ottomana; il secondo dalla maggiore proficuità del commercio con l’Asia e con l’Africa orientale e quindi dalla maggiore necessità di navigare nell’Oceano Indiano. Non sarà mai abbastanza ripetere che l’Europa dell’epoca era considerata una zona di poveracci (malaticci e tristi, li definiva uno storico arabo, per via della nebbia e dell’umidità). Come riportano le cronache dell’epoca, migliaia di navi arabe fanno approdo, oltre che a Sofala (Africa sud-orientale), nel porto indiano di Calicut ad una distanza dal mar Rosso non inferiore a quella che divideva il Portogallo dai Caraibi. Alla casualità della “scoperta” colombiana si aggiunge un altro fatto imprevisto, inedito nell’intera vicenda umana. Gli europei s’imbatterono in popolazioni facilmente sterminabili con le malattie. Senza questa circostanza, essi, sebbene tecnologicamente più avanzati, avrebbero dovuto accontentarsi –come era capitato ai portoghesi in Africa occidentale- di stazionare per alcuni secoli in pochi punti di approdo, limitandosi a scambiare le loro cianfrusaglie con l’oro e l’avorio delle popolazioni interne. Come è noto, l’Africa fu veramente colonizzata nel corso dello scramble del XIX secolo, eccetto che per la sua estrema parte meridionale, dove gli europei si scontrarono con popolazioni estremamente primitive e vulnerabili alle loro malattie. Al riguardo, vengono mosse alcune obiezioni: -non si tratta di un fatto inedito, perché le epidemie hanno sempre afflitto tutti i popoli della terra, e basti pensare alla grande peste del secolo XIII e XIV; -scrittori troppo compiacenti verso gli indios hanno esagerato il ruolo e la portata delle malattie: il demografo Livi Bacci (32) ha recentemente messo in dubbio perfino la possibilità, per via del lungo viaggio e/o dei controlli agli imbarchi, che la peste potesse passare dalla penisola iberica all’America, e Diamond (33) ha aggiunto che comunque la maggiore immunità degli europei alle malattie è espressione di un livello superiore di civiltà, conseguito con una lunga pratica agricola e di allevamento. Pur necessariamente in breve, non possiamo evitare di rispondere a queste obiezioni. -Le epidemie sono state certamente una ricorrente afflizione dell’umanità, ma quelle fino ad allora verificatesi hanno colpito tutti in una misura più o meno uguale e comunque senza favorire in modo così sproporzionato uno dei contendenti al momento di uno scontro. -A Livi Bacci ha già risposto nel 1972 fa Crosby (34) (ne “Lo scambio colombiano”) con argomenti insuperabili; del resto, che delle malattie, tipicamente europee, siano passate in America non è un’opinione, ma un fatto che neppure Bacci riesce a mettere in dubbio: il cronista di Cortès, per quanto non potesse contare i morti uccisi dai batteri con esattezza, comunque riferisce che essi erano tanti da impedire perfino il passaggio ai soldati spagnoli e che il vaiolo scoppiò proprio nel momento in cui i “conquistadores” stavano per essere sopraffatti. -A Diamond va invece ricordato che nessuno mai ha dubitato che gli indios avessero un’agricoltura e un apparato tecno/scientifico inferiore a quello europeo. Neanche i Latouche contestano siffatta disparità, tant’è che spostano il terreno di confronto sul terreno culturale. Il punto è invece –uscendo da facili e maliziosi pleonasmi- che solo gli europei (a confronto con cinesi e arabi) riescono ad imbattersi con popolazioni così esposte ai batteri: a quel livello di esposizione non si trovava nessuna altra popolazione dell’Asia e dell’Africa. Ciò precisato brevemente, sulla portata del genocidio provocato dalle malattie va ri-precisato quanto segue. Secondo i recenti calcoli scientifici effettuati da esperti della scuola di Berkeley (35) (e quindi non più secondo le impressioni di Las Casas o i calcoli approssimativi di Bernal Diaz), gli indios dell’epoca ammontavano a circa 80 milioni e le loro perdite si aggirarono intorno al 90%. Nel solo Messico si passa da circa 26 milioni di abitanti ad un solo milione alla fine del secolo XVI. Dunque, una catastrofe così immane che può essere paragonata a quella subita dai dinosauri a seguito della caduta del meteorite, vale a dire ad un evento talmente casuale da rendere ridicolo ogni tentativo di inserirlo in una vicenda umana che si svolgerebbe sempre secondo una logica causale ed evolutiva. Ma tali perdite non dovrebbero essere attribuite ai maltrattamenti imposti con il lavoro schiavistico e servile? Leggi: non dovrebbero essere attribuite alle superiori qualità negative degli europei e quindi non ad un fatto inedito e imprevisto? No. Il lavoro servile e schiavistico ha contribuito al genocidio, abbassando le difese immunitarie, ma in modo marginale. Al riguardo, facciamo osservare non solo che lo stesso lavoro imposto ai neri non ha provocato un effetto di tale portata, ma anche che il maggior numero di morti è concentrato nei primi decenni (a partire da Cortès) della conquista, quando ancora piantagioni e miniere non erano state messe in funzione su vasta scala. Ci si ricorderà che la Cina e i tavoli si miseroa ballare, quando il resto del mondo sembravaancora fermo (Marx)Sul riflusso conservativo della Cina, a seguito della distruzione della grande flotta. Quanto alla distruzione della grande flotta cinese, preliminarmente occorre qualche parola per ridefinire la sua portata. Il decreto imperiale (che ufficialmente sancisce il divieto di costruire grandi navi solo nel 1525) non coinvolge le navi fino a tre alberi, per cui migliaia di navi cinesi della stessa grandezza delle “nostre” caravelle, soprattutto private, continuano a solcare il mare cinese, arrivano fino a Malacca e perfino a Calicut. Ciò è testimoniato anche da Vasco da Gama prima e da Alfonso Albuquerque dopo, quando arrivano ad Hormuz (nel golfo Persico), Goa e Malacca: essi parlano di migliaia di navi cinesi, a migliaia di chilometri di distanza dalla madrepatria, a sessanta e settanta anni di distanza dalla messa a riposo della flotta imperiale. Dopodiché va meglio esaminato perché la Cina, invece di incrementare la propria egemonia sugli oceani, vi rinuncia addirittura. Diamond, per esempio, attribuisce, in un libro che ha superato il milione di copie, la decisione (e soprattutto la sua efficacia) al fatto che la Cina –a differenza dell’Europa- ha un potere centralizzato nelle mani di Uno Solo, che peraltro simboleggia lo spirito isolazionista e perciò conservatore della casta dei mandarini, il cui potere sarebbe stato appunto messo in pericolo dallo sviluppo del commercio, soprattutto con l’esterno. Non dobbiamo spiegare la metafora di un libro scritto a metà degli anni novanta del secolo appena scorso, caratterizzati dalla preoccupazione occidentale per i dazi cinesi. E quindi non dobbiamo spiegare perché “Armi, acciaio e malattie”, ad onta di alcuni entusiasmi marxisti, è piaciuto a Bill Gates ed è stato assunto come livre de chevet da Bill Clinton. Con la cecità di un solo, diventa così possibile che nella seconda metà del Quattrocento la Cina non riesce a capire che il futuro era assicurato dall’egemonia sui mari, e non lo riesce a capire neppure quando i portoghesi conquistano nel 1511 Malacca, che è in pratica un trampolino di lancio verso la conquista della Cina. In realtà, l’accentramento del potere nelle mani di Uno Solo, a parte che è un’esagerazione di marca liberale, non comporta una sostanziale differenza con la variabilità delle decisioni nella frammentata Europa. Come si può leggere in un qualsiasi buon manuale di storia della Cina, non solo le decisioni cambiavano con il succedersi degli imperatori, ma anche durante la vita di uno stesso imperatore. Per restare al Quattrocento, alla morte di Zhu Di, il figlio decide di porre fine ai grandi viaggi oceanici; dopo pochi mesi muore anche questi e l’imperatore che gli succede ordina che sia effettuato il settimo viaggio (quello del 1433). Se c’è una costanza nelle vicende cinesi, essa va individuata nel maggior rilievo dell’agricoltura (di ottima resa) e nel maggior pericolo proveniente via terra. Per valutare con una buona approssimazione la scelta cinese di distruggere la grande flotta, crediamo che occorra fare prima un’operazione di igiene mentale, liberandoci dalla tentazione di esaminare una scelta del passato sempre con il senno del poi; in questo caso, il senno del poi (sulla base della rivoluzione industriale iniziata nel 1750 all’incirca) si applicherebbe ad una scelta fatta nel 1434 (la dismissione della grande flotta). Naturalmente, nessuno ammetterebbe di utilizzare la predetta metodologia, ma il lettore attento sarà in grado di coglierla nel mare di parole in cui viene camuffata. Peraltro, quando si dice che i cinesi non capirono che il futuro si giocava sui mari, cosa si intende se non che i cinesi della prima metà del Quattrocento non sapevano vedere oltre il loro secolo? Ma, noi ci chiediamo: c’è mai stato un tale genio politico capace di vedere oltre una prospettiva di 50 anni? Ma di questo parleremo più ampiamente nel convegno, se ovviamente sollecitati. Per il momento, è sufficiente ripetere che la Cina, anche senza la grande flotta, continuò a trasformarsi e ad aumentare la sua “industriosità” fino al XVIII, forse in misura maggiore anche dell’Europa occidentale. Qualche “opinabile” considerazione finale Vogliamo allora negare che ci siano e ci siano state le differenze culturali, ambientali, economiche, ecc.? No. Vogliamo solo negare che le differenze – a parte i casi eccezionali di ambienti separati e oltremodo sfavorevoli- non sono (state) così rilevanti come pretende la letteratura eurocentrica. Con lo Stato forte o con lo Stato debole, con Allah o con Confucio, Europa, Cina, India, Islam erano ancora più o meno alla pari ancora nel periodo che precede la rivoluzione industriale: si può dire che in quel periodo erano diventati tutti industriosi in modo ancora più uguale. Fino all’avvento del capitalismo, nella vasta area intercomunicante euro-asiatica (gran parte dell’Africa compresa e con l’America in forte recupero), quando si determinava qualche maggiore rilevanza in un luogo, essa veniva prima o poi spalmata nel resto dell’area. Crediamo si debba avere maggiore fiducia nelle “infinite” capacità di adattamento/trasformazione dell’essere umano, se è vero che è riuscito a cavalcare anche le mucche come se fossero cavalli, a piantare manioca nelle terre sterili. Si pensi, per tutte, ai bambini, figli degli schiavi: senza l’aiuto di nessuno, riuscivano a trasformare il pidgin dei genitori (un centinaio di parole rubate al padrone, senza il minimo accenno di grammatica) in una vera e propria lingua. Il capitalismo, è vero, rompe questo sostanziale equilibrio con le sue profonde disuguaglianze e polarizzazioni. Ma ciò non dipende da fattori ambientali, culturali e tanto meno genetici. E’ sicuramente un fenomeno molto preoccupante! Per la prima volta, c’è da temere l’autodistruzione, anche molto prima che il sole si raffreddi. C’è però un “paradosso”. La società della massima disuguaglianza ha provocato (non stimolato!) anche la più generalizzata ed endemica reazione, che invoca la massima eguaglianza, la massima liberazione…e le più belle differenze: non basterebbe neppure il più grande cervello elettronico per elencare quante proteste, scioperi, rivolte, rivoluzioni, ci sono state nell’era del capitalismo; neanche le “news 24 ore su 24” riescono a riportare le proteste di un solo giorno. Non è mai successo prima! I pessimisti vorranno almeno concedere a noi poveri ingenui che quella invocazione non è più nascosta in qualche cenacolo platonico o pitagorico. Sarà pure spesso sgangherata e confusa, e anche strumentalizzata, ma sta sulla bocca di milioni di persone, traducibile in tutte le lingue. Non è forse il caso di tornare a capire che la probabilità che questa invocazione si realizzi – mettendo sempre nel conto l’eventualità di catastrofi naturali e militari-, perché è alimentata inesauribilmente da buoni motivi materiali? Napoli, 12 ottobre 2005, dedicato agli irochesi. NOTE.1)-Di Latouche si veda in particolare “L’Occidentalizzazione del mondo”2)-Tanto per fare qualche esempio di una lunga serie, Locke, il padre del liberalismo inglese, è non solo uno dei massimi difensori dello schiavismo, ma anche azionista in società che commerciano o utilizzano schiavi; Montesquieu, uno dei massimi critici dell’assolutismo, giustifica la schiavitù –sia pure moderata- negli ambienti climatici che scoraggiano il lavoro.3)-Tra i sostenitori dell’esistenza del “dispotismo asiatico” va segnalato in particolare Hegel che, a parere di tutti i più autorevoli marxisti (a cominciare da Engels e da Lenin), è stato una delle “fonti” principali di Marx. 4)-In particolare, segnaliamo “Athena nera” di Martin Bernal5)-Per una critica al “post-modernismo” si rinvia alle “Illusioni del postmodernismo” di Terry Eagleton e alla “Crisi della modernità” di David Harvey; e al recente libro di Miguel Mellino dal titolo “La critica postcoloniale”.6)-Young espone la sua autocritica in “Introduzione al post-colonialismo”. Sia il libro di Mellino che quello di Young vengono, oltre che presentati a Napoli in un seminario, recensiti da Sandro mezzadra sul Manifesto del 18 maggio 2005.7)-In Italia l’unico lavoro di rilievo, con ispirazione che vuole essere libertaria, è quello di Umberto Melotti con il titolo di “Marx e il Terzo Mondo”. In Francia la corrente marxista libertaria più nota era quella che faceva capo a “Socialisme ou barbarie”, che ebbe come intellettuali di punta L. Lyotard (divenuto poi uno dei massimi esponenti del post-modernismo) e P. Chaulieu, divenuto poi più noto come Castoriadis.8)- K. Wittfogel pubblicò il suo “Dispotismo asiatico” nel 1957 e fu tradotto in Italia nel 19689)-Gianni Sofri pubblicò il suo “Dispotismo asiatico” nel 1969, quando era un militante della sinistra extra-parlamentare.10)-Sostenitore della tesi del “lungo XVI secolo” è I. Wallerstein che, pur essendo un critico radicale dell’eurocentrismo, resta convinto che la superiorità tecno-scientifica dell’Europa precede e spiega la conquista dell’America.11)-Il mito del Rinascimento prende slancio da Michelet e Burckhardt, che non ci sembrano due rappresentati di grande spirito ri-voluzionario.12)-Di Tzvetan Todorov “La conquista dell’America”.13)-Come rileva Michele Fatica -sulla scorta di Alberto Tenenti e Ruggero Romano- in “Scritture di Storia”.14)-Al riguardo, va letto soprattutto di Louise Levathes –una delle più autorevoli esperti della navigazione- “When the Ming ruled the seas. The treausure fleet of Dragon Throne”, non tradotto in Italia.15)-Samir Amin, “Eurocentrism” tradotto anche in francese16)-Bin Wong, “China transformed”, pubblicato in lingua inglese nel 1997 e non tradotto in Italia17)-Kenneth Pomeranz, “La Grande Divergenza”, pubblicato in Italia nel 2004.18)-James Blaut, “The Colonizer’s Model of the World” e “1492. The Debite on Colonialism, Eurocentrism and History”, non tradotti in Italia.19)-Come ha spiegato A. Negri in un articolo sul Manifesto a precisazione delle sue tesi sull’Impero20)-Non per questo sposiamo le tesi -che espose Lucio Colletti quando era un filosofo della sinistra radicale- su una negazione assoluta di ogni dialettica, nell’assunto che tutto funzioni solo sulle opposizioni più assolute.21)-Come descritto da Janet Abu Lughod in “Before the European Hegemony, non tradotto in Italia nonostante sia stimato una pietra miliare della storiografia mondiale.22)-Vedi il celeberrimo “18 Brumaio” di Karl Marx23)-E’ il caso di rammentare che George Orwell era stato un militante della sinistra trotskysta, che si accinse a scrivere il suo “1984” mentre passava a posizioni di simpatia per il laburismo inglese.24)-Moses I. Finley in “Schiavitù antica e moderna”25)-Mao, Chesnaux, ma anche A. Bordiga a torto considerato un estimatore della sola lotta operaia.26)-Come teorizza da anni la scuola hegelo-marxista, cui si è aggiunta stranamente anche una parte di quella proveniente dall’operaismo.27)-Basti leggere un qualsiasi manuale di storia della Cina o vedersi il recente film “Hero”28)-“Le Monde Diplomatiche” con il suo numero di settembre 2005 ha pubblicato in inglese un articolo di Attilio Jesus dal titolo “China’s empire of exploration”. L’articolo non è stato riportato nella versione italiana, curata dal Manifesto, forse nella considerazione della idiosincrasia in Italia per il tema.29)-Gavin Menzies, “1421: La Cina scopre l’America”.30)-La carta è dell’Ammiraglio turco Piri Reis.31)-la tesi è esposta in uno scritto fatto circolare su peacelink.it. Ma di Enrique Dussel si può leggere anche “Marx sconosciuto”.32)-Massimo Livi Bacci ha esposto la sua tesi in un articolo su Repubblica annunciandone una spiegazione esauriente in un libro di prossima pubblicazione33)-Jared Diamond, “Armi, Acciaio e Malattie”, venduto in milioni di copie e premiato con il Pulitzer.34)-Alfred W. Crosby jr., “Lo scambio colombiano”, cui ha fatto seguito “L’imperialismo ecologico”.35)-Della scuola di Berkeley che si sono occupati particolarmente del problema citiamo S. Cook e W. W. Borah.