L'economia Usa non va così bene


Autore:Maurizio Blondet

Fonte: www.effedieffe.com


WASHINGTON - I giornali degli ex poteri forti continuano a ripetere che
l'economia USA «cresce ancora» mentre l'economia europea «ristagna».
La verità è un'altra, e la descrive Paul Craig Roberts, già vicesegretario
al Tesoro durante la presidenza Reagan (1).
In ottobre, la trionfante economia americana ha creato 46 mila posti di
lavoro, 33 mila dei quali nel settore costruzioni (c'è la bolla immobiliare
in corso).
Nessun posto di lavoro è stato creato nei servizi, che da anni sono la fonte
dei posti nell'economia terziarizzata: la McDonald's non assume più nemmeno
camerieri.
In compenso, ci sono stati 81.301 licenziamenti nelle grandi industrie e
multinazionali: per lo più posti nell'«industria della conoscenza»
(informatica e telecom) che sono stati delocalizzati (outsourcing) in India
e Taiwan.
«Questo calo degli sbocchi nelle professioni che richiedono alta istruzione
è un segno sinistro per il futuro delle università americane», scrive Craig
Roberts.



E rivela: nel dicembre 2003 il Congresso ha chiesto al Dipartimento del
Commercio uno studio sugli effetti della massiccia delocalizzazione dei
lavori «con alta istruzione».
Il rapporto uscì nel giugno 2004, e fu segretato.
Il governo lo ha reso pubblico solo perché costretto da una richiesta in
base al Freedom of Information Act, e solo dopo che il rapporto era stato
ridotto a 12 pagine, tutte (guarda caso) dedite a magnificare gli effetti
dell'outsourcing per le multinazionali.
Statistiche economiche come segreto di Stato, ecco un altro tratto sovietico
acquistato dalla nuova America.
Il concetto martellato nel rapporto espurgato è quello consueto: la
delocalizzazione favorisce il consumatore, perché abbassa i costi e i
prezzi.
«Ma nessun paese ha beneficio dalla perdita di posti di lavoro ad alta
produttività e ad alto valore aggiunto», nota Craig Roberts.

Il deficit commerciale americano in prodotti d'alta tecnologia ammontava a
quasi 37 miliardi di dollari; in agosto di quest'anno, tale deficit era
cresciuto del 26%.
La bilancia import-export rivela una realtà di tragica
de-industrializzazione, la sparizione dell'economia fisica.
Nel 2004, General Electric, Procter & Gamble, Ford, Kimberley Clark,
Caterpillar, General Motors, Kodak, Honeywell e Alcoa, «tutte insieme»,
hanno esportato 269.600 container di merci.
Quanto alle importazioni, la sola Wal-Mart (grandi magazzini economici) ha
importato più del doppio: 576 mila container, quasi tutti dalla Cina.
E le voci delle esportazioni americane non sono da Paese sviluppato: le voci
principali dell'export sono «prodotti agricoli», «chimica», «carte e rifiuti
di carta» (sic).
Se fosse vero il mito che viene ripetuto - che gli USA sono una superpotenza
economica sviluppata, e la Cina un'economia in sviluppo non lontana dal
terzo mondo - allora sarebbe la Cina a dover essere in grande deficit
commerciale con gli USA, per importare dalla «superpotenza» tecnologica gli
impianti e le competenze necessarie al suo sviluppo.



Come tutti sanno, avviene il contrario.
Gli USA hanno importato dalla Cina per quasi 197 miliardi di dollari, ed
hanno esportato in Cina meno di 34 miliardi.
Il deficit commerciale degli USA verso la Cina è superiore del 30% al totale
delle importazioni americane di petrolio.
A questo punto, Craig Roberts nota giudizioso: «ci ripetono che dobbiamo
raggiungere l'indipendenza dalle importazioni energetiche (petrolio) perché
il nostro futuro dipende da questo. Ma nello stesso tempo, ci dicono che la
globalizzazione - ossia la nostra dipendenza dalle merci estere - è una
buona cosa. Ma perché l'indipendenza energetica è più importante
dell'indipendenza industriale, dell'indipendenza progettuale e
tecnologica?».
Qui viene messo il dito nella piaga dell'ortodossia ultraliberista: la
dipendenza da merci estere provoca la perdita irreparabile di competenze
tecniche, capacità e inventività nazionali, a vantaggio di Cina e India.

La sostituzione con lavoratori stranieri di lavoratori qualificati americani
(ma ciò vale anche per l'Italia) non può nemmeno durare: ad un certo punto,
i consumatori americani (italiani) non compreranno più per mancanza di
reddito e di potere d'acquisto.
Il capitalismo globale sega il ramo su cui è seduto, in una visione di breve
termine che è suicida.
Le paghe americane sono in calo da anni in termini reali.
E Bush continua a dire che la guerra in Iraq durerà dieci anni: gli USA non
avranno né la capacità industriale né il potere di indebitarsi nemmeno per
condurre una guerra di difesa.

Maurizio Blondet




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Note
1) Paul Craig Roberts, «What America exports: paper, waste and Jobs»,
Counterpunch, 8 novembre 2005.