Balcani, la storia negata dei crimini italiani
_________________________________
Intervista a Costantino Di Sante che nella ricerca «Italiani senza onore» documenta tutti i «nostri» misfatti nella Jugoslavia occupata della Seconda guerra mondiale, e come i governi italiani insabbiarono tutto
TOMMASO DI FRANCESCO
Era ora. E' uscito in questi giorni un libro davvero unico, «Italiani senza onore, i crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951)» (Ombre Corte, pp. 270, euro 18), completo di ogni documentazione inedita sui crimini di guerra commessi dalle truppe italiane in Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale, ed esaustivo della vicenda «diplomatica» che portň i governi italiani a guerra non conclusa e nell'immediato dopoguerra a cancellare quei misfatti. Su questo abbiamo intervistato l'autore della ricerca, il giovane storico Costantino Di Sante.
Lei paragona i crimini delle truppe e dei fascisti italiani nella Jugoslavia occupata a quelli del nazismo...?
Sicuramente l'occupazione dei territori dell'ex Jugoslavia č stata portata avanti con efferata durezza e i crimini commessi furono tutti al di fuori delle leggi internazionali, con incendi di villaggi, deportazioni, torture, rappresaglie, esecuzioni sommarie, stupri e violenze indiscriminate sui civili. Noi ci comportammo come paese occupante che tra le altre cose, non solo occupava quei territori e tentava di sfruttarli economicamente e come spazio vitale, ma anche con l'intenzione in piů dell'annessione, in particolare della Dalmazia e della provincia di Lubiana. Insieme ad un tentativo di sbalcanizzazione che giŕ 20 anni di fascismo di frontiera con un feroce razzismo antislavo aveva creato le condizioni per una effettiva durezza nei comportamenti sulla popolazione civile. E in molti atti ci siamo comportanti in maniera molto dura e simile ai luoghi dove hanno operato le truppe tedesche. Parliamo di centinaia e centinai di villaggi incendiati, parliamo di migliaia e migliaia di civili uccisi, deportati, internati nei campi di concentramento italiani, sia quelli realizzati lě sul posto - uno dei piů famosi, Arbe in Dalmazia, oppure quelli nella nostra penisola. Persone cancellate giŕ nelle liste d'internamento: venivano chiamate ex jugoslavi o «italiani per annessione». Questo la dice lunga sul tentativo di annettere e di cancellare la memoria di queste popolazioni. Nella ricerca mi hanno molto colpito i «tribunali volanti» che si recavano sui posti dopo un processo, se cosě si puň chiamare, di pochi minuti, e si passava subito alla fucilazione. Quel che riassume la durezza di questa occupazione č ben rappresentato dalla «Circolare 3C» del generale Roatta del 1942 nella quale era previsto espressamente che il comportamento dei militari italiani doveva essere «testa per dente»: per un italiano ucciso tot jugoslavi da passare per le armi. Una logica d'occupazione per una guerra quasi coloniale, applicata in pieno in Africa. Ed č inoltre testimoniato dalla pratica diffusa di deportazioni e campi di concentramento per i civili. Primo fra tutti il campo di Arbe, in Dalmazia, la cui mortalitŕ nell'inverno 1942-1943 non ha nulla da invidiare ai lager nazisti.
Come č potuto accadere che anche per i crimini di guerra italiani nei Balcani l'«armadio» sia stato sepolto?
I fattori sono tre. Il primo, che io documento in modo ampio, č proprio il modo con il quale lo stato maggiore dell'esercito, il ministero degli esteri e il governo dal 1944 in poi riuscirono a realizzare contro-documentazioni nei confronti delle richieste jugoslave alla commissione per i crimini di guerra di Londra. Ci fu un'azione «diplomatica» di riscrittura e travisamenti su come erano andate le cose. Il tentativo, riuscito, di far apparire, di fronte anche all'opinione internazionale, gli italiani come «umanitari», l'occupazione jugoslava come «tentativo di pacificare una guerra giŕ in corso», gli occupanti quasi come vittime della guerra interetnica. i partigiani di Tito come «barbari».
Eppure, nonostante queste falsificazioni, anche quella reticente documentazione riconosceva che c'erano stati dei criminali di guerra italiani...
Infatti, anche se la commissione jugoslava ne indicava 750 (180 quella greca, 140 quella albanese) e invece la controdocumentazione ministeriale italiano dell'epoca ne riconosceva solo 40. Cosě, nonostante il dichiarato tentativo di dipingere gli italiani come «brava gente», differente anche quando compiva efferatezze, si riconoscevano colpe e responsabilitŕ ben precise. Ma c'č un altro fattore da considerare, quello degli alleati angloamericani che avevano vinto la guerra. Fino al 1947, cioč fino alla firma del trattato di pace, sono anche loro decisi a far sě che si svolgano i processi contro i criminali italiani. Poi tra il 1947-1948 c'č la questione internazionale del confine orientale che diventa «il confine» tra i due blocchi, con l'Italia ormai frontiera della nuova guerra fredda. Dall'altra c'č la pressione che si esercita sul governo di Tito, mentre ancora non sono sedati i focolai di guerra in Jugoslavia intorno al 1947, tanto č vero che si pensa ad intervento militare alleato, che non avverrŕ anche per l'appoggio dato dall'Urss a Tito. Ma nel `48 si rompono i rapporti tra Tito e Stalin e, nonostante Tito continuerŕ a chiedere piů di ogni altro paese occupato dagli italiani, la consegna dei criminali di guerra - fatto decisivo per la pacificazione interna jugoslava - non ci sarŕ nessuna consegna o riconoscimento dei crimini.
Perché non c'č mai stata una Norimberga italiana?
Uno dei motivi č che l'Italia si č trovata nella doppia condizione di paese sconfitto ma co-belligerante. Grazie all'azione dei partigiani in primo luogo ma anche del governo del sud e dei rapporti con gli alleati che riprendono dopo l'armistizio. Nonostante che, inizialmente, il trattato di pace che viene firmato preveda che l'Italia debba pagare non solo i danni di guerra ma anche dar corso ai processi con l'estradizione dei propri criminali, prevedendo quindi di fatto una Norimberga anche per l'Italia. Ma su questa esigenza ineludibile, prenderŕ il sopravvento la logica geopolitica di comodo di un'Italia primo baluardo verso la cortina di ferro. E poi, come processare l'Italia per i crimini italiani proprio mentre molti ex responsabili di crimini di guerra hanno trovato una nuova collocazione nell'Italia che si sta avviando verso la democrazia? Un altro effetto che peserŕ sarŕ l'amnistia interna, la mancata epurazione che farŕ sě che anche dal punto di vista internazionale diventerŕ difficile estradare criminali dall'Italia rispetto a quello che accadrŕ per altri paesi belligeranti durante il periodo dell'Asse, come Germania nazista e Giappone imperiale. Un altro elemento ancora, non secondario, č quello che l'Italia subito dopo la guerra diventa un paese crocevia di rifugiati e di ex criminali di guerra, in particolare ustascia e cetnici ma non solo, anche di criminali nazisti che trovano immediato rifugio per poi riuscire a raggiungere l'America latina in particolare. Un crocevia apertamento protetto, o quanto meno tollerato, se non proprio aiutato dagli alleati e dalle stesse autoritŕ italiane. Tanto č vero che Tito richiede non solo i criminali di guerra italiani ma anche i propri connazionali che in Italia hanno trovato rifugio. Per dire la complessitŕ, l'Italia sarŕ poi il paese che riceverŕ i rifugiati dall'est che durante la guerra fredda riparano in Italia. Questo fenomeno inizia allora. L'intelligence alleata capisce il suo ruolo decisivo - c'č il problema di quello che sta accadendo anche in Grecia con la guerra civile che continua nel dopoguerra, si teme che in Italia accada la stessa cosa. E ci sono state le elezioni amministrative nel `46 con al vittoria del Fronte popolare. Tutte condizioni che fanno sě che fino al 1947 sono gli alleati a decidere le sorti dell'Italia.
Nel tempo in cui vengono istituzionalizzate le falsificazioni sulla vicenda delle foibe, c'č spazio per una storia consapevole che denunci ogni rimozione?
Siamo circondati da programmi tv di storia, talk show ecc, ma c'č poca conoscenza storica. Oppure la consapevolezza non ha lasciato veri sedimenti. Tutto viene semplificato da slogan per la battaglia politica quotidiana. Per evitare una storia distorta č necessario - oltre che illuminare la zona d'ombra del confine orientale - offrire ricerche esaustive, fatte su fonti accertabili e documentabili. Perché la storia č complessitŕ e contestualizzazione.
__________________________________________________ ____________
Ecco alcuni passi in cui si descrivono le colpe e le violenze italiane in jugoslavija. Questo per ricordare che i barbari sono ovunque, in tutti i popoli. I barbari non devono essere dimenticati, specie perché i barbari sono vigliacchi quando sono italiani: dopo aver compiuto eccidi e stupri di massa nell'entroterra istriano (per chi volesse leggerle, posso riportare le testimonianze di diversi istriani a tal proposito), dopo aver fatto morire migliaia di slavi nei lager, gli italiani - questo popolo corrotto e vigliacco - scapparono come codardi, come CONIGLI.
Il caso del campo di concentramento di Arbe (in croato Rab), una delle
isole che costellano il lato orientale dell'Adriatico (oggi territorio
della Repubblica di Croazia), č uno degli esempi piů tragici dei
crimini italiani commessi nei territori occupati della Jugoslavia
durantela Seconda guerra mondiale.
Quei KZ di lŕ del mare
Dopo 55 anni una lapide ricorda i crimini fascisti nel campo di Arbe
Nel Lager di Mussolini sull'isola croata furono rinchiusi 15.000
internati. Il regime di detenzione era cosě duro che vi furono circa
1.500 morti. Una pagina di storia rimossa, all'insegna del mito
"Italiani brava gente".
Il problema della memoria dei crimini che gravano sul passato di una
Nazione implica la questione della scrittura della storia, ovvero di
ciň che del passato fa storia e fonda, in senso ampio, gli
orientamenti sociali e culturali del presente.
La storia ufficiale e le idee dominanti che circolano, soprattutto
attraverso i media, rispetto al passato di una Nazione ne strutturano
una immagine che tende ad essere omologante e ad eleggere un "oggetto
unico" di memoria che non corrisponde affatto alla somma algebrica
delle singole memorie in questione (i diversi soggetti coinvolti e le
tappe storiche che vi si riferiscono).
I discorsi ufficiali sul passato sono pertanto veritŕ parziali, spesso
tentativi di autoglorificazione in cui č possibile riconoscere le
idiosincrasie e le contraddizioni, i sintomi di veritŕ ben piů grandi
e inquietanti, rimossi da una memoria illusoriamente portata a
circoscrivere la barbarie nell'altro e ad evitarne l'integrazione
nella nostra soggettivitŕ storica.
La memoria di una Nazione si compone dunque di un "racconto"
costituito da parti "scelte" del passato: alcuni eventi vengono
esaltati, altri rimossi.
Queste "parti scelte" non sono pertanto frutto del caso, ma sono
strutturate e interpretate in modo tale da tracciare le grandi linee
di quella che possiamo chiamare una " singolaritŕ nazionale", la
delimitazione cioč dei confini di significato entro cui č possibile
inscrivere il giudizio sul passato e su quanto ad esso č legato.
In questa prospettiva, ad esempio, la specificitŕ del fascismo
italiano nella vicenda delle persecuzioni razziali durante la Seconda
guerra mondiale non č stata definita, nel dopoguerra e negli anni
successivi, sulla base della valutazione dei crimini commessi dagli
italiani, ma č stata costruita, al contrario, operando un confronto
con il fenomeno della deportazione e dei Lager nazisti. Eleggendo come
"oggetto unico" della memoria della persecuzione razziale il Lager
tedesco, questo confronto (insieme alla diffusione del mito degli
"italiani brava gente"), ha banalizzato e relativizzato i crimini
compiuti dall'Italia fascista ed ha costruito cosě una "singolaritŕ
nazionale" forgiata sul modello del "maleminore".
Se negli ultimi anni una parte della storiografia italiana sta
criticando e tentando di smontare questo modello del "male minore"
tramite, ad esempio, lo studio delle misure di internamento adottate
dal governo italiano prima dell'8 settembre del 1943, quindi nel
periodo precedente l'occupazione tedesca, prendono forma tuttavia
altri modelli di banalizzazione e tentativi nuovi di cancellazione dei
crimini italiani. Pensiamo a questo proposito al fenomeno recente di
diffusione del "mito delle foibe" operato da una parte del mondo
intellettuale e politico italiano: il giudizio sul passato non si
fonda qui sul confronto con un "male peggiore", ma č emesso
addirittura tacendo sulle proprie colpe e, di conseguenza, ignorando
l'ineludibile concatenazione storica degli eventi. Si assiste infatti
in Italia ad una attitudine generalizzata a parlare del "caso foibe"
(l'uccisione di italiani da parte dei partigiani di Tiro nel periodo a
cavallo della primavera del 1945), decontestualizzando questa vicenda
da quella piů generale dell'aggressione nazi-fascista della Jugoslavia
nella primavera del 1941 e dalle successive politiche di "pulizia
etnica" intraprese dal governo di Mussolini: l'internamento delle
popolazioni delle zone jugoslave annesse all'Italia in campi di
concentramento ed altre misure ad esso collegate come ad esempio il
saccheggio e l'incendio di villaggi e l'uccisione di ostaggi.
Intessuto attorno al silenzio di questi crimini, il "mito delle foibe"
rappresenta un vero e proprio tentativo di costruire un discorso
"restauratore" riguardo alla vicenda del dominio italiano sul
territorio jugoslavo occupato e all'atteggiamento fascista nei
confronti degli "allogeni", un discorso che, riconoscendo all'Italia
solo lo statuto assoluto di "vittima" e non quello, antecedente, di
"aggressore", mira a ristabilire una presunta integritŕ e una dignitŕ
storica impossibili da provare. Le polemiche suscitate dalla
costruzione del "caso foibe" - che si trova attualmente ad un crocevia
di giudizi storici, politici e giudiziari - rendono particolarmente
importante ristabilire l'intera veritŕ storica, precisare cioč quali
sono state le responsabilitŕ dell'Italia che pesano sul destino suběto
dalle popolazioni slovene e croate prima e durante l'occupazione della
Jugoslavia.
La sua vicenda č emblematica del modo in cui questi crimini siano
praticamente assenti dalla topografia della nostra memoria nazionale e
di come il silenzio in Italia contrasti con la memoria viva dei luoghi
e delle popolazioni coinvolte.
Il campo di Arbe fu aperto nel luglio del 1942 ed ospitň
complessivamente circa 15.000 internati tra sloveni, croati, anche
ebrei. In poco piů di un anno di funzionamento (il campo cessň di
esistere il 1 settembre del 1943), il regime di vita particolarmente
duro causň la morte di circa 1.500 internati.
La memoria delle vittime (in maggioranza slovene) di questo campo
italiano č custodita oggi da un grande cimitero memoriale sorto su una
parte del campo e sul luogo che, giŕ all'epoca, ne costituiva il
cimitero.La loro
presenza č perň ancora in grado di rievocare in modo autentico il
progetto inquietante che l'Italia fascista aveva riservato alle
popolazioni della Jugoslavia assoggettate al suo dominio.
Nel settembre di ogni anno, nell'anniversario della liberazione,
questo "luogo della memoria" ospita una sentita cerimonia a cui
partecipano rappresentanti delle Repubbliche slovena e croata e
nutriti gruppi di ex internati. A queste cerimonie né la societŕ
civile, né il governo italiano sono mai stati presenti. Il silenzio da
parte italiana č stato finalmente rotto il 12 settembre di quest'anno,
in occasione del 55' anniversario della liberazione del campo: la
Fondazione Internazionale "Ferramonti di Tarsia" ha partecipato alla
manifestazione con una propria delegazione, ed ha apposto all'ingresso
del cimitero una lapide il cui testo, scritto in italiano e in croato,
dichiara per la prima volta da parte italiana, sullo stesso luogo
teatro di questo crimine. le colpe dell'Italia. Il testo della lapide
recita:"In memoria di quanti, negli anni 1942-1943, qui finirono
internati soffrirono e morirono per mano dell'Italia fascista".
Il significato dell'iniziativa - che si inserisce nel quadro piů ampio
delle attivitŕ che la Fondazione Ferramonti ha dispiegato in questi
anni per promuovere la ricerca e il recupero della memoria
dell'internamento civile fascista - č stato precisato dal presidente
della Fondazione Carlo Spartaco Capogreco nel discorso che ha
accompagnato lo scoprimento della lapide.
L'intera cerimonia si č svolta in un clima carico di emozioni e di
ricordi ancora vivi, sottolineati dalla commozione con cui, come un
comune "giorno dei morti", gli ex internati e i familiari presenti
depositavano fiori e corone sulle tombe delle vittime. A ragione Milan
Osredkar, sloveno ed ex intrnato a Gonars, ha definito quello di Arbe
"il piů grande cimitero sloveno". La presenza italiana ha suscitato
grande soddisfazione tra le autoritŕ politiche e i rappresentanti
delle varie associazioni presenti alla manifestazione, segno, forse,
della speranza che il lungo silenzio italiano su questo passato
tristemente comune venga finalmente messo in discussione e che anche
questa veritŕ storica entri nel quadro del dibattito attuale sui
rapporti tra l'Italia e la Jugoslavia negli anni della Seconda guerra
mondiale.
Il 55' anniversario della liberazione del campo č stato anche
l'occasione per la presentazione di due pubblicazioni che il croato
Ivo Kovacic e l'ex internato, e giŕ ministro sloveno ai tempi di Tito,
Anton Vratusa hanno dedicato alla vicenda di Arbe. Questi volumi vanno
ad arricchire la giŕ fiorente bibliografia sulla storia di questo
campo di internamento dell'Italia fascista a cui la storiografia
italiana ha, finora, prestato poca attenzione. Ricordare la tragedia
del campo di Arbe e riconoscerne le responsabilitŕ italiane non č perň
solo un problema storiografico o di politica internazionale, ma anche
di sensibilitŕ civile. L'atto pioniere dell'apposizione della lapide
va interpretato in tal senso come un gesto dirompente per il
"risveglio" della coscienza nazionale atrofizzata, come una denuncia
della mancata elaborazione della memoria (collettiva e storica) degli
italiani di questo crimine dell'Italia fascista.
Teresa Grande