LE LEGGI CONTRO I N0N EBREI

di Israel Shahak

tratto dal quinto capitolo della
Storia ebraica e giudaismo.
Il peso di tre millenni
Centro Librario Sodalitium, Verrua Savoia, 1997

L'Halakhah, il sistema legale del giudaismo classico seguito
praticamente da tutti gli ebrei dal nono secolo alla fine del
diciottesimo ed oggi perpetuato nella stessa forma dell'ebraismo
ortodosso, si fonda soprattutto sul Talmùd.
L'inestricabile complessità delle dispute legali registrate in quei
testi imponeva d'inventare codifiche più accessibili alla legge
talmudica e intere generazioni di dotti rabbini si dedicarono a
questo compito. Alcune di queste compilazioni sono sommamente
autorevoli, vengono seguite nella pratica giuridica ed è per questo
che mi riferirò ad esse, ed ai più seri commentari che ne
costituiscono il corollario, piuttosto che direttamente al Talmùd.
Comunque, le compilazioni riproducono fedelmente il significato del
testo talmudico e le aggiunte successive che gli studiosi
elaborarono in base ad esso.
Il codice più antico della legge talmudica, di grande importanza
anche oggi, è la Mishnah Torah scritta da Moses Maimonide verso la
fine del XII secolo. Il codice più autorevole, di largo uso anche
oggi come manuale giuridico è lo Shulhan 'Arukh, composto da R.
Yosef Karo nel tardo XVI secolo come compendio divulgativo del suo
voluminoso Beyt Yosef destinato a studiosi di alto livello. Lo
Shulhan 'Arukh è stato spesso e variamente commentato: oltre ai
commentari classici del XVII secolo, ce n'è uno molto importante
scritto nel nostro secolo, il Mishnah Berurah, Infine, la Talmudic
Encyclopedia, compilazione moderna pubblicata in Israele a partire
dagli anni Cinquanta, a cura dei più autorevoli rabbini ortodossi, è
un buon compendio della letteratura talmudica.
Omicidio e genocidio
Secondo la religione ebraica, l'omicidio di un ebreo è un crimine
capitale e uno dei tre peccati più odiosi: gli altri due sono
l'idolatria e l'adulterio. Ai tribunali religiosi ebraici e alle
autorità secolari viene ordinato di punire chiunque uccide un ebreo
con pene molto più severe di quelle previste dalla ordinaria
amministrazigne della giustizia.
Un ebreo che, indirettamente, è causa della morte di un altro ebreo
è solo colpevole di quello che la legge talmudica definisce un
peccato contro "le leggi celesti", che deve essere punito da Dio
piuttosto che dagli uomini. Quando invece la vittima è un gentile,
la cosa è ben diversa. Se un ebreo uccide un gentile è solo
colpevole di un peccato contro "le leggi celesti" ma non è punibile
dal tribunale, dalla giustizia umana. Non è invece peccato causare
indirettamente la morte di un gentile.
Uno dei più importanti commentatori dello Shulhan 'Arukh spiega che
quando si tratta di un gentile "non si deve alzare la mano su di
lui", ma gli si può causare la morte indirettamente, per esempio,
portando via la scala se è caduto in un pozzo o in una fossa
profonda... e per questo non c'è nessun divieto, sempre che non si
tratti di un'azione diretta". Ma se provocare indirettamente la
morte di un gentile può causare lo scatenarsi dell'ostilità dei
gentili contro gli ebrei, allora è vietato.
Se un gentile commette un omicidio ed è sotto la giurisdizione
ebraica dev'essere giustiziato in ogni caso, indipendentemente dal
fatto che la vittima sia un ebreo oppure no. Comunque, se la vittima
è un gentile e l'omicida si converte al giudaismo, non è soggetto ad
alcuna punizione. Non è difficile capire il significato pratico che
hanno questi precetti nella realtà contemporanea dello Stato
d'Israele.
Sebbene il diritto penale del paese non faccia distinzione tra ebrei
e gentili, i rabbini ortodossi, che guidano le loro greggi sulla
falsariga dell'Halakhah, la teorizzano e, soprattutto, la
consigliano ai religiosi che sono nelle forze armate.
Visto che persine la minima interdizione a uccidere i gentili si
applica soltanto "ai gentili con i quali noi ebrei non siamo in
guerra", vari commentatori rabbinici del passato giunsero alla
logica conclusione che, in tempo di guerra, i gentili che
appartengono a un popolo ostile agli ebrei possano, e persine
debbano, essere sterminati.
Dal 1973, questa dottrina è insegnata pubblicamente nelle guide
spirituali dei soldati israeliani religiosi. La prima di queste
esortazioni la troviamo ufficializzata in un opuscolo pubblicato dal
comando della regione centrale dell'esercito di Israele, la cui
giurisdizione comprende tutto il West Bank.
"Quando le nostre forze - scrive il rabbino capo del Comando -
incontrano civili durante i combattimenti o in un raid o nel corso
di un rastrellamento, visto che non sappiamo con certezza se quei
civili sono veramente innocui e non intendono né possono arrecarci
danno, è permesso e persino doveroso ucciderli, come stabilisce
l'Halakhah che autorizza e che esorta a uccidere tutti i buoni
civili, cioè quei civili che danno l'impressione di essere buoni".

La stessa dottrina la troviamo nello scambio di lettere tra un
giovane soldato israeliano e il suo rabbino, pubblicato
sull'annuario delle più prestigiose istituzioni universitarie,
Midrashiyyat No'am, dove vengono educati i leader e gli attivisti
del partito religioso nazionale e del Gush Emunim.

Lettera del soldato Moshe al rabbino Shim'on Weìser
«Con l'aiuto di Dio e in Suo onore, caro rabbino, prima di tutto mi
permetta di chiederLe come stanno Lei e la Sua famiglia. Spero bene
e anch'io, grazie a Dio, sto bene. Mi perdoni se non scrivo da tanto
tempo. Talvolta penso a quel versetto dei Salmi (42: 2) "quando
verrò e comparirò al cospetto di Dio?" Spero, anche se non ne sono
sicuro, che verrò a trovarla durante una licenza. Devo proprio
farlo. Nel nostro gruppo, è in corso un dibattitto sulla "purezza
delle armi" e abbiamo discusso a lungo se è lecito uccidere gente
disarmata, o donne e bambini. Dobbiamo forse vendicarci sugli arabi?
Ciascuno di noi risponde a queste domande secondo il proprio modo
d'intendere il problema. Per quanto mi riguarda, non sono riuscito a
decidermi se dobbiamo trattare gli arabi come gli Amaleciti, cioè se
siamo autorizzati ad assassinarli (sic!) finché la loro memoria sia
cancellata sotto il ciclo, oppure se dobbiamo comportarci come in
ogni guerra giusta, in cui si uccidono solo i soldati.
Un secondo problema che mi assilla è se mi è permesso di rischiare
la vita per salvare quella di una donna. Infatti, ci sono stati casi
in cui le donne ci hanno tirato bombe a mano. Oppure, mi domando se
mi è permesso di dare dell'acqua a un arabo se questi alza la mano
in un gesto che può essere ingannevole, per uccidermi, come è
successo. Chiudo con un affettuoso saluto al Rabbino e alla Sua
famiglia».
Moshe

Risposta del rabbino Shim'on Weiser a Moshe
«Con l'aiuto del cielo, caro Moshe, ti saluto. Comincio questa
lettera di sera tardi anche se so che non potrò finirla entro oggi
perché ho altre cose da fare e, soprattutto, perché vorrei scriverti
a lungo per rispondere in forma completa alle tue domande. Per fare
ciò devo copiare alcune delle riflessioni e precetti dei nostri
saggi, di benedetta memoria, e interpretarli.
Le nazioni non ebraiche hanno, rispetto alla guerra, una tradizione
secondo cui la guerra ha le sue regole, come un gioco, regole come
le hanno il calcio o la pallacanestro. Invece, secondo gli
insegnamenti dei nostri saggi, di benedetta memoria, (...) per noi
la guerra non è un gioco ma una necessità vitale ed è quindi
soltanto su questa base che noi ebrei dobbiamo decidere come fare la
guerra. Da un lato (...), sappiamo che se un ebreo uccide un gentile
è considerato un assassino e, salvo il fatto che nessun tribunale ha
il diritto di punirlo, la gravità del suo gesto è identica a quella
di ogni altro assassinio. Però, in altri passi, troviamo che le
stesse autorità (...) confermano quello che diceva il rabbino
Shim'on: "è il migliore dei gentili. Ammazzatelo! È il migliore dei
serpenti. Schiacciategli la testa!" Si può obiettare che
l'espressione "ammazzatelo!", nel contesto degli insegnamenti del
rabbino Shim'on è metaforica e non dovrebbe esser presa alla
lettera. Potrebbe voler dire "opprimetelo!", o qualcosa di simile e,
presa in questo senso, si eviterebbe la contraddizione con le
autorità citate prima. Oppure, anche accettandola alla lettera, si
può obiettare che l'espressione "ammazzatelo!" era un'opinione
personale del rabbino contestata da altri saggi, doverosamente
citati. Comunque, la spiegazione di questo dilemma si trova nel
Tosafot da cui apprendiamo il commento alla formulazione talmudica
della risposta al quesito su come ci si deve comportare noi ebrei
nel caso che un gentile sia caduto nel pozzo. Non si deve aiutare,
ma neppure spingerlo giù finché muore, il che vuole dire che non
dev'essere salvato e neppure spinto alla morte direttamente.
"Se questa formulazione è oggetto di obiezioni" - è scritto nel
Tosafot - in un altro passo troviamo: "è il migliore dei gentili.
Ammazzatelo!", e allora la risposta in esso contenuta è quella
valida per lo stato di guerra...

Dunque, secondo i commentatori del Tosafot, occorre far distinzione
tra lo stato di pace e lo stato di guerra, per cui se durante il
primo è proibito uccidere i gentili, durante la guerra ucciderli
diventa un dovere religioso, mitzvah (...). Questa è la differenza
tra un ebreo e un gentile: sebbene il principio "chiunque venga per
ucciderti, uccidilo tu per primo" si applichi all'ebreo, come è
detto nel trattato Sanhedrin del Talmùd (pag. 72A) si applica anche
nel caso che si abbiano fondati motivi per ritenere che l'altro
verrà ad ucciderlo. In tempo di guerra, si presume che il nemico
voglia ucciderci, a meno che non sia assolutamente evidente che non
ha intenzioni malvagie. Questa è la regola della "purezza delle
armi" secondo la Halakhah che non ha nulla a che fare con la
concezione estranea oggi seguita dall'esercito israeliano e che è
stata la causa di tante perdite umane tra noi ebrei. Ti accludo un
ritaglio di giornale con il discorso pronunciato al Knesset, la
scorsa settimana, dal rabbino Kalman Kahana che dimostra con
precisione, e con dolore, quante perdire ha causato "la purezza
delle armi". Concludo sperando che questa mia lettera non ti sia
sembrata troppo lunga. L'argomento è al centro di tutte le
discussioni tra noi ma la tua lettera mi ha sollecitato ad
affrontarlo globalmente.
«La pace sia con te e con tutti gli ebrei. Spero di vederti presto,
come tu dici. Il tuo Shim'on» (6).

Risposta di Moshe a R. Shim'on Weiser
«In Suo onore, mio caro rabbino, prima di tutto, spero che Lei e la
Sua famiglia siano in buona salute. Ho ricevuto la Sua lunga lettera
e voglio esprimerLe la mia gratitudine per l'attenzione che ha per
me, tanto più preziosa perché so che Lei è in corrispondenza con
tanta gente, oltre ad essere sempre occupato dagli studi. Per questo
La ringrazio con tutto il cuore. Per quanto riguarda la Sua lettera,
ecco come io l'ho capita: in tempo di guerra, non soltanto sono
autorizzato ma addirittura tenuto ad uccidere gli arabi, uomini o
donne, che mi trovo davanti, se c'è ragione di temere che,
direttamente o indirettamente, partecipino alla guerra e, in
qualsiasi modo, contribuiscano alle azioni dei nostri nemici. Per
quanto mi riguarda, devo ucciderli anche se questo può comportare la
disobbedienza al codice militare. Ritengo che questa questione della
purézza delle armi debba essere affidata alle istituzioni
scolastiche, almeno a quelle religiose, che dovrebbero prendere una
posizione chiara sull'argomento, senza vagare nel vasto campo della
cosiddetta "logica": si dovrebbero spiegare anche i modi con cui
queste regole debbono essere messe in pratica.
Infatti, e mi dispiace di doverlo dire, ho visto seguire vari generi
di "logica" anche dai miei stessi commilitoni religiosi. Spero che
Lei s'impegni a far capire, in modo chiaro e senza ambiguità, a
tutti i nostri ragazzi la linea che seguivano i nostri antenati.
Concludo sperando che, quando avrò completato il corso di
addestramento, ossia il mese prossimo, potrò frequentare la Yeshiva,
il collegio talmudico. Cari saluti Moshe».

Naturalmente, questa dottrina dell'Halakhah sull'omicidio è in
conflitto, in linea di principio, non soltanto con il codice penale
israeliano, come del resto è accennato anche nelle lettere che
abbiamo citato, ma anche con le regole militari ufficialmente in
vigore. Comunque, questa dottrina influenza profondamente tutta
l'amministrazione della giustizia, specialmente quella gestita dalle
autorità militari. In tutti i casi in cui ebrei hanno assassinato
civili arabi, sia in un contesto militare che in situazioni
paramilitari, compresi stermini di massa come quello di Kafr Qasim
del 1956, gli assassini o se la sono cavata senza noie giudiziarie o
hanno ricevuto condanne mitissime e, subito dopo, assoluzioni
talmente ampie da ridurre le pene praticamente a zero.
Salvare la vita

II supremo valore della vita e l'obbligo che ha ogni essere umano di
fare tutto il possibile per salvare la vita di un altro essere umano
è, di per sé, una questione di somma importanza. Nel contesto
ebraico particolarmente, visto che, dopo la fine della Seconda
guerra mondiale, l'opinione ebraica ha condannato "tutto il resto
del mondo", o almeno tutta l'Europa, per essere stati a guardare
mentre gli ebrei venivano sterminati. Vediamo cosa ci dice VHalakhah
su questo argomento. Primario e irrinunciabile è, secondo VHalakhah,
il dovere di salvare la vita a un altro ebreo (8). Tale dovere è
superiore a tutti gli altri obblighi e a tutte le altre interdizioni
religiose, fatta eccezione per il divieto di commettere i peccati
più odiosi, l'idolatria, l'adulterio, compreso l'incesto, e
l'omicidio. Per quanto riguarda i gentili, il fondamentale principio
talmudico è che la loro vita non deve essere salvata, sebbene sia
proibito ucciderli direttamente. Lo stesso Talmùd esprime il
concetto con la massima: "non si devono spingere i gentili nel pozzo
né aiutarli ad uscirne" e quanto a Maimonide: «Per quanto riguarda i
gentili con i quali siamo in guerra... non si deve provocarne la
morte ma è vietato salvarli se vediamo che sono in pericolo di vita.
Se, per esempio, si vede che un gentile è caduto in mare, non si
deve far nulla per salvarlo perché è scritto: "non spargerai il
sangue del tuo amico" e i gentili non sono affatto nostri amici». In
particolare, un dottore ebreo non deve curare i gentili. Maimonide,
lui stesso famoso medico del suo tempo, si esprime in modo esplicito
su questo tema. In un altro passo, dopo aver ribadito la distinzione
tra "il tuo amico" e "il gentile", così conclude: "e imparerai da
questa distinzione che è vietato curare un gentile anche a
pagamento...". Comunque, se il rifiuto di un ebreo, specialmente di
un medico ebreo, di salvare la vita di un gentile, se risaputo,
rischia di scatenare l'ostilità dei potenti gentili, il che diventa
pericoloso per gli ebrei e se tale pericolo è reale, allora c'è
l'obbligo di evitarlo e quindi si devono aiutare i gentili. "Ma se
temete la sua ostilità - scrive Maimonide - curateli ma a pagamento,
visto che vi è vietato di farlo senza compenso". Ecco perché lo
stesso Maimonide era il medico personale del grande Saladino. La
richiesta del pagamento, volta forse a sottolineare che non si
trattava di carità umana ma di un dovere inevitabile per evitare
pericoli agli ebrei, non era poi così assoluta. Infatti, ancora in
un altro passo, lo stesso Maimonide consente che si curino quei
gentili, la cui ostilità è "davvero da temere", "anche gratis se ciò
fosse inevitabile". L'intera dottrina, il divieto di salvare la vita
dei gentili o di curarli e la sospensione del divieto nei casi in
cui siano prevedibili rappresaglie, è ripetuta alla lettera da altre
più importanti autorità, tra cui Arba'ah Turim, Beyet Yosefe
Shulhan 'Arukd. Citando Maimonide, Bayt Yosef aggiunge: "se serve
allo scopo, è lecito sperimentare medicamenti sugli infedeli",
precetto questo ripetuto anche dal famoso rabbino Moses Isserles.
Sul fatto che il termine "gentili" si riferisce a tutti i non ebrei,
concordano tutte le autorità dell'Halakhah. Unico dissenziente è il
rabbino Moses Rivkes, autore di un commentario minore allo
Shulhan 'Arukh: «I nostri saggi - scriveva - si riferivano soltanto
ai pagani che, ai loro tempi, adoravano gli idoli, non credevano
nell'esodo degli ebrei dall'Egitto né nella creazione del mondo ex
nihilo. Ma i gentili nella cui ombra (protettiva) noi, il popolo
d'Israele, siamo esiliati e tra i quali viviamo nella diaspora,
credono nella creazione del mondo ex nihilo, credono nell'esodo o in
tanti altri principi della nostra religione e pregano per il
creatore del cielo e della terra... Non solo non ci è vietato di
aiutarli ma abbiamo il dovere di pregare per la loro salvezza».
Questo passo, che data dalla seconda metà del XVIII secolo, è la
citazione preferita dagli studiosi apologeti. In realtà non si
allontana di molto dalla posizione canonica perché promuove la
rimozione del divieto di salvare la vita dei gentili piuttosto che
rendere il soccorso obbligatorio, com'è quando ad avere bisogno di
aiuto sono gli ebrei. Non si deve poi dimenticare che quella
liberalità viene estesa solo ai cristiani e ai musulmani e non alla
maggioranza degli esseri umani. Questo passo del rabbino Moses
Rivkes dimostra piuttosto che si sarebbe potuto liberalizzare
progressivamente l'implacabile dottrina dell'Halakhah. La stragrande
maggioranza dei successivi, autorevoli, commentatori dell'Halakhah,
invece di estendere ad altri gruppi umani le eccezioni proposte da
Moses Rivkes, ha sempre respinto qualsiasi modifica alla dottrina.

Dissacrazione dello Shabbat per salvare una vita
Dissacrare lo Shabbat, cioè fare un lavoro che è vietato di sabato,
diventa un dovere religioso quando si presenta la necessità di
salvare la vita di un ebreo. Nel Talmùd, non si fa cenno alla
questione di salvare la vita a un gentile durante lo Shabbat visto
che, in ogni caso, è vietato in tutti gli altri giorni della
settimana. Comunque, la questione riappare come fattore che complica
le cose in almeno due possibili situazioni. Ipotizziamo che un
gruppo di persone sia in pericolo e che sia possibile, anche se non
se ne ha la certezza, che tra loro ci sia almeno un ebreo. In tal
caso, è permesso dissacrare lo Shabbat per salvarli tutti? La
discussione su casi come questo è ampia e ricorre spesso sin dalle
autorità talmudiche più antiche. Mai-monide, come del resto, nello
stesso Talmùd, lo Shulhan 'Aruk, trattano la questione in base alla
legge delle probabilità. Per esempio, supponiamo che nove gentili e
un ebreo abitino nello stesso edificio e che, durante lo Shabbat,
l'edificio crolli. Uno dei dieci, non si sa chi, non era
nell'edificio al momento del crollo mentre gli altri nove sono
rimasti sepolti sotto le macerie. Gli ebrei hanno il dovere
religioso, dissacrando così lo Shabbat, di scavare anche se è
probabile che l'unico ebreo del gruppo non si trovi lì, visto che
uno dei dieci era assente al momento del crollo? Lo Shulhan 'Aruk
dice che si deve scavare, considerato che le probabilità che l'ebreo
si trovi sepolto sotto le macerie sono molto alte, nove a una.
Invece, supponiamo che nove dei dieci non fossero nell'edificio e
che quindi uno solo sia rimasto sotto le macerie, non si sa chi. In
tal caso, non è dovere scavare perché poche sono le probabilità,
nove a una, che la persona sepolta sotto le macerie sia l'ebreo.
Analogamente, "se si sa che una barca con solo ebrei a bordo si
trova in pericolo, è dovere assoluto per tutti dissacrare il Shabbat
e precipitarsi a soccorrerli". Comunque, l'autorevolissimo rabbino
Aquiva Eiger, morto nel 1837, dice nel suo commento che il dovere di
dissacrare lo Shabbat si applica "soltanto quando si sa di sicuro
che ci sono ebrei a bordo... ma se non si conosce l'identità dei
passeggeri non si deve dissacrare lo Shabbat perché, se tale
decisione è presa in base alla legge delle probabilità, nel mondo la
maggioranza è costituita da gentili" (B). In conclusione: visto che
le probabilità che tra i passeggeri ci siano degli ebrei sono poche,
lasciamo che anneghino tutti! Durante lo Shabbat, sono stati fissati
ulteriori limiti al principio secondo cui, se è per evitare il
pericolo di ostilità contro gli ebrei, è permesso curare o salvare
un gentile. Negli altri giorni della settimana, se a un ebreo si
chiede di aiutare un gentile questi può farlo liberamente in base al
solito principio che bisogna evitare rappresaglie ma, durante lo
Shabbat, c'è la scusa che si deve osservare la festività. Un caso
emblematico, ripetutamente discusso nel Talmùd, è quello di una
levatrice ebrea chiamata ad assistere una partoriente gentile. Come
al solito, durante gli altri giorni della settimana, alla levatrice
ebrea è permesso intervenire nel parto ma durante lo Shabbat no,
perché può sempre dire: "Noi ebrei siamo autorizzati a dissacrare lo
Shabbat solamente quando si tratta di aiutare la nostra gente che
osserva questo giorno come lo osserviamo noi ma per voi gentili, che
non lo rispettate, non ci è consentito fare eccezioni". Si tratta di
una spiegazione o di una scusa? Maimonide ritiene che si tratti di
una scusa anche se il compito della levatrice non implica la
dissacrazione dello Shabbat. La scusa funziona perché i gentili non
sanno esattamente quali sono i lavori proibiti agli ebrei durante lo
Shabbat. In ogni caso, il grande commentatore decretò: "Non si deve
aiutare a partorire una donna gentile durante lo Shabbat neppure a
pagamento e non dev'essere addotto a giustificazione il timore di
suscitare rappresaglie persine quando l'intervento implica la
dissacrazione dello Shabbat". Anche lo Shulah 'Arukh giunge alle
stesse conclusioni. In ogni caso, non si possono sempre evitare le
rappresaglie con questo genere di scuse e quindi alcune delle
massime autorità rabbiniche furono costrette ad addolcire in qualche
misura il divieto e permettere ai medici ebrei di curare i gentili
durante lo Shabbat anche se ciò voleva dire permettere che si
facessero azioni e lavori assolutamente proibiti. Un lassismo che
riguardava però i pazienti gentili, ricchi e potenti, che non
potevano essere ignorati così facilmente e che erano in grado di
rappresentare un serio pericolo per la comuntià ebraica. Il rabbino
Yo'el Sirkis, uno dei più autorevoli nella Polonia del XVIII secolo,
autore del Bayit Hadash, decretò che si dovessero curare, durante lo
Shabbat, i "sindaci, i nobili minori e l'aristocrazia" allo scopo di
evitare "qualche pericolo", per non antagonizzare le classi
dominanti che disponevano dei mezzi per scatenare rappresaglie
contro gli ebrei. Comunque, in tutti gli altri casi, specialmente se
è possibile imbrogliare il gentile con scuse evasive, il medico
ebreo commette "un peccato intollerabile" se consente a prestargli
le sue cure.
Più tardi, sempre nel XVIII secolo, nella città di Metz, che era
divisa in due da un ponte di legno, agli ebrei non era normalmente
permesso di attraversarlo durante lo Shabbat. A un certo punto, il
rabbino di Metz decretò che i medici ebrei potevano passare il
fiume "se erano stati chiamati dal governatore", visto che lo
facevano per i loro pazienti ebrei e che si presupponeva che il
governatore, di fronte a un rifiuto, avrebbe subito reagito con
qualche rappresaglia. Sotto un regime autoritario come quello di
Luigi XIV, era importante godere della benevolenza delle autorità.
Quanto alle reazioni dei comuni gentili, avevano ben poca importanza
per chi si manteneva prudentemente all'ombra del potere. Nel Hokhmat
Shlomoh, che è un commento del secolo scorso allo Shulhan 'Arukh, si
trova un'analoga, rigida inter-pretazione del concetto di "ostilità"
nei confronti dei Caraiti, una piccola setta eretica. Secondo il
Hokhmat Shlomoh, non si deve far nulla per salvare la vita ai
Caraiti, se questo comporta la dissacrazione dello Shabbat, perché
il concetto di "ostilità" si applica solo agli infedeli "che sono
più numerosi di noi e sotto la cui giurisdizione siamo costretti a
vivere..." ma i Caraiti sono pochi e noi non siamo nelle loro mani
per cui ad essi non si applica il concetto della
possibile "ostilità" contro di noi. Come vedremo, il divieto di
dissacrare lo Shabbat per salvare la vita a un Caraita è ancora oggi
in vigore.
Tutta la questione è oggetto di un'ampia discussione nei Responsa
del Rabbino Moshe Sofer, meglio conosciuto come "Hatam Sofer", il
famoso rabbino di Pressburg, l'odierna Bratislava, morto nel 1832.
Le sue conclusioni non hanno interesse solo da un punto di vista
storico visto che, nel 1966, uno dei suoi Responsa fu ufficialmente
adottato dall'allora rabbino capo d'Israele come "istituzione
fondamentale dell'Halakhah".
Il quesito sottoposto a Hatam Sofer riguardava la situazione
venutasi a creare in Turchia quando, durante la guerra, era stato
emanato un decreto che imponeva alle levatrici delle città e dei
villaggi di essere sempre disponibili ad assistere le partorienti.
Alcune erano ebree e, in quel caso, si poneva il problema: dovevano
prestare la loro opera a pagamento negli altri giorni della
settimana o durante lo Shabbat!
Nel suo responsum, Hatam Sofer, arriva a concludere, dopo un'attenta
ricerca, che i gentili in questione, ottomani, cristiani e
musulmani, non soltanto sono idolatri "che adorano altre divinità e
che quindi non devono esser spinti giù nel pozzo né aiutati ad
uscirne", ma che "sono simili agli Amaleciti", per cui ad essi si
applica il precetto che "è proibito moltiplicare il mese di Amalek".
In linea di principio, dunque, non si devono aiutare persine durante
tutti gli altri giorni della settimana, ma "in pratica" è permesso
di curare i gentili e di assisterne le partorienti, se loro hanno
propri medici e levatrici ai quali rivolgersi invece di dover
chiamare gli ebrei. Tuttavia, se i medici o le levatrici ebree
rifiutano, l'unico inconveniente sarà una perdita finanziaria, che
peraltro non è affatto desiderabile. Ciò vale sia per tutti gli
altri giorni della settimana che per lo Shabbat, purché ciò non
implichi la dissacrazione della festività. Hatam Sofer, come pure
altre autorità, fa la distinzione, nei casi che implicano la
dissacrazione dello Shabbat, tra due specie di lavoro proibito.
Prima di tutto, c'è il lavoro vietato dalla Torah, il testo biblico
interpretato dal Talmùd, che può essere svolto solo in casi
eccezionali, se esiste un estremo pericolo che si scatenino ostilità
contro gli ebrei. Poi ci sono generi di lavoro vietati dai saggi
talmudici, come estensione della legge originale della Torah. Di
solito, l'atteggiamento dei rabbini verso la trasgressione a questi
divieti è molto meno rigido. Un altro responsum di Hatam Sofer
riguarda il quesito se un medico ebreo è autorizzato ad andare col
carro a curare un gentile. Dopo aver ricordato che, in certe
condizioni, viaggiare in carro e carrozza durante lo Shabbat è solo
violazione del divieto imposto dai saggi piuttosto che dalla Torah,
Hatam Sofer ripropone le conclusioni di Maimonide secondo il quale,
durante lo Shabbat, non si deve aiutare a partorire le donne
gentili, anche se ciò non implica la dissacrazione della festività e
sostiene che lo stesso divieto si applica a tutta la professione
medica e non soltanto alle levatrici. Poi però manifesta il timore
che se ciò fosse messo in pratica "provocherebbe un'indesiderabile
ostilità" perché "i gentili non accetterebbero la scusa
dell'osservanza dello Shabbat e direbbero che, ai loro occhi, il
sangue di un idolatra ha poco valore". Inoltre, e questa forse è la
considerazione più importante, i medici gentili potrebbero
vendicarsi sui pazienti ebrei. Bisognava trovare scuse migliori e
così Hatam Sofer consiglia al medico ebreo chiamato al capezzale di
un gentile che abita fuori città di scusarsi dicendo che deve
occuparsi degli altri suoi pazienti. Può formulare così le sue
scuse: "Non mi posso muovere perché sarebbe rischioso per questo o
quel paziente che, in questo momento, ha bisogno di me ed io non
posso venir meno alle mie responsabilità". Con una scusa del genere
non c'è pericolo perché si tratta di un pretesto ragionevole, visto
che spesso il medico che ritarda a visitare un paziente trova la
scusa di essersi dovuto trattenere al capezzale di un altro. Durante
lo Shabbat, è permesso al medico ebreo di andare in carrozza a
curare un gentile solo se "è impossibile trovare una scusa
plausibile per non andarci". Come si vede, il problema di fondo di
tutte queste discussioni sono le scuse da inventarsi e non
l'attenzione alle necessità e cure del paziente o il pericolo di
vita che corre. Si da per scontato che, per evitare lo scatenarsi
dell'ostilità contro gli ebrei, è giusto ingannare i gentili, non
aiutarli a guarire o ad evitare la morte. Inutile dire che, nei
tempi moderni, la stragrande maggioranza dei medici ebrei non ha
nulla a che fare con la religione ed ignora tutte queste regole
rabbiniche, oltre al fatto che anche quei pochi medici che sono
religiosi preferiscono seguire il giuramento di Ippocrate piuttosto
che i precetti dei loro fanatici rabbini. Comunque, questi
esercitano una certa influenza su qualche medico e poi ce ne sono
tanti che, pur non seguendo i precetti rabbinici, non li denunciano
pubblicamente e rinunciano ad unirsi ad ogni protesta. Eppure questa
legge è ben lontana da essere lettera morta. La più recente presa di
posizione in materia, dal punto di vista deirfialakhah, la troviamo
nell'autorevole trattato pubblicato in inglese con il titolo Jewish
Medicai Law dalla prestigiosa fondazione israeliana Mossad Arav e
basato sui Responsa del rabbino Eli'ezer Yahuda Waldenberg,
presidente dell'Alta Corte rabbinica di Gerusalemme.
Ecco alcuni passi di questo trattato:

"...È proibito dissacrare lo Shabbat... per un Caraita". Un precetto
essenziale, assoluto che deve restare privo di motivazione.
L'ostilità della piccola setta non ha nessun peso per cui, durante
lo Shabbat, i Caraiti devono esser lasciati morire invece di
curarli. Per quanto riguarda i gentili, "secondo quanto stabilito
nel Talmùd e nei codici della legge ebraica, è vietato dissacrare lo
Shabbat, sia violando la legge biblica che quella rabbinica, per
salvare la vita a un paziente gentile in gravi condizioni. È altresì
vietato, durante lo Shabbat, aiutare le donne gentili a partorire".
Ed ecco la dispensa: "Comunque, oggi è permesso dissacrare lo
Shabbat per dare aiuto a un gentile compiendo tutte quelle funzioni
che sono vietate dalla legge rabbinica, visto che, in questo modo,
si previene lo scoppio di attriti e conflitti tra gli ebrei e i
gentili". Ovviamente, la dispensa copre solo una parte del problema
perché l'intervento medico comprende atti che, durante lo Shabbat,
sono vietati dalla stessa Torah e che quindi non possono essere
oggetto di dispensa. Ci dicono che "alcune autorità della Halakhah",
e proprio quelle che contano, hanno un'opinione opposta. Comunque
niente paura! Il Jewish Medicai Law propone una soluzione davvero
sensazionale, riferita a un ingegnoso comma della legge
talmudica. // divieto della Torah di compiere certi atti si applica,
presumibilmente, quando l'intenzione primaria che porta all'azione
ne resta il risultato. Per esempio, la macinatura del grano è
proibita solo se il suo scopo è di ottenere la farina. D'altro
canto, se il compimento di tale atto è marginale rispetto a qualche
altro scopo (melakhah seh'eynah tzrikhah legufah), allora l'atto è
di natura diversa: è sempre proibito, ma soltanto dai saggi
rabbinici piuttosto che dalla Torah.

«Per evitare trasgressioni alla legge, esiste un metodo legalmente
accettabile per assistere un paziente gentile anche se ciò implica
la violazione della legge biblica. Si suggerisce che quando il
medico si appresta a dare la sua assistenza al malato, non abbia
come intenzione primaria di curarlo ma la preoccupazione di
proteggere se stesso e gli altri ebrei dall'accusa di
discriminazione religiosa e dalle gravi rappresaglie che possono
ricadere su di lui e sugli ebrei in generale».
Se ha questa intenzione, il medico ebreo compie azioni "il cui
risultato non ha nulla a che fare con lo scopo primario... che,
durante lo Shabbat, viene ad essere proibito, ma solo dalla legge
rabbinica".
Crimini sessuali

Se una donna ebrea sposata ha rapporti sessuali con un uomo che non
è suo marito, siamo di fronte a un reato capitale di cui tutti e due
sono responsabili, oltre al fatto che l'adulterio è considerato come
uno dei più orribili peccati. Diversa è la condizione delle donne
gentili, visto che YHalakhah parte dalla premessa che tutti i
gentili sono promiscui. Ad essi si riferisce il famoso
versetto: "...ella molti-plicò le sue prostituzioni ricordandosi dei
giorni della sua giovinezza quando si era prostituita nel paese
d'Egitto e impazzì dalla passione per quei fornicatori dalla carne e
dai membri d'asino da cui lo sperma esce come esce dai cavalli"
(Ezechiele, 23: 20). Non fa differenza se una donna gentile è
sposata o no, visto che per gli ebrei il concetto stesso di
matrimonio non si applica ai gentili ("Tra gli infedeli, non può
esserci matrimonio..."). Pertanto, il concetto di adulterio non si
applica neppure ai rapporti sessuali di un ebreo con una donna
gentile e il Talmùd (Trattato Berakhot, pag. 78A) li assimila al
peccato di bestialità. Per le stesse ragioni, si ritiene che tra i
gentili, la paternità sia sempre incerta. Secondo la Talmudic
Encyclopedia (voce Eshet Ish, la donna sposata): «Colui che ha
rapporti carnali con la moglie di un gentile non è passibile della
pena di morte perché sta scritto "la moglie del tuo amico" o "del
tuo prossimo" (Esodo, 20: 17) invece de "la moglie dello straniero".
Anche il precetto "questa è ossa delle mie ossa e carne della mia
carne. Ella sarà chiamata donna (Ishah) perché è stata tratta
dall'uomo (ish).." (Genesi, 2: 23-24) che è rivolto ai gentili, in
realtà non riguarda gli ebrei perché, per gli infedeli, non esiste
il matrimonio e quindi sebbene i rapporti sessuali con una donna
gentile sposata siano proibiti ai gentili, gli ebrei sono esentati
da tale divieto. Ciò non vuoi dire che i rapporti sessuali tra gli
ebrei e le donne gentili siano permessi: è proprio vero il
contrario, ma chi viene punito è la donna gentile che dev'essere
giustiziata, anche se è stata violentata da un ebreo».

"Se un ebreo ha rapporti sessuali con una donna gentile, sia che si
tratti di una bambina di tre anni, o di una donna adulta, sia nubile
che sposata, e se lui, il maschio ebreo, è minorenne, ha nove anni e
un giorno, perche"ha consentito al coito con quella donna, lei
dev'essere uccisa, come si farebbe con una bestia, perché, per causa
sua, l'ebreo ha commesso la trasgressione".

In ogni caso, l'ebreo sarà frustato e se è un cohen, cioè un membro
della tribù dei sacerdoti, avrà il doppio delle frustate perché ha
commesso una duplice trasgressione: un cohen non deve avere rapporti
sessuali con una prostituta e tutte le donne gentili sono
considerate delle prostitute.


Status
Secondo Halakhah, gli ebrei non devono, sempre se è possibile senza
troppo pericolo, permettere che un gentile eserciti l'autorità su di
loro, anche se si tratta di "un'autorità che comanda dieci soldati
israeliani" e "il sovrainten-dente del sistema d'irrigazione". Tale
precetto si applica anche ai convcrtiti al giudaismo e ai loro
discendenti matrilineari per "dieci generazioni o per tutto il tempo
in cui è rintracciabile la discendenza". La testimonianza dei
gentili non è ammessa dai tribunali rabbinici perché si presume che
siano mentitori congeniti e, in questo senso, la loro posizione
giuridica è, almeno in teoria, analoga a quella delle donne ebree,
degli schiavi e dei minorenni, mentre in pratica è addirittura
peggiore. Infatti, se il tribunale rabbinico "la crede", la donna
ebrea è ammessa a testimoniare su certe realtà di fatto, ma i
gentili, mai. Quando il tribunale rabbinico deve accertare un fatto
a conoscenza solo di testimoni gentili, sorge il problema, come
succede quando si tratta dell'accertamento della vedovanza. Secondo
la legge ebraica, la donna sposata è considerata vedova, e quindi
libera di risposarsi, soltanto se la morte del marito è provata con
certezza da un testimone. Almeno uno, che lo ha visto morire o che
ne abbia identificato il cadavere. In ogni caso il tribunale
rabbinico accetta la semplice prova fornita dall'ebreo che dichiara
di aver sentito da testimoni gentili descrivere l'accaduto. Tutto
ciò a condizione che il tribunale accetti il principio della
casualità. I testimoni gentili parlavano della cosa casualmente
('goy mesiah lefi fummo") e non in risposta a una domanda diretta,
visto che, per gli ebrei, ogni risposta dei gentili ad ogni loro
domanda diretta è, per principio, una menzogna. Se è necessario,
l'ebreo, preferibilmente se si tratta di un rabbino, cercherà di
conversare con i testimoni gentili del fatto e, senza mai porre una
domanda diretta, di avere risposte del tutto "casuali".
Denaro e proprietà
Doni
II Talmùd proibisce di fare doni ai gentili. Comunque, le autorità
rabbiniche classiche mitigarono questo divieto, considerando il
fatto che, nel mondo degli affari, si è sempre praticato lo scambio
di doni. Fu quindi teorizzato che l'ebreo può fare un dono al
conoscente gentile, visto che non si tratta di un vero e proprio
dono ma di una specie d'investimento da cui ci si aspetta un
profitto. Rimane vietato far doni a "gentili sconosciuti". Regola
analoga riguarda il fare l'elemosina che è dovere religioso se il
mendicante è ebreo e, nel caso dei gentili, è permesso solo se è
fatto "per amore di pace". Dal canto loro, i rabbini non si stancano
di ammonire gli ebrei a non "abituare" i gentili all'elemosina,
sempre che sia possibile evitarlo senza correre il rischio di
suscitare indesiderabili ostilità.
Interessi
In questa materia, la discriminazione ai danni dei gentili è
diventata puramente teorica, a causa della dispensa, come abbiamo
visto nel terzo capitolo, per la riscossione degli interessi nei
prestiti fatti agli ebrei. Comunque, i prestiti a tasso zero ad
ebrei sono consigliati come un atto di carità mentre dal creditore
gentile è sempre obbligatorio pretendere gli interessi. A questo
proposito, molte, anche se non tutte le autorità rabbiniche,
cominciando da Maimonide, considerano un dovere praticare l'usura, e
nella forma più esosa possibile, ai danni dei gentili.
Proprietà smarrite
Se un ebreo trova qualcosa che con ogni probabilità appartiene a un
altro ebreo, è rigorosamente tenuto a fare ogni sforzo per
restituire quello che ha trovato, rendendo pubblica l'informazione.
All'opposto, il Talmùd e tutte le più antiche autorità rabbiniche
non soltanto autorizzano a tenersi qualsiasi cosa che sia stata
smarrita da un gentile, ma anzi proibiscono di restituirla.
Addirittura un secolo prima dell'era volgare, alcuni rabbini
definirono "barbarica" questa legge e prescrissero di restituire ai
gentili le proprietà smarrite ma, nonostante ciò, la legge non fu
mai abrogata.
In tempi recenti, quando in molti paesi fu resa obbligatoria per
legge la restituzione delle proprietà smarrite, i rabbini
insegnarono agli ebrei ad adeguarsi, ma solo come atto di obbedienza
civile verso lo Stato, non come dovere religioso, seguendo il metodo
di non fare alcun sforzo per rintracciare il proprietario, qualora
non sia probabile che si tratti di un ebreo.
Inganni negli affari
È peccato grave ricorrere a qualsiasi forma d'inganno a danno degli
ebrei. Nei confronti dei gentili, è proibito l'inganno diretto
mentre quello indiretto è permesso, sempre che non rappresenti un
pericolo per gli ebrei o che costituisca vilipendio della religione
ebraica.Uno dei sistemi classici è quello di sbagliare il calcolo
del prezzo. Se l'ebreo fa un errore a proprio svantaggio è dovere
religioso correggerlo, ma se lo fa un gentile, non bisogna dir nulla
e invece dichiarare che "ci si fida del suo calcolo" in modo da
evitare la sua reazione ostile se poi si accorge dell'errore.
Frode
E proibito frodare un ebreo comprando o vendendo mercé a prezzi
irragionevoli. Comunque, la frode nei confronti dei gentili non
viene neppure presa in considerazione, visto che è scritto: "Se
vendete qualcosa al vostro prossimo o se comprate, sempre dal vostro
prossimo, nessuno faccia torto al suo fratello" (Levitico, 25: 14);
ma un gentile che froda un ebreo deve indennizzarlo, ma non può
essere punito più severamente di quanto non lo sia un ebreo che
commette un reato simile.
Furto e rapina
È proibito rubare senza violenza "persine a un gentile", come
graziosamente concede lo Shulhan 'Aruk. La rapina a mano armata, o
con violenza, è rigorosamente vietata se la vittima è un ebreo.
Invece, la rapina con violenza e a mano armata, di un gentile da
parte di un ebreo non è vietata del tutto. Lo è soltanto in certe
circostanze come "quando i gentili non sono sotto il nostro
dominio", mentre è permessa "quando siamo noi ad esercitare il
potere". Le autorità rabbiniche differiscono tra loro sui dettagli
precisi che si riferiscono alle circostanze in cui un ebreo può
rapinare un gentile, ma l'oggetto del contendere non sono
considerazioni universali di giustizia e di umanità bensì il calcolo
tutto relativo di chi ha più potere, se gli ebrei oppure i gentili.
Questo spiega perché i rabbini che hanno protestato per la
spoliazione delle proprietà palestinesi nello Stato d'Israele sono
stati così pochi: la spoliazione era garantita e legittimata dallo
strapotere degli ebrei israeliani.
Gentili nella Terra d'Israele
Nella Halakhah, oltre alle leggi generali, ci sono leggi speciali
contro i gentili che vivono nella Terra d'Israele (Eretz Yìsra'ello)
o, in alcuni casi, per chi è lì di passaggio. Tali leggi hanno lo
scopo di ribadire l'assoluta supremazia ebraica su quel paese. La
definizione geografica precisa dell'espressione "Terra d'Israele" è
oggetto di dispute sia nel Talmùd e nella letteratura talmudica che,
in tempi moderni, tra le varie correnti del sionismo. Secondo i
massimalisti, la Terra d'Israele comprende, oltre alla Palestina,
non soltanto tutto il Sinai, la Giordania, la Siria e il Libano, ma
anche una parte considerevole della Turchia.
L'interpretazione "minimalista", fatta propria da Ben Gurion, fissa
il confine settentrionale "soltanto a metà strada tra la Siria e il
Libano, alla latitudine di Homs. Comunque, anche coloro che
escludono aree della Siria e del Libano concordano poi d'imporre ai
gentili che vi abitano certe leggi speciali, a carattere meno
oppressivo e discriminatorio di quelle in vigore nella Terra
d'Israele, perché quel territorio faceva parte del regno di David.
In tutte le inter-pretazioni talmudiche, anche Cipro dev'esser
considerata parte della Terra d'Israele. La continuità tra alcune
delle leggi speciali contro i gentili nella Terra d'Israele e la
pratica sionista contemporanea non deve essere passata sotto
silenzio, come fanno gli apologeti del sionismo. La Halakhah
proibisce agli ebrei di vendere a gentili beni immobili, case e
campi, che si trovano nella Terra d'Israele. In Siria, invece, è
permesso vendere le case, ma non i campi. Nella Terra d'Israele, è
permesso affittare le case ai gentili, a condizione che non vengano
usate come abitazione ma per altri scopi, per esempio come
magazzini, e che le case affittate ai gentili non siano due o tre
una in fila all'altra.

Eccone la spiegazione: "...per impedire che i gentili non si
accampino sul terreno adiacente, visto che se non possono possedere
la terra, il loro soggiorno dev'essere per forza temporaneo".
Comunque, anche la presenza temporanea dei gentili è tollerabile
solo "quando gli ebrei sono in esilio o quando i gentili sono più
potenti di loro", ma «quando gli ebrei sono più potenti dei gentili,
ci è proibito di tollerare tra noi gli idolatri. Non possiamo
permettere che un residente temporaneo o un venditore ambulante
transitino attraverso la nostra terra a meno che non accettino i
sette precetti di Noè, perché sta scritto: "essi non abiteranno
sulla tua terra" (Esodo, 23: 33), cioè neppure temporaneamente. Se
accetta i sette precetti di Noè diventa uno straniero residente (ger
toshav), ma è comunque proibito concedere lo stato di straniero
residente salvo quando si festeggia il giubileo, cioè quando c'è il
tempio e vi si celebrano i sacrifici. Quando il tempio non c'è e non
si possono tenere i giubilei è proibito accogliere chiunque, a meno
che non abbia ottenuto la conversione piena al giudaismo
(ger'tzedeq)» (29).
È chiaro, dunque, che è poi esattamente quello che dicono i leader e
i simpatizzanti del Gush Emunim, che i palestinesi debbono esser
trattati secondo VHalakhah, ossia nella prospettiva del potere
ebraico: se gli ebrei sono abbastanza forti è loro dovere religioso
cacciare i palestinesi. Queste leggi sono spesso citate dai rabbini
d'Israele e dai loro zelanti sostenitori. Per esempio, nel 1979, in
una grande assise rabbinica tenutasi per discutere gli accordi di
Camp David, la legge sulle "tre case in fila" fu rievocata come base
giuri-dico-religiosa e, in quell'occasione, fu solennemente
dichiarato che, secondo YHalakhah, anche la cosiddetta autonomia che
Begin era pronto ad offrire ai palestinesi era troppo liberale. Tali
dichiarazioni, che del resto riflettono correttamente e con la
massima coerenza VHalakhah, non suscitano quasi mai obiezioni da
parte della "sinistra" sionista.
Oltre alle leggi che abbiamo ricordato, destinate a tutti i gentili
della Terra d'Israele, le leggi speciali contro i cananiti e gli
altri popoli che vivevano in Palestina prima della conquista di
Giosuè, oltre a quelle contro gli Amaleciti, esercitano un'influenza
ancora più nefasta. In conclusione, tutte quelle nazioni devono
esser sterminate. Il Talmùd e la letteratura talmudica ripetono in
continuazione le esortazioni bibliche al genocidio, persine con più
odio e furore di quelle stesse leggi. Rabbini autorevoli, che hanno
un largo seguito tra gli ufficiali dell'esercito israeliano,
identificano i palestinesi, o magari tutti gli arabi, con quelle
antiche nazioni, per cui un precetto come quello del Deuteronomio
(20: 16) "non salverai nessuno, ad eccezione del tuo fratello'"
acquista un significato esortativo inconfondibile. Non era
infrequente che ai riservisti in pattugliamento nella striscia di
Gaza venisse propinata una serie di "conferenze educative" in cui si
sentivano dire che "I palestinesi di Gaza sono come gli Amaleci".
I versetti biblici con cui si esorta al genocidio dei Ma-dianiti
furono citati con la massima solennità da un importante rabbino
israeliano per giustificare il massacro di Qibbiya e quella
proclamazione ebbe grande risonanza tra militari. Innumerevoli sono
gli esempi di queste esortazioni rabbiniche al genocidio dei
palestinesi, tutte riferite alle leggi bibliche.
Abusi
Sotto questo titolo, presento alcuni esempi di legge &o\¥Halakhah
che non solo sono specifiche prescrizioni discriminatorie contro i
gentili, ma, soprattutto, hanno lo scopo d'inculcare odio e
disprezzo nei loro confronti. Per spiegare meglio questo aspetto,
non mi limiterò a citare le più autorevoli fonti dell'Halakhah ma
ricorrerò anche a opere meno fondamentali che comunque hanno larga
parte nell'educazione religiosa.
Cominciamo col testo delle preghiere più comuni. Proprio all'inizio
della preghiera del mattino, l'ebreo devoto ringrazia Dio per non
averlo fatto nascere gentile. Poi c'è l'espressione di gratitudine
per la benedizione "di non avermi fatto nascere schiavo" e, a questo
punto, l'ebreo maschio aggiunge "la benedizione di non avermi fatto
nasce donna" mentre la femmina ringrazia "per avermi fatta come è
piaciuto a Lui".
Alla fine della preghiera quotidiana, che si recita anche nella
parte più solenne del servizio religioso per l'Anno Nuovo e durante
il Yom Kippur, troviamo: "Lodate il Signore dell'universo... per non
avermi fatto come tutte le altre nazioni della terra... che
s'inginocchiano davanti alle vanità e al nulla e pregano divinità
che non le aiutano".
Fino a tempi molto recenti, nell'Europa orientale, era costume tra
tutti gli ebrei sputare per terra quando arrivavano a recitare
questa parte della preghiera. Quell'atto di disprezzo non era
considerato un dovere religioso irrevocabile però, tra gli ebrei più
devoti, è un'abitudine che è rimasta anche oggi.
L'ultima parte della preghiera ("...s'inginocchiano davanti alle
vanità e al nulla e pregano divinità che non le aiutano") è stata
censurata ma, nell'Europa orientale, veniva insegnata oralmente e
ora, in Israele, è riapparsa in numerosi libri di preghiere. Nella
parte centrale della preghiera da recitarsi durante i giorni della
settimana, quella detta "delle diciotto benedizioni", c'è una
maledizione speciale originariamente destinata ai cristiani, agli
ebrei convelliti al cristianesimo e ad altri eretici ebrei: "Possano
gli apostati perdere ogni speranza e tutti i cristiani morire sul
colpo!". Il termine ebraico è Meshummadim che, nell'uso rabbinico, è
riferito agli ebrei che diventano "idolatri", sia pagani che
cristiani, ma non agli ebrei che si convertono all'Isiam.
Questa formula di maledizione risale alla fine del primo secolo
quando il cristianesimo era ancora una piccola setta perseguitata. A
un certo punto, prima del XIV secolo, la formula venne
mitigata: "Possano gli apostati non avere più speranza e tutti gli
eretici morire sul colpo".
Dopo la costituzione dello Stato d'Israele, il processo si è
rovesciato e gran parte dei nuovi libri di preghiere sono ritornati
alla seconda formula, ora legittimata da un'alta percentuale di
insegnanti delle scuole religiose d'Israele. Dopo il 1967, numerose
congregazioni vicine al Gush Emunim hanno ripristinato la prima
versione, finora solo verbalmente e non a stampa, e pregano ogni
giorno "perché i cristiani muoiano tutti sul colpo". Questo accadeva
nel periodo in cui la Chiesa cattolica, sotto il pontificato di
Giovanni XXIII, tolse dalla liturgia del Venerdì santo la preghiera
in cui si chiedeva a Dio il perdono per ebrei ed eretici, preghiera
che i leader ebrei consideravano offensiva e squisitamente
antisemitica.
Indipendentemente dalle preghiere quotidiane codificate, i devoti
debbono, in varie occasioni, recitare brevi benedizioni, buone o
cattive, quando indossano un abito nuovo, assaggiano per la prima
volta nell'anno un frutto di stagione, vedono cadere un fulmine,
ricevono cattive notizie e così via. Alcune di queste preghiere
occasionali hanno lo scopo d'inculcare odio e disprezzo verso tutti
i gentili.
Si è già ricordato il precetto secondo cui gli ebrei devono maledire
le madri dei morti quando passano davanti a un cimitero dei gentili
e devono, invece, invocare la benedizione divina sui sepolti ebrei.
Precetti analoghi riguardano anche i vivi per cui, se vede tanti
ebrei tutti insieme, il devoto deve lodare Dio e, al contrario, di
fronte a una folla o a un folto gruppo di gentili, deve lanciare la
dovuta maledizione.
Neppure i beni immobili sono esentati da quei precetti. Il Talmùd
prescrive all'ebreo che passa davanti a una casa disabitata che non
appartiene ad ebrei di chiedere a Dio di distruggerla e se
l'edificio è già caduto in rovina, è suo dovere ringraziare il Dio
della Vendetta. Naturalmente, se si tratta di case degli ebrei, il
precetto è rovesciato: benedizione invece di maledizione.
Precetti come questi erano facilmente praticabili quando gli ebrei
coltivavano la terra e vivevano nei loro villaggi o in comunità
urbane con quartieri esclusivamente ebraici. Comunque, nelle
condizioni del giudaismo classico, il precetto riguardante le case
divenne di difficile applicazione e fu limitato alle chiese ed ai
luoghi di culto delle altre religioni, eccettuato l'Isiam. Oggi,
secondo numerose autorità rabbiniche, il precetto è applicabile
nella sua formulazione originaria nella Terra d'Israele.
Inoltre, il costume vi aggiunge vari "abbellimenti" come, per
esempio, l'abitudine di sputare, di solito tre volte, davanti alle
chiese e al crocifisso per ribadire, con quel gesto, la formula
obbligatoria di disgusto. Talvolta venivano recitati i versetti
biblici più offensivi (3I).
Esiste tutta una serie di precetti che proibiscono di servirsi di
espressioni di lode per i gentili e per le loro azioni, a meno che
ciò non serva ad aumentare il prestigio e la reputazione degli ebrei
e di tutto quello che fanno. Per esempio, lo scrittore A-gnon,
nell'intervista alla radio israeliana al ritorno da Stoccolma dove
gli era stato conferito il premio Nobel per la letteratura, fece le
lodi dell'Accademia svedese ma si affrettò ad aggiungere: "Non
dimentico che è proibito lodare i gentili, ma in questo caso le mie
lodi sono motivate da una situazione tutta speciale. .. ossia che il
premio Nobel è stato dato a un ebreo".
Allo stesso modo, è proibito agli ebrei* di partecipare a qualsiasi
manifestazione popolare di gioia dei gentili e se si è costretti a
farlo per evitare eventuali "ostilità", è permesso dimostrare
solo "il minimo possibile di contentezza".
Molti sono i precetti che hanno lo scopo d'impedire l'amicizia tra
ebrei e gentili. L'ebreo devoto non deve bere vino alla cui
preparazione abbiano partecipato, in qualsiasi forma, i gentili.
Anche se il vino è stato preparato esclusivamente da ebrei, se è
contenuto in una bottiglia su cui un gentile ha passato la mano, è
proibito berlo. I rabbini adducono a ragione di ciò il fatto che non
solo i gentili sono tutti idolatri ma si presume che siano anche
abilissimi mistificatori e che, con un sussurro, un gesto o col
pensiero, dedichino il vino al loro idolo, come "libagione", che
l'ebreo sta bevendo, o che si appresta a bere.
Questo precetto riguarda tutti i cristiani e, sia pure in una forma
più attenuata, i musulmani. Infatti, se un cristiano tocca una
bottiglia di vino preparata da ebrei, dev'esser subito buttata via,
ma se lo fa un musulmano, la bottiglia può essere venduta o
regalata, anche se agli ebrei è proibito berla. La legge si applica
anche ai gentili atei - come possiamo sapere se lo sono davvero o se
fanno finta, da abili mistificatori quali sono? - ma non agli ebrei
atei.
Le leggi che proibiscono di lavorare durante lo Shabbat valgono in
misura minore anche per le altre festività religiose. In
particolare, in un giorno sacro che non cade durante lo Shabbat, è
permessa qualsiasi attività che si riferisce alla preparazione del
cibo che verrà poi mangiato sia nei giorni festivi che in quelli
feriali. Legalmente, questo è chiamato "permesso per la preparazione
del cibo dello spirito" (Okhel nefesh) ma "lo spirito", "il cibo
dello spirito" è inteso soltanto come "ebreo" e ne sono esclusi,
esplicitamente e senza ambiguità, "i gentili e i cani".
Comunque, se si tratta di gentili potenti la cui ostilità può essere
pericolosa, allora c'è subito pronta la dispensa: è permesso,
durante le festività religiose ebraiche, cucinare per un visitatore
gentile, purché appartenga alle classi che hanno il potere
di "recarci danno" e purché non si faccia nulla per incoraggiarlo
direttamente a venire a mangiare.
Conseguenza importante di tutte queste leggi, a parte poi la loro
applicazione pratica, è l'atteggiamento creato dallo studio
sistematico di esse, in quanto parte dello studio deirHalakhah, è
considerato dal giudaismo classico supremo dovere religioso. Per
questo, l'ebreo ortodosso impara fin dalla prima giovinezza, nei
suoi studi religiosi, che i gentili sono messi sullo stesso piano
dei cani, che è peccato lodarli e riconoscerne i meriti, e così via.
Su questo punto, i libri di testo per i primi anni di scuola hanno
un'influenza ancora più deleteria del Talmùd e dei grandi commenti
talmudici. Il motivo è che, in questi testi elementari, ci sono
spiegazioni più dettagliate, fornite in un linguaggio comprensibile
a giovani che non hanno ancora una preparazione culturale.
Ho scelto come esempio uno dei libri di testo più popolari in
Israele, ristampato in una miriade di edizioni econo-miche, tutte
finanziate dal governo israeliano. È il Libro dell'educazione,
scritto da un rabbino spagnolo anonimo del XIV secolo. Vi si
spiegano i 613 obblighi religiosi (mitz-vof) del giudaismo
nell'ordine in cui si ritiene si trovino nel Pentateuco, secondo
l'interpretazione talmudica. Questo manuale ebraico deve la sua
continua popolarità e fortuna allo stile semplice e chiaro in cui è
scritto.
Lo scopo didattico primario di questo libro è quello di sottolineare
il "corretto" significato che, nella Bibbia, viene dato a termini
come "vicino", "amico", "fratello", "prossimo" o "uomo", come
abbiamo visto nei capitoli precedenti. Il paragrafo 219 è dedicato
all'obbligo religioso derivante dal versetto "amerai il tuo prossimo
conte te stesso" ed è intitolato "II dovere religioso di amare gli
ebrei".
«Amare fortemente ciascun ebreo - spiega il rabbino spagnolo del XIV
secolo - vuoi dire che dobbiamo preoccuparci per qualunque altro
ebreo e per il suo denaro allo stesso modo in cui ci preoccupiamo
per noi stessi e per il nostro denaro perché sta scritto: "amerai il
tuo prossimo come te stesso" e, come dicevano i nostri saggi di
venerata memoria, "non fare al tuo amico quello che odieresti se
fosse fatto a te". Molti altri obblighi religiosi derivano da questo
perché chi ama il suo amico come se stesso non lo deruba del suo
denaro, non commette adulterio con la moglie di lui, non si serve
della frode nei suoi confronti, non lo inganna con astuta
persuasione né gli reca danno in qualsiasi altra maniera. Come ogni
persona ragionevole riconosce che da questo precetto dipendono tanti
altri obblighi religiosi».
Al paragrafo 322 viene data spiegazione del dovere di mantenere lo
schiavo gentile in perpetua schiavitù, mentre lo schiavo ebreo
dev'esser liberato dopo sette anni: «Alla radice di questo obbligo
religioso c'è il fatto che il popolo ebraico è il meglio di tutta la
speda umana, creato per conoscere e venerare il creatore e quindi
degno di avere schiavi al suo servizio. E se non sono disponibili
schiavi provenienti da altri popoli, allora gli ebrei saranno
costretti a ridurre in schiavitù i propri fratelli che, in tal modo,
non potranno più servire il Signore, benedetto sia il Suo nome. Ci è
stato ordinato di avere schiavi al nostro servizio che devono esser
preparati in modo che ogni traccia d'idolatria sia cancellata dalla
loro lingua, fino a che, dunque, non rappresenteranno più un
pericolo nelle nostre case. Tale è l'intenzione del Levitico
(25:46): "... vi servirete di loro come di schiavi, in perpetuo, ma
quanto ai vostri fratelli, i figli d'Israele, nessuno di voi
dominerà l'altro con asprezza, in modo che non dovrete ridurre in
schiavitù i vostri fratelli che sono pronti a venerare Dio"» (33).
Al paragrafo 545, che riguarda l'obbligo di esigere un interesse dai
prestiti fatti ai gentili, la legge è così formulata:
"Ci è stato comandato di esigere gli interessi dai gentili tutte le
volte che prestiamo loro del denaro e di non far mai loro prestiti
senza interesse".
«AIla radice di quesf obbligo religioso - scrive il rabbino spagnolo
anonimo - c'è che non dobbiamo aver compassione per nessuno
alVinfuori che per il popolo che conosce e venera Dio. Quando ci
tratteniamo dall'usare pietà per il resto del genere umano e la
diamo tutta al popolo ebraico ciò è dovuto al fatto che questo
popolo è l'unico che segue la religione di Dio, benedetto sia il Suo
nome. Con questa intenzione, la ricompensa che riceviamo da Dio è
uguale se neghiamo la nostra compassione agli altri popoli e se
invece aiutiamo con opere di misericordia chi appartiene al popolo
ebraico».
Distinzioni analoghe si trovano in numerosi altri passi. Nella
spiegazione del divieto di ritardare il pagamento del salario ai
lavoratori (paragrafo 238), l'autore sottolinea che quel peccato è
molto meno serio se si tratta di lavoratori gentili. Il divieto di
lanciare maledizioni (paragrafo 239) viene discusso sotto il
titolo "Non si deve mai maledire un ebreo, sia uomo o donna" e così
la proibizione di dare consigli fraudolenti, di odiare il prossimo,
di umiliarlo o di vendicarsi (paragrafi 240,245,246,247) si applica
solo se si tratta di ebrei.
Il divieto di adottare i costumi dei gentili (paragrafo 262)
significa non soltanto che gli ebrei devono "star lontani" dai
gentili, ma anche "denigrare tutti i loro costumi, a cominciare dal
modo di vestirsi".
Superfluo ricordare che le spiegazioni che stiamo citando riflettono
correttamente gli insegnamenti dell''Halakhah. I rabbini, e ancora
peggio, gli studiosi apologeti del giudaismo, lo sanno benissimo ed
evitano in ogni modo di discuterne all'interno della comunità e,
naturalmente, all'esterno, occultano tutto questo con la massima
cura. Demonizzano, invece, tutti quegli ebrei che parlano di questi
argomenti "a portata d'udito" dei gentili e se questi ne vengono a
conoscenza, negano tutto ricorrendo alle arti più raffinate
dell'inganno e dell'equivoco. Per esempio, non si stancano di
sottolineare, sempre in termini generali, s'intende, l'importanza
che il giudaismo attribuisce alla compassione, ma si dimenticano di
precisare che, secondo l'Halakhah, l'unica compassione che l'ebreo
deve avere è per gli altri ebrei.
Chi vive in Israele sa quanto siano profondi e diffusi, tra la
maggioranza degli ebrei israeliani, i sentimenti di odio e crudeltà
verso tutti i gentili. Di solito, queste cose vengono nascoste al
mondo esterno ma, dopo la costituzione dello Stato d'Israele, la
guerra del 1967 e l'ascesa al potere di Menachem Begin, una
significativa minoranza di ebrei, sia in Israele che all'estero,
hanno cominciato a parlarne apertamente. In tempi assai recenti,
sono stati denunciati senza mezzi termini i precetti disumani che
definiscono la schiavitù "destino naturale" dei gentili e sono
apparsi in televisione coltivatori israeliani che sfruttano i
braccianti arabi e il lavoro minorile nelle forme più brutali. Dal
canto loro, i leader del Gush Emunim citano tranquillamente quei
precetti religiosi che incoraggiano e impegnano gli ebrei ad
opprimere i gentili, come quando si è trattato di giustificare
l'assassinio dei sindaci palestinesi o di ribadire che, a monte dei
loro piani di deportazione di tutti gli arabi della Palestina, c'è
l'autorità divina.
Molti sono i sionisti che rifiutano queste posizioni sul piano
politico, ma le loro argomentazioni contrarie si basano troppo
spesso sull'opportunismo e gli interessi esclusivi d'Israele invece
che su principi umani e morali che riguardano tutti gli uomini. Per
esempio, quei sionisti sostengono che lo sfruttamento e
l'oppressione dei palestinesi da parte degli israeliani è un fattore
primario della corruzione di tutta la società d'Israele, o che,
nelle condizioni politiche attuali, l'espulsione dei palestinesi non
è realizzabile, o che il terrorismo israeliano contro i palestinesi
potrebbe provocare l'isolamento internazionle d'Israele. In linea di
principio, la maggioranza dei sionisti, e in particolare di quelli
di sinistra, condivide quell'atteggiamento ostile ai gentili di cui
il giudaismo ortodosso è fanatico assertore.