Sentenza della Cassazione: «È ingiuria, non discriminazione»
«Sporco negro»: non è razzismo
I giudici annullano la condanna inflitta a un triestino che aveva aggredito alcune ragazze colombiane. Bobbio (An): il veleno dell’originalità a tutti i costi.
ROMA — Pestandola a sangue le dici «sporca negra»? Per la Cassazione non sei razzista. Le hai solo manifestato «generica antipatia». Con questa motivazione la Suprema Corte ha accolto ieri il ricorso di Davide P., un venticinquenne triestino, annullando con rinvio la condanna a 15 giorni di carcere per ingiuria con aggravante dei motivi di odio razziale che il giovane si era guadagnato quando, assieme ad alcuni amici, aveva aggredito alcune ragazze colombiane dicendo: «Sporche negre, cosa ci fanno queste negre qua?». Condannato in primo e secondo grado per rissa e lesioni volontarie aggravate, Davide ha respinto la terza accusa: quella del razzismo. E i giudici della Cassazione si sono interrogati sull’interpretazione dell’epiteto «sporche negre». Giungendo alla conclusione che non denota, di per sé, l’intento discriminatorio e razzista di chi la pronuncia. Potrebbe essere piuttosto una manifestazione di «generica antipatia, insofferenza o rifiuto» per chi appartiene a una razza diversa.
Richiamandosi alla convenzione di New York del 1966 i giudici spiegano che per esserci discriminazione occorre che ci sia «restrizione o preferenza basata sulla razza, che abbia lo scopo di distruggere o compromettere il godimento in condizioni di parità dei diritti e delle libertà fondamentali». Non si può infatti qualificare «come odio qualsiasi sentimento o manifestazione di generica antipatia, insofferenza o rifiuto solo perché riconducibili a motivazioni (per quanto censurabili esse possano essere ritenute) attinenti alla razza, all’etnia, o alla religione». In conclusione la condanna per ingiuria aggravata scatta solo «se si è in presenza di vero odio»: negli altri casi la frase «sporco negro» non ha niente di razzista, si tratta di un insulto come un altro. Di altro avviso erano stati i colleghi del Tribunale e della Corte d’appello di Trieste.
Convinti che «l’obiettivo era la specifica indicazione dell’etnia di appartenenza delle ragazze e la loro condizione di emigrate di colore che le privava del diritto di rimanere in Italia e la frase adoperata denota chiaramente che l’aggressione fu motivata da intolleranza e risentimento razziale». Quel ripetere due volte l’espressione «negre» evidenziava secondo i giudici d’appello «il reale pensiero degli aggressori, mosso da finalità razziale e di odio etnico». Adesso la palla torna a loro. E potranno condannare il giovane solo se, come ha scritto la Cassazione, riterranno quelle parole «potenzialmente idonee» a «suscitare in altri il riprovevole sentimento dell’odio o a dare luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori per ragioni di razza, etnia, nazionalità o religione». Non è la prima sentenza che suscita sorpresa o curiosità. Nel 2001 la Cassazione consigliò di mettere le «pattine» ai cani in casa perché lo scalpiccio era «disturbo».
Appena un anno prima aveva stabilito che i latrati per configurare una violazione della quiete pubblica dovevano essere un’abitudine. Negli anni ha deciso che il seno non si può palpare, ma sul di dietro è concessa una toccatina «isolata e repentina». Che il bacio sul collo è ingiuria, ma far piedino no. E ancora che è vietata la sberla ma è permesso il colpo di battipanni. Luigi Bobbio (An), relatore al Senato della riforma sull’ordinamento giudiziario che ha voluto sottoporre i magistrati al test di sanità mentale, gongola: «Questo succede perché nella giurisprudenza si è infiltrato un sottile veleno che è quello dell’originalità a tutti i costi. È chiaro che l’antidoto dovrebbe essere il sistema giudiziario. Invece oggi è a maglie troppo larghe e lascia filtrare dal suo interno queste perle». «Di fronte a ciò — conclude Bobbio — si tira sospiro di sollievo pensando che fortunatamente in Italia il precedente non è vincolante a meno che non sia pronunciato dalle sezioni unite».
Virginia Piccolillo
Corriere della sera