I grattacieli, prima, non cadevano
Maurizio Blondet

E' una vecchia storia: 13 febbraio 1975.
Quel giorno si sviluppò un incendio nella Torre nord del World Trade Center.
Il fuoco, divampato all'undicesimo piano, si estese per sei piani superiori.
E durò tre ore.
Violentissimo.
I sei piani furono carbonizzati.
Cinquanta persone evacuate, 28 pompieri leggermente feriti.
Il New York Times, nel dare la notizia (1) imbastì tutta una polemica sul
fatto che nelle Twin Towers mancavano gli "sprinklers", la rete di diffusori
d'acqua a pioggia installati sul soffitto e attivati da sensori che
"sentono" il fumo e il calore.
Tuttavia, allora la Torre non crollò su se stessa.
Lo avrebbe fatto solo l'11 settembre 2001, a causa dell'incendio
sviluppatosi dopo l'impatto con l'aereo guidato dai terroristi islamici.

Tale è la versione ufficiale: il metallo dei pilastri d'acciaio che
reggevano il supergrattacielo, ci è stato spiegato, si sono "rammolliti" per
l'intenso calore prodotto dal kerosene in fiamme. Accade, ci spiegano gli
ingegneri, quando la temperatura raggiunge gli 800 gradi.
Ottocento gradi?
Chi ha memoria, ricorderà l'enorme, tragica bolla di fuoco al momento
dell'impatto: quello era il kerosene che bruciava: all'esterno.
Per la gran parte, la vampata si è prodotta nell'aria, fuori dalle Twin
Towers.
E' penetrato abbastanza kerosene per mantenere un'altissima temperatura?
Chi ha la pazienza di rivedersi le riprese di quel giorno terribile (per
esempio "In Plane Site", un video in Italia distribuito da Nexuse a
disposizione presso la nostra libreria Ritorno al reale) noterà, se non lo
ricorda, l'orrenda nuvola di fumo nero che usciva dalla ferita prodotta
dall'impatto e dalle finestre spaccate.
Quel fumo così nero dice che l'incendio all'interno stava soffocando, già
pochi minuti dopo l'impatto, per mancanza d'aria.
Ciò significa che il fuoco era spento, o almeno che si stava spegnendo; e
che le sue lingue non erano così "calde" come la vampata rossa della
fiammata esterna.

Chi ha pazienza, si ritrovi le foto prese con i teleobiettivi e pubblicate
dai settimanali illustrati, da Time a Newsweek.
In una di esse, si vede persino una donna che occhieggia in giù,
terrorizzata, dall'apertura prodotta dal Boeing.
Una donna coi capelli rossi, in pantaloni scuri.
Viva, ancora viva (per quei momenti).
Dunque il calore che si presume fosse in grado di rendere "plastiche"
putrelle d'acciaio di 30 centimetri di spessore, aveva risparmiato la donna
dai capelli rossi.
E poi: nel 2001, tra l'impatto e il crollo passò un'oretta o giù di lì.
Nel 1975, un incendio durato tre ore non ebbe la capacità di provocare il
crollo dello stesso grattacielo.
Ah, i grattacieli d'antan!
Non se ne fanno più così robusti.

Lo stesso Empire State Building, storica elevazione di Manhattan, subì
indenne il suo disastro aereo.
Il 28 giugno 1945 un B-52, nientemeno che una "fortezza volante" con tre
piloti militari a bordo, lo colpì all'altezza del 78mo piano, alla velocità
di 300 miglia all'ora, sul lato che guarda verso la 34ma Strada.
Un enorme buco.
Uno dei motori imbucò dritto una colonna degli ascensori e precipitò,
innescando un incendio, che i giornali descrissero "furioso", nei
sotterranei.
Parti di motore e del carrello (colossale nei B-25) lacerarono il muro
esterno dell'Empire State Building dal 78mo in giù, finendo su un altro
edificio di 13 piani dall'altra parte della strada, e sviluppando un altro
incendio.
Ernie Sisto, leggendario fotoreporter del New York Times, salì fino a una
sporgenza all'ultimo piano del grattacielo e, mentre due colleghi lo
tenevano per le gambe, sporgendosi pericolosamente, scattò una foto che fece
epoca: la parete dell'Empire State Building ferita, e vista dall'alto.



Cosa sono diventati oggi i grattacieli?
Più infiammabili di un passaporto, come quello trovato intatto e uscito
dalla tasca di Satam Al Suqami, uno dei terroristi volanti dell'11
settembre, con la foto bene in vista del proprietario kamikaze (quale altra
prova desiderare?).
Il calore liquefa i grattacieli d'oggi più facilmente di un pezzo di
plastica, diciamo di una carta di credito.
Difatti Joseph Iskandar, cittadino americano di nascita libanese, ha
ricevuto dall'FBI le carte di credito che erano nel portafoglio di suo
figlio Waleed, uno dei passeggeri periti sul fatale Volo 11. L'FBI le ha
riconsegnate al padre un anno dopo.
Un po' tardi, ma c'erano tutte: quattro carte di plastica, compresa le tre
carte "frequent flyer" dell'American Airlines, Delta e United (2).
Persino gli aerei sono ormai più sicuri dei grattacieli.
Il 29 novembre scorso il pilota di un volo American Airlines 621, in rotta
verso Chicago, ha segnalato che dopo il decollo ha visto una "scia di fumo"
passargli davanti.
E secondo lui era un missile che l'aveva mancato.
L'FBI e l'Homeland Security hanno passato giorni a indagare, inutilmente.
Una mira migliore avrebbe assicurato un nuovo "attentato islamico": Bush ne
ha estremo bisogno.

Maurizio Blondet




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Note
1)"Trade Center hit by six floors fire", New York Times, 14 febbraio 1975.
Si veda anche, il 15 febbraio 2005 sullo stesso giornale, "Sprinklers urged
for Trade Center".
2)Greg Szymansky, "More miraculous 9-11 new evidence", The Arctic Beacon, 23
novembre 2005.