Di Claudio Rinaldi, nel numero in edicola dell'Espresso di questa settimana.

I furbetti del Botteghino


Se sponsorizzando Consorte i Ds miravano a rafforzarsi a scapito degli amici rivali della Margherita hanno sortito l'effetto opposto

Enrico Berlinguer, poveretto, deve aver passato gli ultimi mesi a rivoltarsi nella tomba. Non soltanto perché i Ds suoi eredi, miscelando con troppa disinvoltura politica e affari, parevano ignorare la questione morale a lui cara; soprattutto perché, tifando sbracatamente per un'operazione finanziaria dai contorni oscuri, rischiavano di arrecare un grave danno a se stessi, con un'ingenuità imperdonabile agli occhi di chi nel 1976 aveva compiuto il miracolo di portare il Pci al 34 per cento dei voti.

Di autogol se ne fanno tanti, nel calcio come nella vita. Capita. Ma quello che i Ds hanno messo a segno nell'estate-autunno del 2005, sostenendo con una foga spropositata l'assalto dell'Unipol alla Banca nazionale del lavoro, è destinato a rimanere negli annali. Niente e nessuno obbligava Piero Fassino & C. a schierarsi platealmente al fianco di Giovanni Consorte, lo spericolato presidente della compagnia controllata dalle Coop. Nel mercato, anzi, prevalevano gli scettici, giacché la Bnl appariva un boccone troppo grosso per un predatore famelico ma gracile. Il patatrac è arrivato quando si è scoperto che il manager presunto rosso era in cordata con Gianpiero Fiorani, autore del fallito attacco della Banca popolare italiana all'Antonveneta, arrestato il 13 dicembre per associazione a delinquere; e che grazie a lui si esercitava in speculazioni a scopo di arricchimento personale, non pago dello stipendio da un milione e mezzo di euro all'anno elargitogli dall'Unipol. L'elenco delle conseguenze negative, purtroppo, è facile da redigere.

Al primo posto figura il rozzo avallo che i Ds hanno dato ai cosiddetti immobiliaristi, per la prosaica ragione che quei parvenu dovevano vendere le loro azioni Bnl a Consorte. Fra di essi c'era anche Stefano Ricucci, partito alla conquista del 'Corriere della sera'. "Non c'è un'attività imprenditoriale che sia pregiudizialmente migliore o peggiore di un'altra", ha spiegato il segretario della Quercia al 'Sole 24 Ore'del 7 luglio, "né sul piano morale né su quello economico". E ha aggiunto: "È tanto nobile costruire automobili o essere concessionario di telefonia quanto operare nel settore finanziario o immobiliare... Qualsiasi imprenditore può aspirare a essere azionista di un grande giornale". Che imprudenza imparentarsi con il peggiore capitalismo d'avventura! In quello spirito il raider bresciano Chicco Gnutti, un socio dell'Unipol già condannato per insider trading, è stato difeso il 5 agosto da un Massimo D'Alema che faceva il finto tonto: "Che cos'ha Gnutti che non va?". E l'8 agosto Fassino ha sostenuto con 'La Stampa' che "la vicenda Bnl è molto diversa dalla scalata all'Antonveneta", mentre le inchieste giudiziarie hanno dimostrato che i protagonisti e i metodi erano sempre gli stessi.

Il secondo guaio è che appoggiando le iniziative di Consorte, e indirettamente quelle di Fiorani, i Ds si sono negati la possibilità di criticare con la giusta durezza l'uomo che ne era il grande regista, cioè il governatore della Banca d'Italia. Benché ormai screditato, infatti, Antonio Fazio è stato trattato con estremo garbo. Il 29 luglio Pierluigi Bersani ha minimizzato l'importanza del suo ruolo: vietato "avvitarsi sulla questione Fazio sì-Fazio no". Il 1 settembre D'Alema ha escluso ogni richiesta di dimissioni con un argomento di palese pretestuosità, "Rischiamo di trovarci Adriano Galliani governatore". Sei giorni dopo, quando cani e porci invitavano Fazio a un passo indietro, Bersani lo ha addirittura esortato a tenere duro: "Andarsene in queste condizioni sarebbe come cedere a una confusa canea". Così è stata sciupata l'occasione di rinfacciare a Silvio Berlusconi la sua ambiguità, la sua incapacità di risolvere il problema.

Nemmeno quando il bubbone Fiorani ha rivelato tutta la sua sostanza purulenta i Ds hanno potuto mettere sotto pressione il premier. Paralizzati dalla paura che anche Consorte finisse nei guai, hanno rinunciato a puntare il dito contro i personaggi della destra che alla Bpi erano di casa, a cominciare dal sottosegretario forzista Aldo Brancher. Non hanno nemmeno ricordato che Berlusconi, nella notte fra l'11 e il 12 luglio, sembrò al suo commensale Gnutti "commosso" per il sì di Fazio all'Opa di Fiorani sull'Antonveneta. Lo scandalo è stato seguito con un distacco del tutto fuor di luogo. Anche dopo l'arresto del banchiere lodigiano Bersani e Consorte hanno insistito, come se niente fosse, perché la Banca d'Italia si sbrigasse ad autorizzare l'Opa Unipol-Bnl.

Forse aveva i suoi motivi Fiorani, in quella notte di luglio, per dire a Gnutti che "la sinistra ci ha appoggiati più di quanto non abbia fatto il governatore". Chissà. Ammesso che sia andata così, è stato in omaggio a una vecchia teoria dalemiana: quella per cui anche la sinistra deve costruirsi, a qualsiasi prezzo, una presenza diretta nel sistema economico-finanziario. Ma è un'idea autolesionistica, oltre che di assai dubbia correttezza. L'affarismo non paga. Se sponsorizzando Consorte i furbetti del Botteghino miravano a rafforzarsi nel risorto Ulivo, a scapito degli amici e rivali della Margherita, hanno maldestramente sortito l'effetto opposto.


Sarebbe poi tutto da cercare, da leggere, e da postare, il dossier di Marco Travaglio e Barbacetto pubblicato da Micromega dello stesso titolo:
I furbetti del botteghino sugli affari inconfessabili dei diesse e sulla bicamerale degli affari.


Allora, ripeto, si devono dimettere o no Massimo D'Alema e Piero Fassino?