Maurizio Blondet
13/11/2005

Poche righe che Brian Harring, giornalista del Washington Post, ha scritto l'8 novembre, spiegano (a chi sappia leggerle) perché la Siria è oggi salita al primo posto, sostituendo l'Iran, nella scala degli obbiettivi di destabilizzazione americani.
E spiega, come vedrete, anche gli attentati di «Al Qaeda» in Giordania e i disordini in Francia.
Brian Harring scrive: «la ragione che sta dietro la pianificazione di un'avventura militare USA in Siria si fonda interamente su esigenze economiche, non militari. C'è molto petrolio nel nord Iraq: e il nord Iraq è territorio curdo. Ma al momento, non c'è modo di usare l'attuale sistema di oleodotti iracheni per esportare questo petrolio. Ciò, a causa delle attività della guerriglia contro la rete degli oleodotti. [Il piano americano] postula che se la Siria viene occupata dalle truppe USA, può essere costruito un oleodotto attraverso questo Paese verso Israele e il suo porto di Haifa nel Mediterraneo. In questo modo, molto greggio diventa accessibile per USA e Israele, viene neutralizzata una potenziale base per attività pan-islamiche e Israele ne avrà grande beneficio, non solo per le forniture petrolifere, ma per l'eliminazione di un vecchio nemico».



Torna dunque la questione del vecchio oleodotto Mosul-Haifa, costruito dagli inglesi, che l'Iraq chiuse nel 1948, appena divenne indipendente, per non dare il suo greggio ad Israele.
Gli israeliani hanno sperato, con l'occupazione dell'Iraq, di rimetterlo in funzione e anzi di potenziarlo (dagli attuali 8 pollici di diametro a 48) per assicurarsi un rifornimento energetico sicuro e vicino: oggi Israele compra il petrolio dalla Russia e dai lontani giacimenti dell'Angola in mano americana.
Un rifornimento costoso (arriva per petroliere) e che favorisce Mosca, considerata oggi un nemico: la linea di rifornimento può essere interrotta per ritorsione a futuri attacchi israeliani all'Iran.
Ed evidentemente, Brian Harring ha potuto legge il rapporto di 150 pagine dell'Amministrazione Bush sulla questione siriana.
Di questo rapporto riservato pubblica alcuni passi una fonte anonima, che si firma «Voice of the White House» e sembra interna alla Casa Bianca (1).



Questa voce dice che Dick Cheney, di fronte all'impossibilità di lucrare sul petrolio iracheno e alla crescente opposizione pubblica alla guerra, ha rispolverato il vecchio piano «propostogli dagli israeliani e dai rappresentanti dell'industria [petrolifera] ».
Questo piano propone di assicurare un oleodotto difendibile che dai campi petroliferi di Kirkuk (tenuti dai curdi, collaborazionisti con gli USA) porti il greggio al Mediterraneo attraverso la Siria o la Giordania.
«Ma la Giordania è stata scartata perché gli interessi israeliani hanno intimato, in modo molto forte, che l'oleodotto debba terminare nel porto israeliano di Haifa»: ecco forse la spiegazione degli attentati «islamici» negli alberghi di Amman.
Il Mossad può aver voluto dimostrare che la Giordania non è né sicura né difendibile.
E sottrarre ad Amman le royalty che un oleodotto giordano renderebbe alla Giordania.

Un'altra difficoltà discussa nel rapporto è che i vantaggi che il Curdistan iracheno trarrebbe dal petrolio incontrano l'ostilità della Turchia.
«Ma è stato deciso congiuntamente tra USA e Israele che il legame con la Turchia, benché importante, non è importante come eliminare la Siria come nemico di Israele, conquistare una rotta sicura per il greggio iracheno, e ancor più, assicurare una via sicura per i rifornimenti e le truppe in Iraq, senza esporsi ad un possibile attacco dell'Iran».
Oggi i rifornimenti USA passano per nave nel Golfo Persico sotto il naso degli iraniani, «che sono armati con missili russi avanzati».
Ecco perché la Siria è sotto accusa per l'attentato ad Hariri (made in Mossad) e minacciata di invasione.
«L'attuale regime siriano non darà mai il consenso» al passaggio dell'oleodotto tanto desiderato da Israele.
Il ministro israeliano all'Infrastruttura Nazionale, Yosef Paritzky, andrà presto a Washington per caldeggiare Haifa come terminale dell'oleodotto rinnovato ed assicurarsi che la Giordania sia esclusa dall'affare: con l'argomento che essendo la Giordania ancora indipendente, araba e musulmana, potrebbe chiudere i rubinetti in caso di grave crisi.
Ma dall'affare sarebbe esclusa anche la Turchia, che oggi riceve royalty dal passaggio del greggio iracheno, attualmente trasportato con autobotti attraverso il territorio turco.



Il rapporto segreto parla anche del petrolio del Caspio, largamente ancora non sfruttato.
Chiarisce che le riserve del Caspio possono ammontare a 60 miliardi di barili e, «secondo alcune valutazioni, a 200 miliardi di barili».
Ma nel 1995 la regione produceva solo 870 mila barili al giorno.
Oggi le compagnie occidentali assicurano che entro il 2010 possono estrarre dall'area 4,5 milioni di barili al giorno: ben il 5% della produzione mondiale.
«Ma c'è ancora un grave problema da risolvere», dice il rapporto: «come portare le vaste risorse della regione ai mercati» occidentali.
«La regione del Caspio è senza sbocchi, sia geograficamente [è lontana da ogni porto] sia politicamente. L'Asia Centrale è isolata. I paesi del Caucaso e dell'Asia Centrale sono davanti a mutamenti politici difficili».
Ma soprattutto, «il principale ostacolo tecnico consiste nella infrastruttura petrolifera oggi esistente» nel Caspio.
Infatti, «poiché questa struttura risale all'epoca sovietica, gli oleodotti sono orientati verso nord ed ovest, ossia verso la Russia. Non ci sono collegamenti con il meridione e con l'est. E attualmente è improbabile che la Russia possa o voglia assorbire (nei suoi oleodotti) grandi quantità di greggio straniero».



Vengono discussi vari progetti di oleodotti.
Fra cui quello «caldeggiato dalla Azerbaijian International operatine Co., un consorzio di 11 imprese estere, di cui quattro americane: Unocal, Amoco, Exxon e Pennzoil. Questo consorzio propone due vie possibili, una verso nord che attraverserebbe il Caucaso settentrionale fino a [la città russa di] Novorossysk. La seconda rotta attraverserebbe la Georgia fino a un terminale d'imbarco sul Mar Nero; questa seconda via potrebbe essere prolungata attraverso la Turchia fino al porto mediterraneo [e turco] di Ceyhan».
La via «più logica», che passerebbe per l'Iran, è ovviamente rimandata al futuro in cui sarà possibile «esportare la democrazia» a Teheran.
Ciò assicura decenni di destabilizzazione dell'area, fino a quando essa non sarà conformata in modo da far giungere ai «mercati» il greggio bloccato nel «mare di terra» centro-asiatico.
La strategia della tensione è necessaria al business petrolifero.
E ad Israele.



A tal proposito, «the Voice of the White House» sostiene che anche gli «spontanei» disordini in Francia sono stati provocati come preparazione all'attacco alla Siria.
«La penetrazione del Mossad nei gruppi dissidenti islamici in Francia ha permesso la coordinazione tecnica».
Del resto, «l'atteggiamento ufficiale di Israele è colorato dalla percezione di un malcelato antisemitismo nel governo di Parigi».
I disordini mirano a «intensificare l'ostilità dei francesi contro gli arabi residenti», e ciò dovrebbe «permettere l'azione militare in Siria, ex colonia francese, senza ostacoli» da parte di Parigi.
«Queste azioni servono anche come un messaggio ad altri Paesi, come Inghilterra e Germania, che hanno una vasta popolazione islamica: anche loro possono facilmente essere colpite da tali 'disordini civili'».
Spontanei, ovviamente.

Maurizio Blondet




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Note
1) «Voice of the White House», TBR News, 11 novembre 2005.







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