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  1. #61
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  2. #62
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    Predefinito Sull'analisi Economica Del Diritto

    IN UNA VISIONE STRETTAMENTE AUSTRIACA
    Gregory Scott Crespi, "Exploring the Complicationist Gambit: An Austrian Approach to the Economic Analysis of Law"
    Notre Dame Law Journal 73 (1998): 315-.

    questo vorrei che Steppen me lo traducesse dall'inglese

    per trovare il file con google basta inserire il titolo completo

  3. #63
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    Cercato ma non trovato.
    Magari linkalo.

  4. #64
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    Citazione Originariamente Scritto da Hayekfilos
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  5. #65
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    Predefinito scientiae causa

    Ludwig von Mises

    “Socialismo: Analisi Economica e Sociologica”

    ed. 1990 seconda edizione tedesca 1932

    Parte V Il Distruttivismo

    Cap. quarto
    I Sindacati Operai

    L’interrogativo fondamentale per comprendere le conseguenze economiche e sociali del sindacalismo consiste nel chiedersi se, nell’ambito di un’economia di mercato, il lavoro possa ottenere una più alta e duratura remunerazione ricorrendo all’associazionismo e alla contrattazione collettiva. A questa domanda la teoria economica – sia quella classica (compresa l’ala marxista), sia quella moderna (inclusa pure l’ala socialista) – risponde categoricamente in modo negativo. L’opinione pubblica ritiene che i fatti abbiano dato prova della capacità del sindacalismo di migliorare le condizioni dei lavoratori, in quanto è salito in modo costante il tenore di vita delle masse negli ultimi cento anni. Tutto questo viene spiegato dagli economisti in una maniera totalmente diversa. A loro avviso tale miglioramento è dovuto al progresso del capitalismo, alla progressiva accumulazione del capitale e al suo corollario: l’incremento della produttività marginale del lavoro. Non c’è dubbio che dobbiamo dare maggiore credito alle idee degli economisti in una maniera totalmente diversa. A loro avviso tale miglioramento è dovuto al progresso del capitalismo, alla progressiva accumulazione del capitale e al suo corollario: l’incremento della produttività marginale del lavoro. Non c’è dubbio che dobbiamo dare maggiore credito alle idee degli economisti, sostenute come sono dall’andamento reale degli eventi, che non alle credenze ingenue di uomini che argomentano semplicemente in base al post hoc ergo propter hoc. È vero che questo punto fondamentale è stato completamente frainteso da migliaia di validi capi dei lavoratori, uomini che hanno dedicato tutta la loro vita all’organizzazione dei sindacati,e da molti eminenti filantropi, che hanno difeso il sindacalismo come la pietra angolare della futura società. È stata la vera tragedia dell’era capitalistica che questo atteggiamento fosse errato e che il sindacalismo sia diventato l’arma principale del distruttivismo. L’ideologia socialista ha celato così bene la natura e le caratteristiche del sindacalismo che oggi è difficile capire che cosa siano e che cosa facciano i sindacati. La gente è ancora propensa a trattare il problema delle associazioni dei lavoratori come se fosse una questione di libertà di associazione e di diritto allo sciopero. Il punto è tuttavia che da decenni agli operai sono garantiti la possibilità di associarsi liberamente e il diritto di sciopero anche in violazione del contratto di lavoro. Nessuna legislazione nega loro tale diritto, poiché i danni legali che potrebbero essere addossati ai singoli operai quando scioperano rompendo il contratto di lavoro, praticamente non hanno importanza. È così che perfino i più strenui difensori del distruttivismo hanno appena osato reclamare per i lavoratori il diritto di infrangere a volontà gli obblighi contrattuali. Allorché in anni recenti alcuni Paesi, e fra questi la Gran Bretagna, culla del moderno sindacalismo, hanno cercato di limitare il potere della politica sindacale, questo non fu fatto con lo scopo di eliminare quella che essi consideravano l’azione non politica del sindacalismo. La legge del 1927 ha tentato di bandire gli scioperi generali e quelli per la solidarietà, ma non ha in alcun modo limitato la libertà di associazione, né tantomeno lo sciopero finalizzato al conseguimento di miglioramenti salariali. Lo sciopero generale è sempre stato considerato – sia dai suoi sostenitori, sia dai suoi oppositori – come una misura rivoluzionaria o addirittura come l’essenza della rivoluzione stessa. L’elemento vitale nello sciopero generale è la paralisi più o meno totale della vita economica della comunità, in vista del raggiungimento di alcuni fini desiderati. Quanto successo possa avere uno sciopero possa avere lo si è visto allorché il putsch di Kapp, sostenuto sia dall’esercito regolare tedesco sia da una grande forza armata irregolare, e che aveva costretto il governo ad abbandonare la capitale, è stato sconfitto in pochi giorni da uno sciopero generale. In questo caso l’arma dello sciopero generale venne usata per difendere la democrazia. Tuttavia il fatto che si sia simpatetici o meno con l’atteggiamento politico della classe operaia organizzata non ha alcuna importanza. Il fatto è che, in un paese dove il sindacalismo è abbastanza forte da mettere in moto uno sciopero generale, il potere supremo è nelle mani delle organizzazioni sindacali e non in quelle del parlamento e del governo che ne dipende. È stata la comprensione del vero significato del sindacalismo e del suo funzionamento a ispirare ai sindacalisti francesi l’idea di fondo secondo cui la violenza è il mezzo di cui i partiti politici si devono servire per arrivare al potere. Non si dovrebbe mai dimenticare che la filosofia della violenza, che ha sostituito i concilianti insegnamenti del liberalismo e della democrazia, è iniziata come filosofia del tradunionismo. Sindacalismo non è altro che il termine francese per tradunionismo. L’esaltazione della violenza che caratterizza la politica del sovietismo russo, del fascismo italiano, del nazismo tedesco, e che oggi minaccia seriamente tutti i governi democratici, scaturisce dagli insegnamenti dei sindacalisti rivoluzionari. L’essenza del problema dei sindacati sta nell’obbligo di associarsi e di scioperare. I sindacati reclamano il diritto di allontanare dall’impiego tutti coloro che rifiutano di aderire alle loro formazioni e tutti quelli a cui non consentono di associarvisi. Tali formazioni rivendicano il diritto di scioperare a piacimento e di impedire a chiunque di sostituire gli scioperanti. Reclamano il diritto di prevenire e di punire con la violenza le azioni degli altri, di chi si oppone alle loro decisioni, e di poter adottare misure tali che la violenza da essi esercitata abbia successo.
    Ogni associazione diventa più lenta e cauta quando che ne ha il controllo invecchia. Le associazioni di combattimento perdono allora il desiderio di combattere e la capacità di superare i loro avversari attraverso l’azione rapida. Gli eserciti delle Potenze militari, primi tra tutti quelli dell’Austria e della Prussia, hanno più volte imparato che è difficile vincere quando si è comandati da generali anziani. I sindacati non fanno eccezione a questo principio. Può così accadere che alcuni dei sindacati più vecchi e pienamente sviluppati perdano, momentaneamente, parte della loro volontà distruttivistica di attacco e la prontezza di agire. Così, nel caso in cui il veterano respinge la politica distruttiva del giovane impetuoso, uno strumento di distruzione si trasforma per il momento in un mezzo che mantiene lo status quo. È questo il motivo per cui radicali hanno sempre avversato i sindacati, ed è esattamente questa la giustificazione che, al contrario, i sindacati hanno portato quando hanno voluto l’aiuto delle classi non socialiste della comunità nella loro opera di allargare la sindacalizzazione obbligatoria. Nelle lotte distruttive dei sindacati, quelle di questo tipo sono però pause di breve respiro. Coloro che hanno continuamente trionfato sono quelli che hanno sostenuto una lotta permanente senza tregua contro l’ordine sociale capitalistico. Gli elementi violenti o hanno espulso i vecchi leader sindacali oppure hanno fondato nuove organizzazioni al posto delle vecchie. E non poteva essere che così. Infatti, coerentemente con l’idea sulla quale si sono sviluppate, le associazioni dei lavoratori in sindacati sono immaginabili solo come arma di distruzione. Abbiamo già mostrato che la solidarietà dei membri del sindacato si può costruire unicamente sull’idea di una guerra volta a distruggere l’ordine sociale basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. L’idea di base, non solo l’azione pratica dei sindacati, è la distruzione.
    La pietra angolare del sindacalismo è l’iscrizione obbligatoria. Gli operai si rifiutano di lavorare con uomini che non appartengono a nessuna delle associazioni che essi riconoscono. Escludono dal lavoro i non iscritti, minacciando di scioperando effettivamente. Coloro che non aderiscono al sindacato vengono talvolta costretti a farlo attraverso vessazioni. Ora, dire che tutto ciò rappresenta una grave violazione della libertà personale è totalmente superfluo. Neanche i sofismi dei sostenitori del distruttivismo sindacale sono stati in grado di rassicurare l’opinione pubblica su questo punto. Tant’è che, quando episodi particolarmente clamorose di violenza contro un lavoratore sindacalizzato vengono alla luce , perfino i giornali che altrimenti stanno più o meno dalla parte dei movimenti distruttivistici, si mettono a protestare.
    L’arma del sindacato è lo sciopero. Bisogna tener presente che ogni sciopero è un atto di coercizione, una forma di estorsione, una misura di violenza rivolta contro tutti coloro che potrebbero ostacolare le finalità perseguite dagli scioperanti. Infatti se l’imprenditore potesse fare delle assunzioni con le quali sostituire gli scioperanti, o se soltanto una parte dei lavoratori aderisse allo sciopero, lo scopo dello sciopero sarebbe sconfitto. Il diritto dei sindacati, piaccia o non piaccia, è in effetti il diritto a procedere con bruta violenza contro coloro che non scioperano; ed è questo un diritto che i lavoratori hanno mantenuto con successo. Il modo in cui esso è stato ottenuto dai sindacati di diversi paesi non è qui di nostro interesse. È sufficiente però dire che negli ultimi decenni tale diritto si è affermato ovunque, più che con espliciti provvedimenti legislativi, col tacito consenso dei pubblici poteri e della legge. Per lunghi anni, in ogni parte d’Europa, è stato difficile contrastare lo sciopero attraverso l’assunzione di sostituti. È stato solo possibile evitare, per un lungo periodo di tempo, gli scioperi nei servizi ferroviari, elettrici, idrici, e nelle più importanti industrie di generi alimentari per il rifornimento delle città. Ma anche qui il distruttivismo ha avuto alla fine il sopravvento.
    Nessuno si è seriamente opposto all’opera distruttivista del sindacalismo. Eppure, non c’è mai stata una teoria dei salari da cui si potesse dedurre che le associazioni sindacali portano a un incremento permanente del reddito reale dei lavoratori. Lo stesso Marx si è ben guardato dall’affermare che i sindacati possono avere un qualsiasi effetto sui salari. In un discorso pronunciato nel 1865 all’assemblea generale dell’internazionale socialista, egli ha cercato di convincere i suoi compagni a collaborare con i sindacati. Le sue parole introduttive rivelano il suo obiettivo nel far questo. L’opinione che tramite gli scioperi non si potesse ottenere un aumento dei salari – opinione sostenuta in Francia dai prudhoniani e in Germania dai lasalliani – era, afferma Marx, «molto impopolare presso la classe operaia». Le sue grandi qualità tattiche, che un anno prima gli avevano permesso, nel suo indirizzo inaugurale, di saldare in un programma unitario i giudizi più diversi sulla natura, gli scopi e i compiti del movimento sindacale all’Internazionale socialista, Marx giunse a dire tutto il sostenibile a favore dei sindacati. Tuttavia, egli fece attenzione a non affermare che la posizione economica dei lavoratori può venire migliorata direttamente dai sindacati. A suo avviso, il compito principale dei sindacati è quello di guidare la lotta contro il capitalismo. La funzione affidata alle organizzazioni sindacali non lascia dubbi sull’esito che egli attende dal loro intervento. «Al posto del motto reazionario: “un equo salario per un’equa giornata di lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema di lavoro salariato”. Essi, i sindacati, non conseguono, in generale, il loro scopo, perché si limitano a una guerriglia contro gli affetti del sistema esistente, invece di tendere nello stesso tempo alla sua trasformazione e di servirsi della loro forza organizzata come di una leva per le liberazione definitiva della classe operaia, cioè per l’abolizione definitiva del lavoro salariato.» difficilmente Marx avrebbe potuto esprimere in modo più chiaro il proprio pensiero, dichiarare in maniera più esplicita la sua idea del sindacalismo come strumento con cui distruggere l’ordine capitalistico. Restava da asserire, per gli economisti «realisti» e per i marxisti revisionisti, che i sindacati erano in grado di mantenere i salari sempre al di sopra del livello al quale sarebbero rimasti senza il sindacalismo. Non vi è bisogno di discutere questo punto , in quanto non è stato compiuto alcun tentativo per sviluppare da esso una teoria. Rimane un’affermazione che viene sempre avanzata senza alcun riferimento all’interdipendenza dei fattori economici e senza alcun tipo di dimostrazione. La politica dello sciopero, della violenza, del sabotaggio, non può assolutamente vantarsi di avere migliorato le condizioni dei lavoratori. Ha contribuito a scuotere dalle fondamenta, abilmente costruito, della economia capitalistica; un edificio in cui tutti, dal più ricco al più povero, vedono continuamente crescere la loro parte. E ha operato nell’interesse non del socialismo ma del sindacalismo.
    Se i lavoratori delle cosiddette industrie non essenziali avessero successo nella loro richiesta di avere salari al di sopra del livello stabilito dalla situazione del mercato, ne seguirebbe una allocazione che metterebbe in moto forze che condurrebbero alla fine a un riaggiustamento dell’equilibrio del mercato disturbato. Se fossero però i lavoratori di settori vitali a far valere, attraverso scioperi e minacce di sciopero, le loro richieste di salari più alti e a reclamare tutti quei diritti rivendicati nella lotta per i salari da altri lavoratori, la situazione sarebbe completamente diversa. Sarebbe fuorviante dire che quei lavoratori si assicurano così un monopolio, perché la questione si trova fuori dal concetto di monopolio economico. Se i lavoratori di tutte le imprese di trasporto scioperassero e fossero in grado di impedire qualsiasi azione finalizzata a indebolire l’effetto che essi si attendono dal loro sciopero, essi sarebbero gli assoluti despoti del territorio sotto il loro dominio. Si potrà anche dire, ovviamente, che fanno un uso equilibrato del loro potere, ma questo non cambierebbe il fatto che sono essi ad avere il potere. In una situazione del genere, ci sarebbero solo due classi nel Paese: quella dei membri dei sindacati dei settori produttivi primari, e il resto della popolazione, composta di schiavi senza diritti. Si arriverebbe al punto in cui i cosiddetti «lavoratori indispensabili dominano le rimanenti classi attraverso la legge della violenza».
    E, parlando ancora una volta di potere, sarebbe bene chiedersi a questo punto su che cosa questo potere, assieme a tutti gli altri poteri trovi il suo fondamento. Il potere dei lavoratori organizzati in sindacati, davanti a cui il mondo oggi trema, ha esattamente le stesse basi del potere di un qualunque tiranno di una qualsiasi epoca; esso non è niente più che un prodotto di ideologie umane. Per decenni è stata inculcata nella mente degli uomini l’idea che l’unione dei lavoratori nel sindacati fosse necessaria e utile per il singolo individuo come per la comunità, che solo il perfido egoismo degli sfruttatori può pensare di battere i sindacati, che negli scioperi gli scioperanti hanno sempre ragione, che difficilmente ci potrebbe essere un’infamia peggiore di essere crumiri e che ogni tentativo di proteggere chi vuole lavorare è antisociale. Le generazioni cresciute negli ultimi decenni hanno imparato fin dall’infanzia che l’appartenenza a un sindacato è uno dei più importanti doveri sociali di un lavoratore. Uno sciopero viene così ad assumere il significati di una sorta di azione santa, di un comandamento sociale. Ed è su questa ideologia che si fonda il potere dell’associazione dei lavoratori. Tale potere crollerebbe se la teoria della sua utilità sociale venisse soppiantata da altre opinioni sugli effetti del sindacalismo. È semplice allora comprendere come siano le organizzazioni sindacali più potenti che sono costrette a limitare l’uso della propria forza, perché sottoponendo la società a una indebita pressione esse potrebbero spingere la gente a riflettere sulla natura e gli effetti del sindacalismo, e portare così a un riesame e a un rifiuto di queste teorie. Questo, ovviamente, è ed è stato sempre vero per tutti i detentori di potere, e non è peculiare dei sindacati.
    Vi è una cosa senz’altro chiara: che se vi dovesse mai essere una discussione approfondita sul diritto allo sciopero dei lavoratori delle industrie vitali, l’intera teoria del sindacalismo e la pretesa di imporre gli scioperi crollerebbero subito, e associazioni quali la «Technische Nothilfe» - associazioni di individui pronti a sostituire gli scioperanti nei servizi essenziali – riceverebbero il plauso che oggi va agli scioperanti. È possibile che nel conflitto sociale che ne seguirebbe la società venga distrutta. D’altro canto, è certo che una società che miri alla preservazione del sindacalismo nelle sue forme attuali, si trova sulla buona strada verso la propria distruzione.


    L’assicurazione contro la disoccupazione

    L’assistenza ai disoccupati si è rivelata una delle più efficaci armi del distruttivismo.
    Il ragionamento che ha determinato la nascita dell’assicurazione contro la disoccupazione è lo stesso che ha portato all’assicurazione contro le malattie e gli infortuni. La disoccupazione è stata considerata alla stregua di una disgrazia, come una valanga che sommerge gli uomini. A nessuno è venuto in mente che l’espressione “mancanza di salario” possa essere un’espressione migliore di mancanza di impiego, perché il disoccupato non perde il lavoro, ma la remunerazione del lavoro. Non è che i disoccupati non trovino lavoro; costoro non vogliono, piuttosto, lavorare ai salari che possono ottenere sul mercato del lavoro per il particolare lavoro che essi sono in grado e vogliono fare.
    Il valore dell’assicurazione contro le malattie e gli infortuni diventa problematico a causa della possibilità che la persona assicurata possa determinare, o almeno intensificare, l’evento contro il quale si è assicurati. Ma nel caso dell’assicurazione contro la disoccupazione, l’evento contro cui ci si assicura non può mai svilupparsi a meno che le persone assicurate lo vogliano. Se esse non agiscono come membri di un sindacato, ma ridimensionano le proprie pretese e cambiano la propria residenza e la propria occupazione in accordo con le richieste del mercato, possono trovare lavoro. E ciò perché, fino a quando vivremo nel nostro mondo e non nella Terra Promessa, il lavoro sarà un bene scarso, ci sarà cioè sempre una domanda di lavoro, non soddisfatta. La disoccupazione è una questione di salari, non di lavoro. Assicurare contro la disoccupazione è impossibile tanto quanto assicurare contro, ad esempio, la invendibilità dei beni prodotti.
    L’assicurazione contro la disoccupazione è in definitiva un’espressione impropria. Non ci potranno mai essere statistiche in grado di fondare una siffatta assicurazione. La maggior parte dei Paesi ha ammesso questo fatto, lasciando cadere il nome di «assicurazione», o almeno ignorandone le conseguenze. Essa oggi non maschera più il suo carattere di assistenza. Permette ai sindacati di mantenere a un livello tale che solo una parte di coloro che cercano lavoro possono trovarlo. L’assistenza ai disoccupati è perciò la causa principale che ha reso la disoccupazione un fenomeno permanente. Oggi molti Stati europei impegnano per tale scopo risorse che superano di gran lunga le capacità delle loro finanze pubbliche.
    Il fatto che esista in tutti i Paesi una permanente disoccupazione di massa viene ritenuto dall’opinione pubblica come la prova decisiva dell’incapacità del capitalismo a risolvere il problema economico e della necessità dell’interferenza statale, della programmazione totalitaria e del socialismo. E questo argomento appare inconfutabile, in presenza del fatto che l’unico grande Paese che non soffre i mali della disoccupazione è la Russia comunista. La logica di questo argomento è, tuttavia, molto debole. La disoccupazione nei Paesi capitalistici è dovuta al fatto che la politica sia dei governi sia dei sindacati tende a mantenere un saggio salariale che non è in accordo con la reale produttività del lavoro. È vero che, per quanto ci è concesso di vedere, in Russia non esiste disoccupazione su vasta scala. Però il tenore di vita del lavoratore russo è più basso di quello del disoccupato che nei Paesi capitalisti dell’Occidente percepisce un sussidio. Se i lavoratori britannici o europei fossero disposti ad accettare salari più contenuti di quelli che attualmente ricevono – ma che sarebbero comunque maggiori diverse volte di quelli del lavoratore russo – la disoccupazione sparirebbe anche in questi Paesi. La disoccupazione nei Paesi capitalistici non è una prova dell’inefficienza del sistema capitalistico, così come l’assenza dello stesso fenomeno in Russia non è una prova dell’efficienza comunista. La presenza di una disoccupazione di massa distrugge i fondamenti morali dell’ordine sociale. I giovani che, avendo finito il periodo di preparazione al lavoro, sono costretti a rimanere disoccupati, sono il fermento da cui sorgono i movimenti politici più violenti. Nei loro ranghi vengono reclutati i soldati delle future rivoluzioni.
    Questa è in realtà la tragedia della nostra situazione. I sostenitori del sindacalismo e della politica dei sussidi di disoccupazione sono in tutta onestà convinti che, al di fuori della politica, dei sindacati, non ci sarà altra maniera di assicurare il mantenimento di un accettabile tenore di vita per le masse. Non si rendono conto che a lungo andare tutti gli sforzi per aumentare i salari al di sopra del livello di mercato conducono necessariamente alla disoccupazione e che alla lunga i sussidi di disoccupazione non avranno altro effetto che la perpetuazione della disoccupazione stessa.
    Non capiscono che i rimedi che essi raccomandano per aiutare i senza lavoro – sussidi, lavori pubblici – portano alla dissipazione di capitale, e che alla fine ciò determina un ulteriore abbassamento. Nelle attuali condizioni, è evidente non sarebbe possibile abolire in un sol colpo il sussidio e gli altri provvedimenti di minore importanza – come lavori pubblici e simili – presi per l’assistenza ai disoccupati. È in effetti una delle principali ripercussioni di ogni tipo di interventismo che è così difficile rovesciare il processo – cioè, che la sua abolizione da luogo a problemi che è quasi impossibile risolvere in modo soddisfacente. Il grande problema dei politici di oggi è come trovare una via di uscita da questo labirinto di misure interventiste. Infatti quello che è stato fatto negli anni recenti non è altro che una serie di tentativi di nascondere le conseguenze di una politica economica che ha diminuito la produttività del lavoro. Quel che è ora necessario, prima di ogni altra cosa, è un ritorno a una politica che assicuri una più alta produttività del lavoro.
    Questo include naturalmente il totale abbandono della politica protezionistica, dei dazi doganali e dei contingentamenti. Bisogna restituire al lavoratore la possibilità di muoversi liberamente da settore a settore produttivo e da paese a paese.
    Responsabile dei mali della permanente disoccupazione di massa non è il capitalismo ma la politica, che paralizza il funzionamento dell’economia di mercato.

  6. #66
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    Predefinito robba forte

    David Friedman
    L'ingranaggio della libertà

    ad. Liberilibri 1997, 2005

    Introduzione
    Da Ayn Rand agli scarmigliati anarchici, di tanto in tanto c'è accordo sui mezzi chiamati "libertarismo" che è una fede nella politica/economia del laissez-faire... Come odiare il proprio governo per principio.*
    L'idea centrale del libertarismo è che alla gente dovrebbe essere permesso di gestire la propria vita come desidera. Noi rigettiamo totalmente l'idea che le persone debbano essere protette con la forza da se stesse. Una società libertaria non avrebbe leggi contro la droga, le scommesse clandestine, la pornografia - e niente cinture di sicurezza obbligatorie. Noi rifiutiamo anche l'idea che la gente abbia, per legge, dei diritti sugli altri, tranne quello di essere lasciata in pace. Una società libertaria non avrebbe assistenzialismo, non avrebbe un sistema di previdenza sociale. Chi desiderasse aiutare gli altri lo potrebbe fare come vuole, attraverso la carità privata, invece di usare il denaro estorto con la forza ai contribuenti. Chi volesse provvedere alla propria vecchiaia lo potrebbe fare attraverso un sistema di assicurazione privata.
    Chi desidera vivere in una società "virtuosa" insieme ad altri che condividano la sua visione della virtù, sarebbe libero di creare una propria comunità e di organizzarsi per evitare che i "peccatori" comprino o affittino case nel suo rione. Coloro che desiderassero vivere insieme potrebbero fondare delle comuni. Ma nessuno avrebbe il diritto di imporre ai vicini il proprio modo di vivere.
    Fino a questo punto molti che non si definiscono libertari potrebbero essere d'accordo. La difficoltà sorge quando si cerca di definire che cosa significhi "essere lasciato in pace". Noi viviamo in una società complessa e interdipendente; ciascuno di noi viene costantemente influenzato da eventi che accadono, lontano mille miglia, a gente di cui non ha mai sentito parlare. Come è possibile, in una società del genere, dire sensatamente che ognuno è libero d'agire come gli va?
    La risposta a questa domanda sta nel concetto di diritto di proprietà. Se partiamo dal presupposto che ognuno possiede il proprio corpo e può acquisire la proprietà su altri beni creandoli, oppure comprando il diritto di proprietà sugli stessi, diventa almeno formalmente possibile definire il significato di "essere lasciati in pace" e del suo opposto, "essere coartati" Una persona che mi impedisce di usare la mia proprietà come desidero, quando non la sto utilizzando per violare il suo diritto di utilizzare la propria, mi coarta. Una persona che non mi permette di far uso di sostanze stupefacenti mi coarta; una persona che mi impedisce di ucciderla, no.
    Questo lascia aperto il problema di come si acquisisce la proprietà di cose che non sono state create, in tutto o in parte, dall'uomo, come ad esempio la terra o le risorse naturali. Sulla questione non c'è accordo tra i libertari. Fortunatamente, la risposta poco influenza la struttura di una società libertaria, perlomeno in questo paese. Soltanto il 3 per cento di tutto il reddito in America proviene da affitti. Aggiungendo il valore locativo delle abitazioni occupate dai proprietari, la percentuale sale all'8 per cento. La tassazione della proprietà - il reddito raccolto dal governo sugli affitti - costituisce un altro 5 per cento. Quindi, il valore totale derivante dagli affitti di tutta la proprietà, fondiaria e immobiliare, rappresenta il 13 per cento circa del reddito totale. La maggior parte è costituita dagli affitti dei fabbricati, che sono stati creati dall'uomo, e dunque non costituiscono alcun problema nella definizione dei diritti di proprietà; l'affitto totale di tutta la terra, che invece pone il problema, è pertanto una minima frazione del reddito totale. Il valore complessivo delle materie prime di tutti i minerali consumati, l'altra principale risorsa "non prodotta", è di circa il 3 per cento. Anche in questo caso, la maggior parte di quel valore è il risultato del lavoro dell'uomo, vale a dire dell'estrazione delle materie prime. Soltanto il valore delle risorse in situ potrebbe a ragione essere considerato non prodotto. Le risorse che non devono nulla all'azione umana di coloro che le possiedono costituiscono, al massimo, forse un ventesimo del reddito nazionale. La maggior parte del reddito è il risultato del lavoro dell'uomo. Essa è creata da gruppi di persone identificabili, che lavorano insieme in base ad accordi che stabiliscono come il prodotto delle loro azioni debba essere diviso.
    Il concetto di proprietà permette almeno una definizione formale del significato delP"essere lasciato in pace" e delP"esse-re coartato". Che questa definizione corrisponda a quello che solitamente la gente intende con queste parole - che cioè una società libertaria sarebbe libera - non è per nulla ovvio. E qui che si crea la frattura tra i libertari e gli amici della sinistra, i quali sono d'accordo sul fatto che ciascuno dovrebbe essere libero di fare quello che desidera, ma sostengono che l'uomo affamato non è affatto libero e che il suo diritto alla libertà implica di conseguenza l'obbligo di fornirgli del cibo, che ci piaccia o meno.
    Questo libro è diviso in quattro Parti. Nella Prima, parlo delle istituzioni della proprietà, privata e pubblica, e di come hanno funzionato in pratica. Nella Seconda, esamino una serie di singole questioni dal punto di vista libertario. Nella Terza, discuto di come potrebbe essere una società libertaria futura e come potrebbe essere raggiunta. La Parte Quarta contiene nuovo materiale su diversi argomenti che ho aggiunto nella seconda edizione.
    Lo scopo di questo libro è quello di persuadere la gente che una società libertaria sarebbe non solo libera ma anche desiderabile, che le istituzioni della proprietà privata costituiscono l'ingranaggio della libertà, rendendo possibile, in un mondo interdipendente e complesso, che ognuno raggiunga il proprio scopo come desidera.


    * S. Brand, The Last Whole Eartb Catalog, The Portola Institute, Menlo Park,CA1971.

  7. #67
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    Predefinito La nuova economia: merito della scuola austriaca

    2.10. Imprenditorialità e conoscenza
    Si impongono qui alcune osservazioni, al fine di chiarire la relazione tra la nozione di prontezza imprenditoriale, sviluppata in questo capitolo, e l'idea alternativa secondo cui l'imprenditorialità pura è legata al superiore possesso di informazioni. Si può essere tentati di pensare all'imprenditore semplicemente come a qualcuno che sa con più precisione degli altri dove è possibile acquistare le risorse a prezzo più basso, dove è possibile vendere i prodotti a prezzo più alto, quali innovazioni tecnologiche o di altro tipo si riveleranno più fruttuose, quali attività si può prevedere aumentino di valore, e via dicendo. Sfruttando questa conoscenza superiore, l'imprenditore si procura dei profitti. Secondo questa interpretazione, in situazione di equilibrio generale, i profitti imprenditoriali (e lo spazio per le decisioni imprenditoriali in genere) svaniscono, perché l'assunto della conoscenza perfetta, associato allo stato di equilibrio generale, esclude la possibilità di aumentare la conoscenza.
    La difficoltà di definire l'imprenditorialità in termini di maggiore conoscenza deriva dall'esigenza di distinguere nettamente tra imprenditorialità e fattori della produzione. La ricerca della categoria analitica sfuggente dell'imprenditorialità nasce dall'idea che la spiegazione del fenomeno del profitto puro implica che il ruolo dell'imprenditore nel mercato non possa essere ricondotto a un tipo di fattore produttivo specifico. Dopo tutto, la conoscenza, o almeno i servizi forniti dagli individui che detengono la conoscenza, può essere acquistata sul mercato dei fattori. Il lavoratore più qualificato tende a chiedere salari maggiori nel mercato del lavoro, e l'individuo meglio informato tende a chiedere salari maggiori nel mercato dei servizi a livello decisionale. Se vogliamo continuare a sostenere che l'imprenditorialità rappresenta un qualcosa di diverso da un fattore della produzione, non possiamo definirla solo in termini di conoscenza (1). E tuttavia non si può negare che le opportunità di profitto vengono generate dall'imperfetta conoscenza da parte dei partecipanti al mercato; che queste opportunità possono essere sfruttate da chiunque ne scopra l'esistenza prima degli altri; e che, nel processo attraverso il quale ci si appropria di tali profitti, allo stesso tempo si corregge anche l'ignoranza nel mercato. Se i partecipanti al mercato fossero tutti onniscienti, i prezzi dei prodotti e i prezzi dei fattori dovrebbero essere sempre completamente aggiustati, di modo da non lasciare spazio a differenziali di profitto; non sarebbe possibile immaginare, grazie a tecnologie conoscibili o nel soddisfare desideri immaginabili dei consumatori, opportunità di distribuzione delle risorse valide che non siano state già sfruttate. Solo l'introduzione dell'ignoranza genera la possibilità che vi siano opportunità non sfruttate (con le conseguenti op-portunità di profitti puri) e la possibilità che il primo a scoprire lo stato di cose reale possa appropriarsi, innovando, cambiando, creando, dei profitti che ne derivano. Ma per quanto la possibilità di lucrare profitti puri sia legata all'elemento della conoscenza, non è possibile, come abbiamo visto, rinchiudere la nozione sfuggente di imprenditorialità nel semplice possesso di una maggiore conoscenza delle opportunità di mercato. L'aspetto della conoscenza, di importanza cruciale per l'imprenditore, non è tanto quello della conoscenza sostanziale dei dati del mercato quanto, la prontezza, la «conoscenza» relativa a dove trovare i dati del mercato. Se si immagina che la conoscenza dei dati del mercato si possieda già con assoluta certezza, come si è sottolineato prima, si esclude la possibilità di ulteriori decisioni di tipo imprenditoriale (distinte da quelle «robbinsiane»). Viceversa, abbiamo già visto che la conoscenza delle opportunità che si ha senza la certezza necessaria per approfittarne richiede un livello di imprenditorialità diverso, ulteriore: la capacità di sfruttare tale conoscenza - la conoscenza incerta diventa così un fattore della produzione che si acquista, e la funzione imprenditoriale viene svolta da chi è certo che la conoscenza, così acquistata, sia in realtà capace di procurargli dei profitti.
    E per tale motivo che, in questo libro, definisco l'elemento essenzialmente imprenditoriale dell'azione umana in termini di prontezza a cogliere l'informazione, invece che di possesso dell'informazione. L'imprenditore è la persona che assume i servizi dei fattori della produzione. Tra i fattori ci possono essere individui che hanno una conoscenza superiore delle informazioni del mercato, ma il fatto stesso che questi de-tentori di informazioni non abbiamo sfruttato da soli tali informazioni dimostra che, forse, non sono loro, in verità, a possedere la conoscenza, ma il soggetto che li assume. E quest'ultimo che «sa» chi assumere, che «sa» dove trovare nel mercato quelle informazioni ne-cessarie a individuare opportunità di profitto. Pur non possedendo l'informazione sui fatti, che invece sono noti ai soggetti che assume, tuttavia l'imprenditore «conosce» tali fatti, nel senso che la sua prontezza - la sua propensione a sapere dove cercare le informazioni - domina il corso degli eventi.
    Alla fine, quindi, il tipo di «conoscenza» necessaria all'imprenditorialità è «sapere dove cercare la conoscenza», piuttosto che la conoscenza delle informazioni di mercato in sé. Il termine che rende più da vicino questo tipo di «conoscenza» è proprio prontezza. È vero che anche la «prontezza» si può acquistare; ma chi assume un impiegato che ha la prontezza di cogliere le possibilità di scoprire la conoscenza, ha egli stesso dato prova di una prontezza di grado ancora superiore. La conoscenza imprenditoriale può essere descritta come «il grado di conoscenza più alto», la conoscenza ultima necessaria a sfruttare l'informazione disponibile già posseduta (o che può essere scoperta). Una relazione simile si può riscontrare durante l'operazione di assunzione di sé. La decisione di assumere un fattore della produzione non è necessariamente im-prenditoriate; dopo tutto, un manager del personale può venire assunto proprio per il suo talento nel prendere decisioni sagge di assunzione. Ma se un fattore della produzione prende la decisione di assumere, ciò implica che questo fattore della produzione sia stato a sua volta assunto da qualcuno che ha preso la decisione di assumere, e così via. La decisione imprenditoriale di assumere è quindi la decisione ultima di assumere, quella responsabile in ultima istanza di tutti i fattori che vengono assunti direttamente o indirettamente per il suo progetto. Allo stesso identico modo, la prontezza dell'imprenditore è quel tipo di conoscenza astratto, molto generale e rarefatto a cui si deve alla fine attribuire il merito di scoprire e sfruttare le opportunità individuate da coloro che è stato tanto saggio da assumere, direttamente e indirettamente.


    1 Per un'analisi della distinzione tra imprenditorialità e responsabilità manageriale, cfr. F. MACHLUP, The Economics of Sellers' Competition, John Hopkins University Press, Baltimore, 1952, pp. 225-31 (parziale trad. it., Teoria della concorrenza tra venditori, in La concorrenza e il monopolio, UTET, Torino, 1956). Per una trattazione degli aspetti non imprenditoriali della conoscenza nel mercato, si veda anche GJ. SlIGLER, The Economics of Information, «Journal of Politicai Economy» , vol. 69, giugno 1961, pp. 213-25.

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    Predefinito da Israel M. Kirzner, Concorrenza e Imprenditorialià, Rubbettino, 1997

    2.11. L'imprenditore e il processo di riequilibrio

    Si è detto nel primo capitolo che l'enfasi posta sul processo di mercato, invece che sull'equilibrio di mercato, come in genere si fa, deriva dalla consapevolezza del ruolo dell'imprenditore, che nella trattazione contemporanea della teoria dei prezzi è largamente ignorato. E per questa ragione che ho attribuito priorità alla nozione di imprenditore. Sono ora nella posizione di poter anticipare l'analisi contenuta nei capitoli successivi e mostrare brevemente come il ruolo dell'imprenditore, così come è stato qui sviluppato, sia in realtà l'elemento cruciale del processo di mercato.
    Lo stato di disequilibrio del mercato è caratterizzato da ignoranza diffusa. I partecipanti al mercato non sanno delle opportunità concrete di scambi vantaggiosi che si possono presentare. Il risultato di questo stato di ignoranza è che si sciupano un'infinità di opportunità. Per ogni prodotto, e per ogni risorsa, si perdono opportunità di scambi reciprocamente vantaggiosi tra acquirenti e venditori potenziali. I potenziali venditori non sanno che acquirenti sufficientemente desiderosi, ai quali sarebbe conveniente vendere, li stanno aspettando. I potenziali acquirenti sanno che venditori sufficientemente desiderosi, dai quali sarebbe allettante comprare, li stanno aspettando. Vi sono risorse che vengono utilizzate per produrre prodotti che, nella valutazione dei consumatori, sono meno urgenti, perché i produttori (e i produttori potenziali) non sanno che le stesse risorse possono produrre prodotti caratterizzati da una maggiore domanda. Vi sono prodotti che vengono realizzati con risorse che sono fortemente necessarie per altri prodotti, perché i produttori non sanno che lo stesso risultato può essere raggiunto usando risorse alternative, per le quali c'è una minore domanda.
    Compito della teoria del mercato è fornire una spiegazione della serie di eventi che si mettono in moto a causa dello stato di disequilibrio del mercato. Il problema fondamentale riguarda la natura delle forze che determinano cambiamenti delle decisioni di acquisto, vendita, produzione e consumo, che compongono il mercato. Ed è qui che la nozione di imprenditore è indispensabile. Se riteniamo che gli individui che assumono le decisioni siano esclusivamente robbinsiani, che ognuno di essi selezioni «meccanicamente» il migliore corso di azione tra le alternative ritenute possibili, allora la teoria manca completamente di una spiegazione del perché i programmi di ieri oggi vengano sostituiti da nuovi programmi. Sino a quando i nostri individui continuano a ritenere che i corsi di azione alternativi possibili nel mercato sono gli stessi che ritenevano essere ieri, non siamo in alcun modo in grado (a meno di ricorrere a cambiamenti esogeni dei gusti o della disponibilità di risorse) di spiegare perché i piani di oggi dovrebbero essere diversi da quelli di ieri. Se i fini e i mezzi considerati dati oggi sono esattamente quelli che erano considerati dati ieri, gli individui che prendono le decisioni arriveranno «automaticamente» alla stessa posizione di ottimo ricavata con i dati di ieri. Perché i prezzi cambino, o perché si verifichino mutamenti nei metodi di produzione o nella scelta dei prodotti, dobbiamo presumere che gli stessi individui non stiano più cercando di realizzare i progetti che volevano realizzare ieri. Non c'è niente nella visione del mercato degli individui puramente robbinsiani, anche con iniezioni di dosi massicce di ignoranza riguardo ai fini e ai mezzi ritenuti rilevanti, che possa spiegare come l'esperienza di ieri possa portare a variazioni dei piani, tali da generare alterazioni nei prezzi, nella produzione, o nell'uso dei fattori. E' perciò necessario introdurre l'idea che gli uomini apprendono dall'esperienza nel mercato. E necessario postulare che, sulla base di quegli errori che ieri avevano portato i partecipanti al mercato a scegliere corsi di azione non ottimali, si sviluppino dei cambiamenti sistematici delle aspettative relative ai fini e ai mezzi, che possono generare alterazioni corrispondenti dei piani. Gli uomini che ieri sono entrati sul mercato hanno tentato di realizzare dei programmi basandosi sulla loro valutazione dei fini che conviene perseguire e dei mezzi disponibili. Questa valutazione riflette aspettative su decisioni che altri uomini avrebbero preso. I prezzi che il partecipante al mercato si aspettava di ricevere, a fronte delle risorse o dei prodotti che contava di vendere, e i prezzi che si aspettava di dover pagare, per le risorse o i prodotti che contava di acquistare, hanno determinato, tutti insieme, il suo corso di azione ottimo. La scoperta, nel contesto dell'esperienza del mercato di ieri, che gli altri partecipanti non hanno preso le decisioni che egli si attendeva genera cambiamenti delle corrispondenti aspettative di prezzo, sulla base delle quali i partecipanti entrano nel mercato oggi. Per spiegare il processo di scoperta di strutture fini-mezzi che sono variabili è necessario introdurre un elemento che è al di fuori dei termini di riferimento tipici delTeconomizzazione robbinsiana. Per gli scopi dell'economista non occorre esplorare la psicologia del processo di apprendimento, che è il risultato di quelle esperienze di mercato nel corso della quali i programmi si sono rivelati inattuabili (o si è trovato che erano possibili, in realtà, corsi di azione alternativi, preferibili)(1). Ma è necessario introdurre formalmente nella nostra teoria l'idea che tale processo di apprendimento esista. Il riconoscimento dell'elemento imprenditoriale nell'azione individuale è perfettamente adatto allo scopo. Non appena allarghiamo la nostra visione teorica dell'individuo che assume le decisioni e passiamo dall'economizzatore robbinsiano «meccanico» all'homo agens di Mises, il cui comportamento incorpora elementi di prontezza imprenditoriale universalmente umani, siamo in grado di risolvere il problema relativo alla spiegazione dei cambiamenti sistematicamente generati dalle forze di mercato. E l'espediente analitico di concentrare tutta l'imprenditorialità nel ruolo ipotetico dell'imprenditore puro ci consente di arrivare allo stesso tipo di spiegazione. Così, possiamo continuare a immaginare un mercato in cui i consumatori e i proprietari di risorse sono economizzatori prettamente robbinsiani, che si limitano a subire il prezzo, scaricando completamente sugli imprenditori puri la responsabilità delle variazioni dei prezzi, dei metodi produttivi, della qualità e quantità di prodotto. Il che, abbiamo visto, risulta semplice non appena ci si rende conto della quasi-inevitabilità che il produttore svolga un ruolo imprenditoriale.
    Alla luce di queste considerazioni, non posso non esprimere una certa insoddisfazione per il ruolo assegnato all'imprenditore nel sistema schumpeteriano. Sulla visione dell'imprenditore di Schumpeter, e su quella di altri importanti autori, ritorneremo alla fine del capitolo. Ora è sufficiente osservare che l'imprenditore di Schumpeter e quello qui sviluppato si possono riconoscere per molti versi - e, consentitemi di aggiungere, in modo rassicurante - nello stesso individuo. Ma c'è un aspetto importante - anche se solo di enfasi - per il quale l'analisi di Schumpeter è diversa dalla mia. L'imprenditore di Schumpeter agisce per turbare una situazione di equilibrio esistente. L'attività imprenditoriale interrompe la continuità del flusso circolare. L'imprenditore viene dipinto come colui che inizia il cambiamento e genera nuove opportunità. Anche se ogni esplosione di innovazione imprenditoriale conduce, alla fine, a una nuova situazione di equilibrio, l'imprenditore viene presentato come una forza che crea disequilibrio, invece che come una forza che conduce all'equilibrio. Lo sviluppo economico che, com'è ovvio, Schumpeter ritiene dipendere completamente dall'imprenditorialità è «totalmente estraneo a quanto è dato osservare [...] nella tendenza all'equilibrio»(2).
    Al contrario, nella mia analisi dell'imprenditore si pone in evidenza l'aspetto equilibrante di tale ruolo. Nella mia ottica, la situazione in cui il ruolo imprenditoriale si sviluppa è essenzialmente disequilibrio, piuttosto che di equilibrio - movimentata da opportunità di cambiamenti desiderabili, piuttosto che di calma piatta. Anch'io ritengo che i cambiamenti possano venire solo dall'imprenditore, ma considero tali cambiamenti equilibranti. A mio avviso, i cambiamenti che l'imprenditore pone in essere sono sempre tendenti allo stato ipotetico di equilibrio; sono cambiamenti effettuati in risposta a una struttura esistente di decisioni sbagliate, struttura che si caratterizza per le opportunità perdute. L'imprenditore, nella mia visione, porta quegli elementi discordanti, frutto dell'ignoranza prima esistente nel mercato, a collimare. L'insistenza sulla differenza tra l'analisi di Schumpeter e la mia mette in luce l'importanza cruciale dell'imprenditore per il processo di mercato. Un'analisi come quella di Schumpeter, che invoca l'imprenditorialità come forza esogena che solleva l'economia dallo stato di equilibrio (per raggiungerne, alla fine, un altro, attraverso gli «imitatori»), favorisce l'impressione che per il raggiungimento dell'equilibrio il ruolo imprenditoriale non sia in realtà necessario. In altre parole, quest'analisi è suscettibile di generare l'idea, totalmente errata, che lo stato di equilibrio si possa realizzare da solo, senza quell'espediente sociale che ordina e allinea i pezzi di informazione disseminati, unica via per lo stato di equilibrio(3).
    E proprio per mettere in risalto questa differenza rispetto alla mia visione, secondo cui solo l'imprenditorialità potrebbe alla fine condurre all'equilibrio (almeno in teoria, se si escludono cambiamenti esogeni), che ritengo necessario concentrarmi sull'imprenditorialità come elemento che agisce in risposta. Vedo l'imprenditore non come una fonte di idee innovative ex nihilo, ma come un individuo attento alle opportunità già esistenti, che stanno aspettando di essere notate. Anche nello sviluppo economico, l'imprenditore dev'essere visto come qualcuno che risponde alle opportunità, piuttosto che crearle; che coglie le opportunità di profitto, piuttosto che generarle. Quando metodi di produzione vantaggiosi a largo uso di capitale diventano tecnologicamente possibili, e il flusso di risparmio è sufficiente a fornire il capitale necessario, l'imprenditorialità deve assicurare che tale innovazione venga effettivamente introdotta (4). Senza imprenditorialità, senza la prontezza a cogliere nuove possibilità, i vantaggi di lungo periodo possono non essere sfruttati. Mantenere una struttura di analisi che mostra come il funzionamento del processo di mercato sia essenzialmente lo stesso sia per un'economia semplice, in cui non si fanno piani multiperiodali, che in un'economia complessa, in cui tali piani, che richiedono l'uso di capitale, si fanno, è estremamente desiderabile. Ma, per far ciò, è decisamente essenziale invocare l'imprenditorialità. Forse la causa principale della mia insoddisfazione nei confronti di gran parte dell'analisi contemporanea dei prezzi è dovuta proprio al fatto che ciò non sia stato compreso. L'infelice enfasi di Schumpeter sull'imprenditore che allontana l'economia dall'equilibrio contribuisce a favorire l'idea, alquanto errata, che in un certo qual modo l'imprendi-
    torialità non sia necessaria a comprendere il modo in
    cui il mercato tende verso la posizione di equilbrio (5).

    1 Vedi E A. HAYEK, Economica and Knowledge, in Individuali-sm and Economie Order, Routledge and Kegan Paul, London, 1949, p. 46 [trad. it., Economia e conoscenza, in F. A. VON HAYEK, Conoscenza, mercato, pianificazione, II Mulino, Bologna, 1988, pp.241-242]; J. M. KlRZNER, Methodologicallndividualism, cit., p.795.
    2 J. A. SCHUMPETER, The Theory of Economie Development, Harvard University Press, Cambridge 1934, p. 64 [trad. it., Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze, 1971, p. 74],
    3 Per la tesi secondo cui lo stesso Schumpeter è stato vittima della sua visione sbagliata, si veda E A. HAYEK, The Use ofKnowled-ge in Society, «American Economie Review», voi. 35, settembre 1945, pp. 529-30, ristampato in Individualism and Economie Order, cit., pp.90-91 [trad. it, Luso della conoscenza nella società, in E A. von Hayek, Conoscenza, mercato e pianificazione, cit., pp. 290-2]
    4 Vedi M. N. ROTHBARD, Man, Economy and State, Van No-strand, Princeton 1962, voi 2, pp. 493-94.
    5 Per un'ulteriore analisi dei punti sollevati in questo paragrafo, vedi I.M. KlRZNER, Entrepreneurship and thè Market Approach to Development, in Toward Liberty, Institute for Rumane Studies, MenloPark, 1971.

 

 
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