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Risultati da 1 a 6 di 6
  1. #1
    remedios
    Ospite

    Predefinito Banlieu: la rabbia, la guerriglia, la politica

    di Salvatore Cannavò

    Non devono averlo guardato con attenzione quel film profetico di metà degli anni 90 i dirigenti francesi. Eppure "la haine" (l'odio) di Kassovitz raccontava molto bene quel che covava nella banlieu francese. Un ribellione giovanile potenziata dalla precarietà dilagante, una repressione brutale da parte della polizia, un'incomunicabilità totale tra i due mondi, sintomo di un'alienazione dal mondo politico francese, tutti questi ingredienti segnalavano l'esplosione imminente. "L'importante non è la caduta ma l'atterraggio" diceva la scena iniziale del film.

    E l'atterraggio lo si è visto in questi giorni con la legge marziale, di fatto proclamata in un paese attonito e inadeguato a fronteggiare il fenomeno. Che appunto viene da lontano ma che è stato affrontato in questi anni a base di colpevolizzazione, repressione e con un'ipotesi di integrazione "universalistica" che evidentemente non ha funzionato.

    Le fiamme e il fuoco francese dicono innanzitutto che la logica della "tolleranza zero" cui si è ispirato il ministro dell'interno, Sarkozy - che su questa spinta aspira all'Eliseo - ha fallito. La struttura sociale della banlieu non è comprimibile all'eccesso e può, come è evidente, dare vita a una reazione incontrollabile. Chi parla astrattamente di legalità e repressione dovrebbe far tesoro di una simile situazione che rende desueti e inadatti gli strumenti tradizionali delle elitès occidentali.

    Quel che salta agli occhi dalle immagini parigine è innanzitutto la desertificazione del terreno comune, tra periferie e struttura statuale quale essa sia. Non ci sono mediatori sociali, non ci sono punti di contatto. Il fuoco esalta questa separazione dove da una parte si afferma uno Stato totalmente esterno alla dinamica locale - e che, anzi, con l'azione di polizia quotidiana contribuisce a incendiarla - e dall'altro un corpo separato il cui unico linguaggio è la rivolta e la rabbia che la genera. Il teatro di rappresentazione del conflitto è anch'esso terra bruciata, con quelle auto in fiamme a segnalare un disagio irriducibile e una mediazione impossibile.

    Ma perché la rabbia si fa così irrimediabile, così irricomponibile? Perché arriva al punto di prendere fuoco e di bruciare tutti i margini di confronto? L'estremizzazione del conflitto è forse l'aspetto più eclatante di questa rivolta in cui la distruzione appare essa stessa un elemento di autoidentificazione, di rappresentazione di sé quando altre rappresentazioni e simboli non sono disponibili o non vengono accettati. Si pensi al paragone con la rivolta di Los Angeles del '92: lì, accanto alla devastazione c'era anche l'esproprio, il furto, la razzia. Qui c'è solo la distruzione e la rabbia all'eccesso.

    Ma non è una rabbia esasperata o disperata: assistiamo anche a un'organizzazione sistematica della rabbia stessa, con un'evidente azione affermativa: "come vedete esistiamo e sappiamo darvi un problema" sembrano dire i giovani in rivolta. E le provocazioni di Sarkozy, che definisce "feccia" la loro azione, non fanno che alimentare questa vocazione. L'organizzazione della rabbia, dunque, come strumento di affermazione concreta del proprio agire collettivo e della propria presenza che in questo modo si fa "politica".

    E' ormai chiaro che il retroterra è costituito da una situazione sociale che tutti i commentatori definiscono esasperata ed esasperante. Clichy-sous-Bois, uno dei fronti caldi, ha un quadro statistico sconcertante: 20% di disoccupazione media con punte del 40% o del 50%; una popolazione tra le più giovani della regione parigina dell'Ile-de-France di cui la metà sotto i venticinque anni; trentasei etnie differenti che vivono in una città senza metropolitana, senza stazione o una strada statale; una degradazione crescente della situazione alloggiativa con affitti enormi per case fatiscenti. E poi un rapporto sempre e solo conflittuale con i "flics" i poliziotti, argomento costante di conversazione per gli adolescenti abituati a un razzismo pervasivo nonostante il progetto integrativo fondato sulla cittadinanza universale (da non dimenticare che in Francia il Front National ottiene tra il 15% e il 18% dei voti, che la destra è sempre più sarkozyana e che la gestione del rapporto con gli immigrati da parte del governo delle sinistre fu fallimentare).

    L'insicurezza sociale e la precarizzazione dell'esistenza sono dunque i detonatori essenziali di questo scontro che i vari governi, di destra o di sinistra, non sono riusciti a gestire. E da questo punto di vista il conflitto si pone come metafora di una rivolta possibile a livello generale, là dove la precarietà diventa un fenomeno stabile e duraturo delle società europee mentre i governi che si succedono puntano a regolarlo soprattutto in chiave securitaria o "legalitaria". La generalizzazione è data dalla frattura generazionale insita nei paesi europei di cui la Francia ci offre un aspetto nitido e particolare ma che può ricrearsi all'infinito in un'infinità di situazioni diverse. Di fronte all'assenza di prospettive certe, di fronte al tappo sistematico che l'organizzazione sociale frappone al bisogno di crescita, di autonomia e di libertà delle giovani generazioni, la dinamica antisistemica si fa più prepotente e può assumere nel suo divenire anche forme prepolitiche e ingovernabili. Ma è una dinamica reale con cui fare i conti, ci sono migliaia di giovani che partecipano "spontaneamente" alle azioni di guerriglia ed è questa presenza che manifesta un carattere politico latente.

    Una politicità che scardina le coordinate tradizionali dell'agire collettivo e che pone più domande di quante siano le risposte. Intanto perché viene esaltata la forma comunitaria, simbolo di un bisogno di appartenenza e sintomo della crisi di altre forme. La comunità in questo caso è proprio quella della banlieu che, almeno finora, si afferma su altre, magari più consolidate, come quella religiosa, etnica o politica. I ragazzi non ascoltano l'appello della comunità islamica, incendiamo le auto ma non le utilizzano per attentati kamikaze, se ne infischiano dell'autorità qualunque essa sia. La comunità è "extraterritoriale", non nel senso dell'illegalità di cui parla Sarkozy ma nel senso di non appartenenza ai luoghi consolidati della politica e della società. Questo bisogno di comunità - di cui si sente l'eco nelle azioni collettive concertate allo stadio - disegna un'identità così insofferente all'esistente cui solo l'organizzazione della rabbia può offrire solidità e certezza: in mancanza di futuro va bene anche un presente incerto e pericoloso.

    A questa realtà, la politica che conosciamo noi non sa parlare. Non ha gli strumenti, i legami, i contatti giusti. Eppure, stiamo parlando di una fetta importante della nuova generazione francese, che vuole sentirsi francese e vuole contare nella società. Ma le forze della politica, praticamente tutte le forze di sinistra, non sanno e non possono rappresentare quel disagio e quella carica dirompente. Certo, pesa la presenza di bande organizzate, di malavita locale e quant'altro; ma tutto ciò non spiega lo scarto esistente e non rassicura sulla possibilità di colmarlo.

    In secondo luogo l'integrazione repubblicana cara alla legge sul velo si è rivelata una finzione o un'ipocrisia. Accanto al dialogo interculturale lo stato francese ha esibito il pugno di ferro della repressione determinando una miscela esplosiva che gli si rivolta contro. Il rapporto interculturale, il dialogo, il confronto hanno bisogno di intrecciarsi con una politica di diritti sociali disponibili per tutti e tutte, altrimenti si genera una guerra, o guerriglia, non solo verticale ma anche orizzontale.

    Infine, la vicenda può servire da lezione all'Europa unificata in cerca di una nuova missione politica e culturale. E' chiaro che non funziona l'Europa dell'esclusione e delle enclaves mal tollerate. Lo spazio civile europeo deve parlare una lingua nuova, quella della convivenza, della pluralità di diritti, del soddisfacimento di bisogni. Perché il problema, nonostante tutto, non è ancora la caduta, ma l'atterraggio.


    www.sinistracritica.org

  2. #2
    remedios
    Ospite

    Predefinito Banlieue, i numeri della rivolta

    Un dossier del quotidiano "Le Monde"

    Banlieue, i numeri della rivolta

    di Salvatore Cannavò

    Sulla rivolta delle banlieus francesi si sono fatte finora poche analisi circostanziate, basate cioè su inchieste e dati certi. La maggior parte dei commenti si è basata su valutazioni soggettive, su categorie spesso pregiudiziali e "ideologiche" - come l'iscrizione della rivolta alla guerra di civiltà degli islamici contro l'occidente - o su posizioni provocatorie come la "feccia" di cui ha parlato il ministro dell'interno francese, Sarkozy. Un contributo analitico più concreto, invece, viene dal supplemento economico del quotidiano francese Le Monde che in un dossier apparso ieri cerca di spiegare le ragioni che sottendono la protesta. Già il titolo dello speciale è indicativo della volontà di mettere al bando le semplificazioni per cercare qualche risposta nei numeri: "Le cifre che spiegano la rivolta dei figli degli immigrati" è infatti un dossier che si basa su alcuni studi recenti. Studi scarsi, spiega il giornale francese, perché la legge impedisce di fare analisi dettagliate sulla base di criteri etnici. Eppure qualche dato si trova, come quelli individuati da tre ricercatori dell'Istituto nazionale di studi demografici (Ined) in uno studio titolato "Mobilità intergenerazionale e persistenza delle disuguaglianze". La ricerca mette in evidenza quello che è visibile a occhio nudo e cioè che «l'accesso al lavoro è molto più difficile quando ci si chiama Mohamed piuttosto che Quentin».
    Richiamandosi a uno studio del 1991 del sociologo Eric Maurin in cui si metteva in risalto la "spirale di precarietà" di cui soffre la manodopera immigrata, i tre ricercatori riscontrano una situazione analoga al giorno d'oggi. I figli degli immigrati restano esposti al rischio della disoccupazione e della precarietà in misura quasi doppia rispetto ai figli dei francesi: «Avere un'origine non europea costituisce un handicap sul mercato del lavoro che non viene eliminato dall'accesso alla nazionalità francese».

    Questa constatazione viene confermata da un analogo studio compiuto da due ricercatori dell'Insee (Istituto nazionale di Statistica e di Studi Economici): «I giovani francesi di origine maghrebina sono due volte e mezzo più disoccupati dei giovani francesi di origine francese, quale che sia il loro livello di istruzione» recita il rapporto di Denis Fougére e Julien Pouget. Da qui l'insistenza dei giovani dei quartieri popolari nel rifiutare il termine "integrazione": «Siamo figli della Francia che reclamano soltanto il diritto a essere inseriti economicamente e socialmente».

    Le differenze e gli scarti esistenziali sono ancora più chiari se si guarda alla posizione complessiva nel mercato del lavoro per i figli della "seconda generazione" in base al paese di origine dei genitori (dati dell'Insee del 1999). Se il tasso medio di impiego per i "nativi" maschi (persone nate in Francia da genitori anch'essi nati in Francia) è dell'88.3% con un tasso di disoccupazione del 10.1 e uno di inattività dell'1.6%, per i figli di genitori nati in Algeria il tasso di impiego scende al 74.6 e quello di disoccupazione raddoppia al 23.2%. Analoga situazione per i nati in Marocco-Tunisia (79% contro il 19,4% di disoccupazione), per quelli dell'Africa sub-sahariana (78.2 contro 19.4) o della Turchia (74.4 contro 21.2%). Questi tassi salgono di molto se si analizza la condizione delle donne. Qui, rispetto a una percentuale di disoccupazione del 13.5% per le figlie di genitori francesi (a cui va aggiunto un tasso di inattività del 12.2%) si passa al 29.4% per le figlie di genitori nati in Turchia - a cui si accompagna un tasso di inattività del 31.2%, con un tasso di impiego quindi bassissimo al 39.4%), e a tassi di disoccupazione analoghi a quelli dei maschi per quanto riguarda Algeria, Marocco-Tunisia, Africa sub-sahariana ma con tassi di inattività molto più elevati (13.1% nel primo caso, 11.9 nel secondo e 9.8 nel terzo).

    Se il tasso di esclusione sociale è dunque definito chiaramente dai rapporti tra impiego e disoccupazione quello che deriva dall'effettivo inserimento nel mercato del lavoro è molto più ambiguo e ibrido ma non meno escludente. Anche in questo caso i dati sono scarsi, le statistiche non redatte o molto incomplete. Ma cercando bene si scopre, ad esempio, l'esistenza di vere e proprie "nicchie etniche" come appare nell'inchiesta di "Migrations/Etudes" del marzo 2004. Ci sono i settori in cui i giovani figli degli immigrati sono "poco visibili" o "invisibili" (telemarketing, cucine, grande distribuzione); quelli in cui «il rapporto di etnicizzazione è particolarmente forte»: sicurezza, pulizia, lavoro sociale. E poi quelli più faticosi e "più sporchi", che necessitano della più ampia "flessibilità": industria, manutenzione, servizi alle persone. Insomma un inserimento che colloca quei giovani nel gradino più basso della scala sociale con il portato di frustrazione e risentimento immaginabili. Ma soprattutto con la difficoltà a immaginare un futuro migliore, migliore di quello dei propri genitori.

    Un dato che si riflette nelle condizioni di vita e di reddito anche in questo caso recensite dagli studi dell'Insee. Il reddito delle famiglie dei giovani figli di immigrati è mediamente inferiore del 20% di quello di famiglie non immigrate mentre oltre il 20% di famiglie immigrate il cui capo famiglia è originario del Maghreb o della Turchia vivono al di sotto della soglia di povertà (che è di 602 euro al mese) rispetto a una media "francese" del 6,2%. Inoltre gli immigrati abitano alloggi fatiscenti, il 40% delle famiglie maghrebine vive in condizioni di sovraffollamento (contro il 5% tra i non immigrati) e ricorrono molto meno ai medici sebbene solo il 60% si ritenga in buona o ottima salute (contro il 71% tra i non immigrati). In queste condizioni anche vestire o consumare più di due pasti al giorno può diventare un problema. Il dossier di Le Monde cita la testimonianza di un'operatrice del Soccorso cattolico di un quartiere dell'Essonne: «Nessuno dei ragazzi porta vestiti di marca, anzi in famiglia c'è una sorta di rotazione: un giorno vedi una ragazza con un jeans e il giorno dopo lo vedi indosso a suo fratello. Nessuno ha niente per sé e a 16-17 anni è dura vivere così». Problemi anche per mangiare: «I giovani mangiano tutti i giorni - assicura la stessa operatrice - ma poco, un pasto al giorno e spesso quello della sera».

    La conclusione è scritta nella premessa di questo rapporto: quale che sia la condizione effettiva dei giovani figli di immigrati, il tasso di disoccupazione o qualità dell'impiego e della propria vita, quello che è certo è che la "seconda generazione" non ha quasi mai l'opportunità di vivere meglio dei propri genitori. La rivolta nasce in gran parte proprio da questa constatazione.

    liberazione, 15/11/2005

  3. #3
    Socialcapitalista
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    Predefinito

    "Il dossier di Le Monde cita la testimonianza di un'operatrice del Soccorso cattolico di un quartiere dell'Essonne"

    Che le Monde fa il portavoce della chiesa cattolica??
    Addio Tomàs
    siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i 5 stelle

  4. #4
    LEADER83
    Ospite

    Predefinito Re: Banlieu: la rabbia, la guerriglia, la politica

    bosogna stare calmi

  5. #5
    HIROSHI SHIBA
    Ospite

    Predefinito

    In verità appartengo all'area "fascio-Leghista" (si un piccolo ossimoro......) , ma voglio esprimere anche qui un pensierino sulla cosa


    Sono felice che sia esplosa la rivolta. Speravo in qualcosa del genere. Spero anche che la rivolta degeneri e dilaghi in tutta la Francia. Non mi dispiacerebbe se il livello di violenza aumentasse ulteriormente. La presenza di numerose vittime civili e militari non sarebbe male. Enormi danni umani e materiali, forza !. Sì, perchè non qualcosa del genere ? Chissà perchè lo auspico ?

  6. #6
    email non funzionante
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    ce qualcosa che non mi convince

    i cinesi sono richi quasi come i bianchi , ma l'integrazione risulta essere 0 come x gli immigrati magrebini

    questo x non illudere che arrichire i magrebini = integrarli nella ns societa .....

    x me finisce come a Sarajevo

 

 

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