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    Smile "Caro Umberto, grazie di esistere" di Massimo Fini

    CARLO PASSERA
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    Massimo Fini, mercoledì è stato il gran giorno della devolution, nonché quello del ritorno di Umberto Bossi. Partiamo da quest’ultimo aspetto.
    «Il voto è stato il coronamento di trent’anni di sua battaglia politica, mi pare che anche gli avversari politici l’abbiano riconosciuto. Bossi aveva un’idea - cosa rarissima nella politica di oggi - e l’ha portata avanti non solo con coerenza, ma spendendo tutto se stesso. In fondo, s’è ammalato per questo: sono gli uomini di passione quelli che pagano di più sul piano fisico».
    Com’è stato il tuo incontro con Bossi e la Lega?
    «Parliamo del Bossi uomo e del Bossi politico?».
    Di entrambi.
    «Partiamo dall’aspetto politico. Eravamo alla fine degli anni Ottanta, la Lega Nord l’ho subito percepita come elemento di rottura del consociativismo imperante. Nasceva finalmente un’opposizione e quindi il Carroccio aveva il mio appoggio a prescindere, a occhi chiusi, perché una democrazia senza opposizione non può dirsi tale».
    Come ti imbattesti in Alberto da Giussano?
    «Per puro caso. Periferia di Milano, portavo mio figlio a giocare a pallone; alla fine andavamo in... ...un bar dove incontravamo dei veneti molto simpatici. Non so più quale elezione fosse in programma, comunque uno a un certo punto mi disse, fingendo incredulità: “Ma come, tu non voti Lega?”. Risposi: “Ma cos’è mai, la Lega?”, e me lo feci spiegare. Non andavo alle urne da dieci anni: quella volta votai Lega su tutte le schede. Anche perché, oltre a quanto ho già detto, altri aspetti mi avvicinavano al Carroccio».
    Quali?
    «Il discorso identitario, che si lega a quello contro la globalizzazione, fenomeno allora già in atto e che anzi stava maturando proprio in quegli anni. Poi l’anti-americanismo, là dove per America intendo un potere imperiale unico: nel 1990 era già cosa fatta, dopo il crollo dell’Unione Sovietica».
    Passiamo al Bossi uomo. Cosa ti attirò di lui?
    «Ciò che gli altri criticavano chiamandola “rozzezza” e che invece per me era ed è schiettezza. Bossi è un popolano, uno di noi. Sappiamo come il potere trasformi le persone; ecco, almeno fino a quando l’ho frequentato, Bossi non è cambiato. Per dire: io e Daniele Vimercati magari stavamo mangiando una pizza alle due di notte, ci veniva in mente di chiamare Bossi, lui se poteva si univa volentieri alla tavolata. Non ha mai sentito la necessità di mettersi sul piedistallo, perché è un leader naturale. Poi, non mi risulta esistano megaville a lui intestate... Insomma, è un uomo di passioni, che insegue i sogni. A me sono sempre piaciuti tipi così, Annibale che arriva a 14 chilometri da Roma... Non si può ignorare il principio di realtà, ma detesto gli eccessi di realismo, il vivere solo di pragmatismo e cinismo. Poi, Bossi ha un’altra qualità: è un uomo affettivo, il contrario di Gianfranco Fini, un pesce bollito. Bossi c’è, non è plastica, non è Berlusconi. Né Marco Follini».
    Né Massimo D’Alema...
    «Premessa: non considero Bossi uomo di destra perché il localismo non è etichettabile in questo modo. Ciò detto, a sinistra ci sono sempre stati uomini di passione, la storia del Pci è costellata di errori, orrori, ma anche sentimenti. Oggi non rimane più nulla, dominano i cerebrali e freddi alla D’Alema, appunto».
    Oddio, non è che Palmiro Togliatti fosse d’umanità travolgente...
    «È vero. E non lo era nemmeno un uomo più rispettabile di Togliatti, come Giorgio Amendola. Diciamo che le passioni nella sinistra erano molto di più nei militanti di base che nei dirigenti: ma tutti, questo sì, erano al servizio di grandi idee. Quelle che mancano alla sinistra di oggi».
    Abbiamo parlato della “Lega delle origini” e dei suoi valori. Cosa è rimasto? Cosa è andato perduto? Cosa è cambiato, in meglio o in peggio?
    «Bossi è rimasto integro. La Lega meno, per due ragioni. Un po’ perché quando un movimento si istituzionalizza attira anche gli opportunisti. Poi, perché il maggioritario ha costretto il Carroccio ad allearsi con Berlusconi e quindi a mettere da parte quei discorsi fondanti che, peraltro, rimarranno al di là di tutto, perché il tema identitario si rafforzerà sempre più in un mondo di mondializzazione avanzante. I movimenti localisti hanno un futuro. Io spero sia il futuro».
    Al di là delle necessità contingenti di alleanza, l’anima profonda del Carroccio rimane?
    «Non lo so perché non conosco più così a fondo il Carroccio. È certamente rimasta un’anima ruspante che, purtroppo, oggi viene indirizzata verso le parti meno positive del discorso identitario».
    Ossia?
    «Serve l’affermazione della propria identità, ma questo passa anche attraverso il rispetto di quella altrui. La mitica Padania, in fondo, era di chi ci viveva e lavorava. Oggi nella Lega vedo un connotato che all’inizio non si avvertiva. È una conseguenza anche dell’alleanza con il resto della Cdl: il Carroccio ha dovuto accantonare certi temi facendone emergere altri, troppo acriticamente sciovinisti. Non vengono analizzate le cause profonde della immigrazione».
    Abbiamo premesso che mercoledì è stato un grande giorno per Bossi, anche sul piano umano. Hai un messaggio, un augurio, un suggerimento da mandargli?
    «Prenderei in prestito il titolo di una vecchia canzone: grazie di esistere. Lo dico per Bossi, come l’ho detto a volte per certi elementi di Rifondazione Comunista: magari non sono d’accordo con quello che dicono, ma meno male che c’è gente di passione! Ecco, Bossi se lo merita: grazie di esistere».
    Passiamo alla devolution. Ne abbiamo già parlato, tu hai espresso alcune perplessità. È comunque un’importante riforma in senso federalista portata a compimento...
    «Da un punto di vista generale, il fatto è assolutamente positivo. Si va a modificare una Costituzione rigida che ha più di mezzo secolo di vita; nel frattempo le condizioni storiche sono mutate e in queste condizioni qualsiasi Carta fondamentale, anche la nostra, diventa obsoleta almeno in alcune sue parti. La devolution è da promuovere, in termini astratti, come segnale di cambiamento».
    Entriamo nel merito della riforma.
    «Come sempre avviene in Italia, a causa delle mille resistenze e dell’insopprimibile tendenza al compromesso, idee anche molto buone vengono realizzate male o fuori tempo massimo. Prendiamo la riforma elettorale in senso maggioritario, un metodo pensato nell’88-89 per spazzare la palude consociativa ed entrato in vigore nel ’92-94, quando il sistema era ormai già in fibrillazione».
    Cosa ti piace e cosa non ti piace della devolution?
    «Non mi piace soprattutto una cosa. L’idea intelligente, praticabile e coerente era quella delle tre macroregioni, mentre una devolution spalmata su venti regioni rischia di essere il contrario di ciò che si vorrebbe, duplicando le burocrazie. Non se ne sente davvero il bisogno, la Lega si è sempre battuta contro queste cose».
    Ma non ti fidi di più di una scuola o di una sanità gestite direttamente da Milano, Venezia o Torino, invece che amministrate da Roma?
    «Il federalismo deve poter agire su aree coerenti, come è la Padania. Il fatto che si spezzino queste aree coerenti indebolisce la “forza” del sistema e favorisce, come dicevo, la moltiplicazione burocratica. Questo almeno è il mio timore».
    Sarebbe utile che le Regioni delle competenze devolute scegliessero poi la strada dell’accorpamento tra di loro, seguendo la provocazione del governatore veneto Giancarlo Galan, è proprio argomento di questi giorni...
    «Certamente. Ci vorrebbe un accorpamento in modo da arrivare di fatto all’Italia delle tre macroregioni. Mi pare che la Lega l’abbia anche detto, realizzare grandi riforme richiede tempo».
    Qualcuno considererebbe subito in pericolo l’unità del Paese.
    «Sarebbe un timore del tutto infondato, le macroregioni non metterebbero affatto in discussione l’unità d’Italia, per quanto io lo farei molto volentieri».
    Altri direbbero: che senso hanno le macroregioni mentre l’Europa va ad unirsi (ammesso che stia ancora unendosi)?
    «Le macroregioni si inserirebbero perfettamente nella prospettiva di un continente finalmente unito anche dal punto di vista politico. Sarebbe l’Europa delle macroregioni costituite anche attraverso l’accorpamento di regioni che oggi si trovano in Stati diversi: una prospettiva perfetta».
    Questa riforma va in porto dopo decenni di tentativi di cambiamento regolarmente frustrati. Penso al fallimento della commissione Bozzi, della commissione De Mita, della commissione D’Alema... Nel frattempo la richiesta di cambiamento dal basso è sempre andata aumentando.
    «Uno dei problemi centrali della politica è l’allontanamento dei cittadini dalle istituzioni. In questo senso potrebbe essere una risposta valida anche l’ambito strettamente regionale della riforma. Io credo che in realtà vada rafforzato il potere di rappresentanza reale dei sindaci nelle città. Questo già succede all’interno delle piccole comunità, dove esiste un rapporto e un controllo ravvicinato tra primo cittadino e popolazione. Ecco, il sistema che io auspico prevede, insieme, un macroregionalismo e un “microregionalismo”, chiamiamolo così, che consenta un contatto il più stretto possibile tra cittadino, politico, burocrazia».
    È una rivoluzione copernicana...
    «Così appare in Italia, ma in Svizzera una cosa del genere già esiste: la burocrazia è a disposizione del cittadino, se tre cittadini si lamentano di un burocrate, questo perde il lavoro. Siamo lontanissimi dalla mentalità imperante da noi».
    In qualsiasi caso, volendo sintetizzare: la devolution va nella direzione auspicabile, ha dei limiti, può essere migliorata - ad esempio con l’accorpamento delle regioni - e proprio per questo gli assetti definitivi e auspicabili del sistema andranno cercati già a partire da domani. È così?
    «Direi proprio di sì. La devolution è un segnale di tendenza molto positivo. Io sono arciconvinto che più il mondo si globalizza, più diventa indispensabile spezzare lo Stato nazionale e trovare una dimensione comunitaria vera».
    Al di là della devolution, l’intera riforma costituzionale contiene numerosi aspetti rilevanti. Penso alla diminuzione del numero dei parlamentari, all’accrescimento dei poteri del premier...
    «Quest’ultimo aspetto è strettamente correlato al federalismo. È un discorso che noi avevamo cercato di fare già sul Borghese: volevamo far capire a Lega Nord e Alleanza Nazionale che i loro interessi non erano in contrasto. Il rafforzamento dei poteri del premier garantisce l’unità, il federalismo tutela gli interessi identitari e localistici. Che dire: alla fine, con ritardo, lo hanno capito, dopo tante liti che hanno nel frattempo favorito il signor Berlusconi, al quale nulla importa né di premierato, né di federalismo. Come è stato detto: «Iddu pensa solo a iddu».
    Perché è così difficile realizzare le riforme nel nostro Paese?
    «L’Italia è strana. Da una parte è un Paese immobilista, d’altra parte è anche un laboratorio: il fascismo, per dire, è nato qui. Lo stesso berlusconismo, che detesto, è l’espressione di una politica senza più legami con la storia e le ideologie, è insomma ipermoderno. Non è affatto vero che Berlusconi imiti Bush: il Cavaliere è la punta avanzata del bushismo. È difficilissimo mettere insieme una coalizione come quella di centrodestra, le spinte di fondo sono opposte: la Lega va verso l’“antimoderno”, ossia contro le contraddizioni, gli eccessi, la disumanizzazione della modernità; Berlusconi cavalca l’ipermodernità, la globalizzazione, le grandi opere; An sta in mezzo, è ancora legata al concetto di nazionalità che oggi, tra queste due esigenze, non ha più alcun senso. La storia sarà o nelle piccole comunità o nella globalizzazione».
    Torno a chiederti: perché è così difficile realizzare le riforme nel nostro Paese?
    «Da una parte per il conservatorismo della sinistra. Dall’altra per il fatto che il progressismo di matrice berlusconiana è così inquietante da generare reazioni di segno opposto».
    I riformisti devono anche vincere le tendenze alla stagnazione della classe burocratica e dei poteri interessati a che nulla cambi...
    «Questo è certo. L’Italia deve fare i conti col corporativismo che però, poiché tutto ha una doppia faccia, a volte diventa una risorsa, una difesa. Occorre trovare un equilibrio e soprattutto capire dove si vuole andare. La direzione di Berlusconi è quella della modernità “dura e pura”».
    Perché la sinistra, come tu dici, si batte contro il cambiamento?
    «Oggi la sinistra è estremamente più conservatrice della destra, a causa di mutamenti storici che hanno stravolto tali categorie. Un tempo la sinistra era progressista, la destra conservatrice, oggi è vero il contrario, ossia sono entrambe vecchie e da cambiare. Un tempo Giuseppe Prezzolini ne Il manifesto dei conservatori proponeva una specie di “lento-rock” ante litteram, dicendo che la destra era la morale e la sinistra l’economia, oppure che la destra era il libro e la sinistra la televisione; Piero Gobetti a sua volta spiegava come una funzione della destra era quella di educare i cittadini alla legalità. Ecco: è curioso notare come tutti i termini ormai si siano confusi e quasi invertiti».


    [Data pubblicazione: 18/11/2005]
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  2. #2
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    Predefinito

    e pensare che Massimo Fini e' stato per tanti anni socialista, chissa come si ritrovava in quel partito di corrotti e come lo giudica oggi
    WaLd

  3. #3
    Blut und Boden
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    In Origine Postato da waldgaenger76
    e pensare che Massimo Fini e' stato per tanti anni socialista, chissa come si ritrovava in quel partito di corrotti e come lo giudica oggi
    E' solo un opportunista.

  4. #4
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    Predefinito massimo non è un opportunista

    non lo è mai stato, neanche da socialista. alla fine degli anni settanta craxi "sembrava" una ventata di novità. ci sono cascati in parecchi (anche pertini) prima di accorgersi dell'andazzo che via via andava prendendo il craxismo.

  5. #5
    Totila
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    In Origine Postato da Eridano
    E' solo un opportunista.
    Mmmmh...Credo si possa dire tutto di Massimo Fini. Opportunista, mi pare proprio di no. Poteva imbarcarsi con Berluska o con Prodi. Non l'ha fatto.

 

 

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