di Nicola Porro

È soddisfatto Giulio Tremonti, ha portato a casa la Finanziaria a saldi invariati e uno scudo fiscale da record. I conti si faranno alla fine sommando le due fasi, la prima appena chiusa e quella che si sta aprendo. Iniziamo proprio da qua. Con una considerazione solo apparentemente tecnica. Il successo dello scudo è stato un regalo agli evasori: un’aliquota del 5%, dunque un numero piccolo, ha permesso l’emersione di un gettito grande.

Non le sembra che presumere che i capitali italiani all'estero rendano solo il 2% l'anno sia troppo poco?
«Non credo che le banche straniere siano particolarmente generose nel riconoscere rendimenti sui depositi degli evasori di un altro Paese. Inoltre gli ultimi cinque anni incorporano anche la crisi economica. Un 2% di rendimento annuo in media non mi sembra fiscalmente troppo generoso».

Allora mettiamola così: il nostro scudo ha garantito l'anonimato a differenza degli altri?
«Gli altri Paesi hanno la nominatività come regola generale anche sui redditi da capitale. Al contrario da noi la regola non è la nominatività, ma la cedolare secca. Era inevitabile che lo scudo seguisse la regola di sistema».

È stato detto che lo scudo ha allargato le maglie della depenalizzazione in modo eccessivo e pericoloso.
«Nel primo testo dello scudo, quello di luglio, era semplicemente previsto che i dati relativi ai capitali rientranti non facessero prova contro il rimpatriante. Ciò in base al classico principio di diritto secondo cui «nemo tenetur se detegere» nessuno è tenuto ad autoaccusarsi. Le notizie che abbiamo avuto subito dopo erano nel senso che questo principio sarebbe stato disapplicato, causando un effetto trappola per il dichiarante. Per evitare questo effetto perverso abbiamo introdotto alcuni effetti espressi di depenalizzazione».

Ma perché altri Paesi non lo hanno fatto?
«Negli altri Paesi si è posto lo stesso problema e sono stati disposti strumenti legislativi che dispiegassero effetti depenalizzanti equivalenti. Vari da Paese a Paese, secondo la natura del rapporto in essere tra potere giurisdizionale ed esecutivo».

Nei Paesi che hanno maggiore presa sui Pm, mi vuol dire, c'è meno necessità di scrivere una legge che depenalizzi esplicitamente, perché i governi fanno da soli?
«Nei Paesi in cui il rapporto tra potere giudiziario ed esecutivo è un rapporto organico, l’assessment amministrativo chiude automaticamente entrambi i rapporti: tanto quello fiscale quanto quello penale.
Nei Paesi in cui il rapporto è diverso è la legge stessa che disciplina l’effetto depenalizzante. Basta leggere i giornali Usa per leggerci la notizia di una Tax Amnesty, disposta per legge».

Perché il primo scudo, quello del 2002, non prevedeva quel rimpatrio fisico dei quattrini, che invece oggi sembra essere prevalente?
«La ragione economica e politica del primo scudo era l’euro che eliminava il rischio di cambio italiano e stabilizzava il sistema. Ma il medesimo conservava il diritto storico al segreto bancario e di conseguenza lasciava invariata la forza attrattiva dei paradisi fiscali.
La stesa Direttiva europea sul risparmio era basata sul principio del segreto bancario, pagato con una ritenuta maggiorata.
L’effetto del primo scudo fu allora quello di un rimpatrio prevalentemente virtuale e l’effetto sull’economia italiana fu di conseguenza attenuato. Con il G20 di Londra è cambiato lo scenario: la decisione politica è che il tempo dei paradisi fiscali è over, è finito.
Alla base del nuovo scudo c’è soprattutto la presa d’atto di questa radicale novità.
Il processo è appena iniziato: si sta formando l’euroaccertamento, i Paesi si scambiano tra di loro le liste dei presunti evasori e tutti insieme combattono i paradisi fiscali, la cui resistenza sta cadendo verticalmente. Non solo. Il successo di questo scudo non deriva solo dalla sfiducia crescente nei confronti dei paradisi fiscali, ma anche dalla fiducia verso il nostro Paese. I capitali infatti “votano con le gambe”: non vanno a infilarsi in posti malsicuri. Chi li rimpatria sa che può fidarsi del governo di questo Paese e vuole dare il suo contributo alla nostra crescita. Prima i capitali stavano fuori e lavoravano per le economie di altri Paesi. Adesso tornano in Italia e lavorano per l'economia italiana».

C'è chi dice che anche l'Italia con la sua tassa del 12,5% sulle rendite finanziarie sia un paradiso fiscale e che dunque sia l'ora di cambiare marcia.
«Per i capitali più affluenti e ricchi l’Italia non era un paradiso fiscale tant’è che sono andati nei veri paradisi fiscali. Per il resto la scelta fatta in Italia sulla fiscalità finanziaria è stata finora storicamente influenzata dal debito pubblico, che è il terzo più grande al mondo.
Fino agli anni Ottanta i titoli del debito pubblico erano per questo esenti da ogni imposta presente e futura».

Per il Tremonti del rigore il debito pubblico sembra essere diventata una dominante di azione politica.
«Dalla crisi sono arrivate tre lezioni. La prima è che non c’è più una rigida separazione tra debito pubblico e privato.
I debiti pubblici di tutto il mondo sono cresciuti per salvataggi privati. Quando è eccessivo, pubblico o privato che sia, il debito è sempre debito. La seconda lezione è che accanto al debito pubblico si devono sommare i risparmi e i patrimoni privati. L’Italia per esempio ha un grande debito pubblico, ma anche un grande risparmio e patrimonio privato. Sommando le due grandezze la nostra posizione è simile a quella delle altre grandi economie europee.
La terza lezione è che si deve stare comunque attenti, perché se è vero che per la prima volta la velocità della crescita del deficit e del debito pubblico italiano è inferiore a quella europea è però anche vero che aumenta la concorrenza e dunque mal comune non è mezzo gaudio».

Non ci sono dunque margini per allentare la disciplina di bilancio?
«La crisi ci ha mangiato 6 punti di Pil. 90 miliardi di euro di cui 70 per mancate esportazioni.
Non c’è politica, non c’è governo che possa sostituirsi alla domanda globale. E sui conti pesa il costo del maggior debito che è poi la nuova tassa che ci viene imposta dalla crisi.
Un tassa che non possiamo evadere».

La può quantificare? Si dice che sia vicina a 15 miliardi di euro.
«Lo dica a quelli che invitano il governo ad avere più “coraggio” facendo maggiore deficit. Appunto ci vuole proprio un grande coraggio».

Lo scudo fiscale ha dato una bella boccata d’ossigeno alle banche, e proprio in settimana avete siglato un accordo per un fondo da 3 miliardi per le piccole imprese. È cambiato il clima con le banche italiane?
«Riguardo allo scudo, dico solo che non è che per fare un dispetto alle banche si possa fare un dispetto alla propria economia.
L’accordo sul fondo che abbiamo lanciato giovedì rappresenta una buona sintesi tra posizioni che a volte possono essere state, essere e anche restare diverse e posizioni che tuttavia si uniscono nella logica nel bene comune. Noti che tre miliardi sono la base per una leva finanziaria che può essere enormemente maggiore».

È arrivata la pax bancaria?
«Diciamo che con il fondo Pmi, giovedì scorso, è stato un buon giorno di pace».

Siamo alla fine della crisi, ancora incerti, o già in tiepida ripresa?
«Non sappiamo ancora quanto si sia effettivamente rafforzata l’economia italiana ma certo con lo scudo abbiamo dato la prova che l’Italia e la sua piazza finanziaria possono essere attrattive.
Ritengo che sia venuto il momento di cominciare a studiare strumenti legislativi per attirare nuovi capitali finanziari in Italia. Finora abbiamo esportato i nostri, dobbiamo pensare come attrarne da fuori di nuovi».

Altri Paesi europei hanno strumenti attrattivi sia bancari sia societari a cui si rivolgono imprese extra Ue ed europee e anche italiane per ottenere benefici per così dire di sistema. A che cosa sta pensando?
«Non abbiamo ancora cominciato a pensarci come governo, è solo un’idea. In Europa «i modelli» giuridici circolano liberamente e non vedo perché anche noi non possiamo utilizzare questa libertà.
Dalle nostre informative risulta che molte agenzie governative di Paesi Ue si rivolgono alle nostre imprese promuovendo l’offerta dei loro modelli giuridici presentati come più vantaggiosi dei nostri. Dobbiamo stare fermi o fare qualcosa anche noi?».

Oggi è a cena con Berlusconi e Bossi, di cosa parlerete?
«Avendo una qualche esperienza in ordine a questo tipo di incontri ed essendo Natale le posso assicurare che parleremo di tutto, ma non di politica.
Per la verità parleremo di una cosa che per noi è importante anche in politica: l’amicizia».

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