Posto un' intervista di Serge Latouche, l'economista francese ideatore della teoria della decrescita.
RASSEGNA STAMPA
12 FEBBRAIO 2000
VINCENZO R. SPAGNOLO
Sviluppo sostenibile? Un inganno
Parla l'economista Serge Latouche, secondo cui il mito del progresso ci porterà al collasso ambientale
"Il concetto stesso di "sopportabilità" è una pura mistificazione, visto che questo sistema di mercato ha sempre imposto di sfruttare le risorse naturali e umane per trarne il massimo profitto: neanche la morale e la cultura servono da freno" "Il boicottaggio ha prospettive limitate: bisogna progettare un modello alternativo. Prendiamo esempio dall'Africa, che non è sinonimo del nulla"
"Lo sviluppo sostenibile? Una chimera. Siamo tutti a bordo di quella che lo studioso Bernard Hours ha chiamato "un'ambulanza mondiale", con le Ong e i vari movimenti umanitari in veste di soccorritori al capezzale dei Paesi poveri. E tutti insieme, infermieri e pazienti, corriamo dritti verso il precipizio, ossia la totale consumazione delle risorse naturali.
Ci salveremo solo se sapremo scendere in tempo, abbandonando per sempre la macchina dello sviluppo". L'economista Serge Latouche è sempre stato considerato un intellettuale "scomodo", fuori dai ranghi, e anche in questo inizio di secolo non rinuncia a fare da lucida Cassandra dei mali del pianeta. Docente di storia del pensiero economico all'università di Paris XI, con una serie di pamphlet documentati con severo rigore scientifico (dal saggio del 1986 Faut-il refuser le développement?, tradotto in Italia col titolo I profeti sconfessati, a L'occidentalizzazione del mondo e La megamacchina e Il pianeta dei naufraghi) ha denunciato per anni i gravi squilibri del modello di sviluppo occidentale, divenendo suo malgrado una specie di "guru" dell'economia alternativa. Oggi lo studioso francese non si ferma all'analisi degli errori del progresso ma indica nuove strade per una radicale inversione di rotta del rapporto dell'uomo con l'economia e l'ambiente. Dunque, professor Latouche, lei sostiene che persino l'idea stessa di sviluppo è in crisi.
"Senza dubbio. La crisi della teoria economica dello sviluppo, iniziata negli anni Ottanta, si è ormai aggravata. Con la caduta del muro di Berlino, aziende e mercati avevano annunciato ufficialmente che il pianeta si era unificato. Poi, l'avvento della globalizzazione ha mandato in frantumi il quadro statale delle regolamentazioni, permettendo alle disuguaglianze di svilupparsi senza limiti e segnando la comparsa del cosiddetto "trickle down effect", ossia la distribuzione della crescita economica al Nord e delle sue briciole al Sud. Dal 1950, la ricchezza del pianeta è aumentata sei volte, eppure il reddito medio degli abitanti di oltre 100 Paesi del mondo è in piena regressione e così la loro speranza di vita. Si sono allargati a dismisura gli abissi di sperequazione: le tre persone più ricche del mondo possiedono una fortuna superiore alla somma del prodotto interno lordo dei 48 Paesi più poveri del globo.
In simili condizioni, lei comprende che non è più di attualità lo sviluppo, ma solo piccoli aggiustamenti strutturali. Che passano sotto il nome di "sostenibilità" e sono invece una spaventosa mistificazione". Perché, professore?
"Perché tutte le varie espressioni "sviluppo sostenibile", "vivibile" o "sopportabile" sono solenni imposture: negli ultimi due secoli, lo sviluppo è sempre stato contrario all'idea di sostenibilità, poiché ha cinicamente imposto di sfruttare risorse naturali e umane per trarne il massimo profitto. Oggi il vecchio concetto è stato rivestito con una patina d'ecologia, che tranquillizza l'Occidente e nasconde la lenta agonia del pianeta. Lo sviluppo cambia pelle, insomma, ma resta se stesso. In Africa, in nome dello sviluppo, i fedeli musulmani della località di Kulkinka, nel Burkina Faso, hanno deciso che alleveranno maiali. Niente è proibito, se porta lo sviluppo. E non serve da freno la morale, né la cultura. Il "pensiero unico" del mercato annulla perfino le identità nazionali: desideriamo gli stessi beni e quindi siamo tutti uguali. Senza contare i danni che il progresso tecnologico causa all'intero pianeta.
La concorrenza e il libero mercato hanno effetti disastrosi sull'ambiente: niente limita più il saccheggio delle risorse naturali, la cui gratuità spesso permette di abbassare i costi". Un quadro davvero sconfortante, professor Latouche. Non teme le accuse di catastrofismo?
"No, perché quello che dico è sotto gli occhi di tutti: la concorrenza esacerbata spinge i Paesi del Nord a manipolare la natura con le nuove tecnologie e quelli del Sud ad esaurire le risorse non rinnovabili. In agricoltura, l'uso intensivo di pesticidi e irrigazione sistematica e il ricorso a organismi geneticamente modificati hanno avuto come conseguenze la desertificazione, la diffusione di parassiti, il rischio di epidemie catastrofiche. Il collasso del pianeta si avvicina, insomma, ma invece di lavorare a un'alternativa che eviti la fine delle risorse naturali, si continua a ragionare su correttivi più o meno efficaci, sulla "sostenibilità" appunto. Ma così si confonde il morbo con la cura"". Qual è la cura, allora, a suo parere?
"C'è un vecchio proverbio che suona più o meno così: "se hai un martello conficcato in testa, tutti i tuoi problemi avranno la forma di chiodi". Dobbiamo levarci dalla testa il martello dell'economia, decolonizzare il nostro immaginario dai miti del progresso, della scienza e della tecnica. Far tramontare l'onnipotenza dell'"assolutismo razionale" che crede di poter assoggettare ogni cosa al suo volere e sostituirlo col "ragionevole", che si adegua alle mutate condizioni della natura. Questo è il primo sforzo a livello concettuale.
Concretamente, poi, bisogna proseguire nell'opera di contrasto della "megamacchina" dello sviluppo". E come? Con lo strumento del boicottaggio?
"Ho poche speranze sul successo finale delle pratiche di boicottaggio delle multinazionali.
Anche se hanno dato frutti di recente, come nei casi della Shell in Germania e della Del Monte in Kenya, non hanno verdi prospettive: i grandi gruppi economici stanno infatti reagendo rapidamente, formando cartelli in settori vitali come quello farmaceutico, agro-alimentare o delle comunicazioni per impedire ai consumatori qualsiasi alternativa. Io stesso, nelle scorse settimane, volevo boicottare il gruppo Total-Fina, proprietario della petroliera Erika che ha causato il disastro delle maree nere sulle spiagge della Bretagna, e mi sono ritrovato impotente in autostrada a dover fare benzina ai loro distributori, perché erano gli unici nel raggio di migliaia di chilometri. Insomma è giusto far diventare, come scrive l'economista italiano Antonio Perna, un "bisogno" la scelta etica del consumatore, ma non basta. È necessario, aggiungo io, affiancare alla guerra di trincea il concetto di "nicchia", un luogo cioè dove progettare una seria alternativa da estendere poi a grandi settori della società. Io studio da anni certe economie cosiddette "informali", che sono in realtà veri e propri laboratori del dopo-sviluppo". Si riferisce al tipo di società basata sulle relazioni interpersonali descritta nel suo libro L'altra Africa?
"Esattamente. Anche se, di fronte alla evidenza dei successi di certi "imprenditori a piedi scalzi", gli occidentali continuano scioccamente a pensare a quella africana come a un'accozzaglia di "straccioni" che sopravvive in attesa di accedere alla terra promessa della modernità, dell'economia ufficiale e del vero sviluppo. In realtà le migliaia di piccole imprese e il colorato insieme di mestieri (dalle intrecciatrici di strada ai bana-bana, commercianti ambulanti che vendono alle donne senza frigorifero olio "sfuso" o sacchetti di latte in polvere) non possono essere etichettati semplicemente come "naufraghi dello sviluppo". Essi sopravvivono perché hanno prodotto un tipo di società basata non sui rapporti economici ma sul valore delle relazioni sociali e sulla logica del dono. Intendiamoci, parlo di una società non assolutamente affrancata dal mercato ma che, comunque, non obbedisce supinamente alla logica mercantile. In questo tipo di società, che io chiamo vernacolare, ciascuno investe molto nei legami interpersonali, dà in prestito denaro, beni materiali e perfino tempo o lavoro. Lo fa senza pensare a un tornaconto immediato, perché reputa importante crearsi un gran numero di "cassetti", per usare un espressione della periferia di Dakar, cioè di persone debitrici a cui attingere in caso di bisogno. Un po' come le esperienze che noi occidentali stiamo riscoprendo e che vanno sotto il nome di "banca del tempo" o "local exchange trade systems" (sistemi di scambio locale)". Ci sono segnali di speranza quindi?
"Oltre alla presenza di nuovi modelli di società, mi conforta che le coscienze di alcuni Paesi si stiano lentamente risvegliando. Lo mostrano ad esempio i recenti fatti di Seattle. Il gigantesco baraccone del "Millennium Round" messo su dalla World Trade Organization non è crollato solo per le forti proteste di piazza delle organizzazioni non governative. È fallito, ed è ciò che più conta, anche per il dissenso dall'interno dei rappresentanti di molti Paesi in via di sviluppo, alzatisi dai tavoli delle trattative perchè indignati dall'incredibile arroganza delle nazioni occidentali". Secondo molti commentatori, anche gli attacchi lanciati nei giorni scorsi dagli hackers ai grandi siti web commerciali come Amazon o Yahoo! potrebbero essere una forma di protesta contro la globalizzazione e i suoi nuovi strumenti, come Internet appunto. Qual è il suo giudizio su questo tipo di protesta?
"Credo che il pensiero unico del mercato sia da sempre onnivoro e tenda a occupare ogni possibile spazio. Ha fatto così anche con Internet, nata per le comunicazioni in ambito militare e fra gli studiosi e ora, per una di quelle finte della storia di cui parlava Hegel, trasformatasi nel più potente veicolo delle merci sul pianeta. Però i fatti di questi giorni dimostrano come la Rete sia ancora un luogo con ampi spazi di libertà. D'altronde, neanche le proteste di Seattle sarebbero state possibili senza il coordinamento fra associazioni e Ong di tutto il mondo, iniziato anni fa proprio su Internet". inizio pagina vedi anche
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