Monica: "Ecco le bugie di Bill"

La Lewinsky accusa Clinton: "Non ha mai detto la verità. Anche Hillary aveva un amante"
CORRISPONDENTE DA NEW YORK
«Bill non ha mai detto la verità sulla nostra relazione». Monica Lewinsky torna a farsi sentire sul Sexgate dalle pagine di «The Death of American Virtue» (La morte della virtù americana), il libro del giurista Ken Gormley in uscita a febbraio che contiene numerose rivelazioni sui Clinton: dai nomi di nuovi amanti, tanto di Bill quanto di Hillary, alle tensioni nell’intelligence sullo scandalo che portò quasi all’impeachment del 42° presidente degli Stati Uniti.

Gormley è un costituzionalista che insegna legge all’Università di Duquesne, in Pennsylvania, e appassiona gli studenti con la ricostruzione di battaglie legali - come il Watergate - che hanno fatto la storia nazionale. Adesso, nelle 769 pagine della sua ultima fatica, pubblicata da Random House, adopera la stessa metodologia per entrare nelle viscere del Sexgate attraverso i racconti dei protagonisti. Tre interviste con Monica, la stagista del sesso orale nello studio privato alla Casa Bianca, quattro con l’ex presidente Clinton che usava i sigari per stimolarla sessualmente e ben otto con l’allora procuratore Kenneth Starr, che fallì per poco l’obiettivo dell’impeachment, consentono al lettore di venire a conoscenza di dettagli ignoti su quanto avvenne due presidenze fa al 1600 di Pennsylvania Avenue.

Il merito è anzitutto di Monica Lewinsky, che interrompe un lungo silenzio parlando a ruota libera della relazione con Bill nel 1995 e lo accusa di aver sempre mentito, anche sotto giuramento, perché «non disse la verità sulla nostra relazione sentimentale». Ciò che Monica smonta è la ricostruzione secondo cui fra loro vi fu solo sesso orale che, secondo quanto sostenuto da Bill, Bibbia alla mano, non costituiva un «rapporto completo» e dunque non poteva essere paragonato al tradimento coniugale. «Il Gran Giurì pose a Bill Clinton domande molto dettagliate sui nostri rapporti e lui rispose senza dire la verità», afferma Monica, lasciando intendere che l’America ancora ignora i rapporti sessuali - e affettivi - che vi furono fra il Presidente e la stagista, che all’epoca aveva 22 anni.

Poi vi sono i capitoli sui nuovi amanti. Nel caso di Bill si tratta di Susan McDougal, una donna dell’Arkansas - lo Stato che aveva avuto Clinton come governatore - che venne interrogata a più riprese da Starr nell’ambito dello scandalo immobiliare del Whitewater - risalente agli Anni 80 - ma rifiutò di rispondere scegliendo di affrontare 18 mesi di carcere pur di custodire i segreti della relazione. Gromley ricostruisce minuziosamente quanto avvenne e conclude che «vi furono rapporti intimi fra i due», dando così ragione a posteriori all’ipotesi avanzata da Starr.

L’amante di Hillary invece è Webster Hubbell, suo ex partner nello studio legale Rose Law Firm dell’Arkansas. Starr prese in considerazione l’ipotesi di incriminare anche la First Lady, accusandola di nascondere la relazione sentimentale per non svelare una sovrapposizione di interessi pubblici e privati dei quali Bill si era giovato per ottenere finanziamenti elettorali grazie ai buoni uffici dello studio di Hubbell. Il team di investigatori che faceva capo a Starr valutò l’ipotesi di chiamare in causa Hillary ma la decisione finale fu negativa perché, come ricorda l’ex assistente Paul Rosenzweig, «la First Lady non era un personaggio di tipo mafioso, ispirava piuttosto grande simpatia e nessuna giuria, a Washington o in Arkansas, ci avrebbe dato ragione». Ciò che manca alla ricostruzione dei fatti è però la versione proprio di Hillary perché l’attuale Segretario di Stato è l’unica dei personaggi dello scandalo che ha rifiutato - a più riprese - di rispondere alle domande dell’autore, forse temendo le conseguenze politiche della riapertura di quel turbolento capitolo della storia famigliare.

C’è infine un terzo insieme di novità che emerge dalla ricostruzione di Gormley. Robert Ray, successore di Kenneth Starr, racconta che l’atto di incriminazione del Presidente per falsa testimonianza «era pronto» nel giorno in cui Clinton lasciava la Casa Bianca al successore George W. Bush e se non venne «premuto il grilletto» fu solo per gli accordi fra le parti siglati all’ultima ora. «Forse Bill Clinton non si è mai reso conto di quanto vicino fosse arrivato a un processo per spergiuro», afferma Ray. A complicare la posizione di Clinton fu anche la testimonianza di Lewis Merletti, capo del servizio segreto della Casa Bianca, secondo il quale l’Fbi era intervenuta per mettere a tacere lo scandalo e, in particolare, per negare che appartenesse a Clinton il dna trovato sul vestito macchiato di Monica Lewinsky. Quando l’Fbi intervenne, nel 1998, Merletti si rese conto che c’era qualcosa di poco chiaro e si trovò nei mesi seguenti stretto fra due fuochi: gli agenti federali che premevano per allontanare i sospetti dal presidente e gli investigatori di Starr che invece sapevano che lui avrebbe potuto «incastrare Clinton».

La ricostruzione di Gormley lascia in dubbio il lettore se assegnare a Bill Clinton o a Kenneth Starr la responsabilità di aver «ucciso la virtù americana» imputando a entrambi comportamenti estremi, testardi, miopi. Per descriverli adopera le parole degli stessi protagonisti, infuocate al punto da continuare lo scontro all’infinito. L’ex presidente parla infatti ancora oggi dell’inchiesta del Sexgate come di un «attacco fazioso portato contro di me per motivi personali» mentre l’ex procuratore conserva viva la rabbia dell’epoca imputando a Clinton la scelta di «mentire fino alla fine» quando invece «avrebbe più semplicemente potuto fermarsi, ammettere e lasciarsi tutto dietro le spalle».






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