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Discussione: Violante in Iraq

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    Predefinito Violante in Iraq

    Una guerra vinta. Punto.

    Dovrebbe essere chiaro anche agli ideologi più stolti del giornalismo internazionale, con particolare riguardo alla provincia italiana, che l’occidente, quello che l’ha fatta, ha vinto la guerra per la libertà in Iraq, letteralmente nominata Iraqi Freedom.
    Dopo il voto di sunniti, sciiti e curdi per eleggere il nuovo e sovrano Parlamento di Baghdad, la feroce, belluina polemica sulle armi di distruzione di massa, cioè su una valutazione errata del potenziale d’attacco non convenzionale di Saddam formulata dalle intelligence di tutto il mondo, anche quello che nella guerra poi si imboscò, fa ridere (e non parliamo del Nigergate, che fa sganasciare dalle risate).
    I willing (Bush, Blair e, perché no, anche Berlusconi) sono rimasti lì, hanno dichiarato i loro errori dopo averli commessi come succede in tutte le guerre e in tutte le azioni umane, hanno sacrificato i loro militari, i loro quattrini, hanno messo a rischio il loro prestigio e la loro forza nelle elezioni nazionali, finora tutte vinte dai willing salvo quella spagnola dove arrivò in tempo l’aiutino di bin Laden, e il risultato è sotto gli occhi di tutti.
    “E’ esportata ma è democrazia”, come recitava di recente un titolo (a sorpresa) di Repubblica. Realisti della vecchia scuola conservatrice e pacifisti apocalittici, antiamericani e antisraeliani, intellos di orientamento franco-tedesco al seguito di quelle star europee che si chiamano Chirac e Schröder (il signor 1 per cento nei sondaggi e l’impiegato di Putin), dovrebbero avere un sussulto di fronte ai fatti, alla significatività del reale.
    Niente abiure, autocritiche. Ma nuove analisi, riflessioni, quelle sì che ce le debbono le Spinelli, i Romano e l’esercito di sprezzatori della strategia messa in moto da una parte dell’occidente, contro un’altra parte dell’occidente, dopo l’11 settembre.
    Come sarebbe oggi il mondo senza le bombe che hanno permesso di sventrare l’organizzazione militare e territoriale di al Qaida sotto l’ala talebana?
    Come vivremmo con Saddam al potere, impegnato nel solito negoziato con Hans Blix e nelle transazioni di Oil for Food?
    Come vivrebbero, soprattutto, le donne e le minoranze etniche o le maggioranze religiose oppresse e gasate, da Kandahar a Bassora a Mosul?
    Chi ha salvato più musulmani dal destino di miseria e terrore in cui erano immersi dai fucilatori dei Bhudda di Babiyan e dal rais che finanziava gli shahid palestinesi e muoveva liberamente il suo servizio segreto, il mukhabarat?
    Una parolina sul Libano libero dai carri siriani, vogliamo dirla?
    Una su Gheddafi che rende le armi chimiche e s’inguatta nel nuovo ordine, vogliamo dirla? Vogliamo ammettere finalmente, senza sentirci umiliati ma invece aperti alla verifica del reale, che quella di Bush e di Cheney e di Rumsfeld e di Blair era ed è una politica d’attacco, capace di produrre il risultato apertamente e dichiaratamente perseguito, cioè un incremento potenzialmente rivoluzionario di pace e libertà in medio oriente, nel mondo arabo islamico, l’unica seria cura contro l’attacco islamista al confuso e debole oligarchismo moderato islamico e a crociati ed ebrei? Vogliamo riconoscere che sarebbe stato un peccato mortale per la politica estera e militare dell’Italia stare alla finestra o attivarsi per il carro Parigi-Berlino, diretto palesemente verso il nulla? La Chiesa cattolica, che si era impegnata su posizioni per essa prescrittive, di diplomazia e di appello carismatico alla pace, ha saputo riconoscere la realtà, con i suoi intellettuali-cardinali, con il suo Papa. Nessuno disconosce il diritto all’identità orgogliosa delle posizioni di partenza, ma lungo il viaggio occorre esaminare la rotta, e capire se la destinazione non fosse per caso quella giusta, e se non sia più vicino il porto d’arrivo.
    Ciò che la Chiesa, ricca di sapienza e di cultura, fa quando dice solennemente che le truppe dei willing devono stare lì fino al completamento dell’opera, fino alla vittoria definitiva di cui parla il presidente americano.
    E gli intellettuali e gli analisti e i giornalisti laici, che cosa fanno, che cosa pensano, come agiscono sul teatro delle idee che incrociano la storia? Aspettano di vedere se sarà guerra civile?
    Voltano la faccia dall’altra parte di fronte alla trasformazione di un grande paese islamico passato da trentacinque anni di dittatura belluina a un inizio di democrazia senza precedenti, e speculano intellettualmente sulla prossima autobomba pur di non riconoscere che le élite di Gerusalemme e di Washington hanno pensato al posto loro, deciso senza e contro di loro, e hanno pensato e realizzato la cosa giusta?

    saluti

    ve la immaginate la firma di Violante sotto queste parole, magari dette parlando ai nostri soldati durante la visita fatta laggiù accanto al presidente Casini?

    Beh: oggi avrei grandissimi timori sui risultati delle prossime "politiche".
    Ma ci è andata bene, direi benissimo.

    Questo discorsetto è firmato da Giuliano Ferrara, a chiosa di un articolo su il Foglio che dice:

    Una strategia vincente. Punto

    Dall’11/9 di New York al 15/12 di Baghdad. Dalle Torri abbattute a Manhattan alle code ai seggi di Fallujah.
    Dalle piazze arabe che non si sono ribellate, all’idea di una Conferenza di riconciliazione nazionale coi sunniti.
    I piani della liberazione non sono nati ieri né per caso.Perché Bush, Blair e i loro alleati hanno avuto ragione

    New York. La democrazia in Iraq non è nata ieri e non è nata per caso, ma in seguito alle scelte di George W. Bush e di Tony Blair nei giorni successivi all’11 settembre 2001. Poche ore dopo l’attacco a Manhattan e al Pentagono, il presidente americano stabilì un principio che è alla base del successo politico ottenuto ieri in tutto l’Iraq. Con le Torri ancora fumanti, Bush disse che non avrebbe fatto distinzione tra i terroristi e gli Stati che li sostengono, li finanziano e li ospitano. Compilò una lista di paesi, l’“asse del male”. Era il nucleo del documento sulla strategia di sicurezza nazionale presentato nel settembre 2002 e anticipato a giugno in un discorso all’Accademia di Westpoint.
    Bush capì di aver bisogno di un’idea, di una strategia complessiva, efficace e di lungo termine. La sua Casa Bianca poteva contare su una formidabile squadra di consiglieri di politica estera, veterani della prima guerra del Golfo come Dick Cheney e Colin Powell, esperti del mondo sovietico come Condoleezza Rice, sostenitori di riforme democratiche in medio oriente come Paul Wolfowitz, reaganiani di sinistra come Richard Perle, realisti di ferro come gli uomini di suo padre, e nazionalisti tutto d’un pezzo come Donald Rumsfeld.
    A loro Bush chiese due cose: chi fossero questi che avevano buttato giù le Torri e che cosa bisognasse fare per sconfiggerli. La risposta arrivò dal più grande esperto d’islam, Bernard Lewis, e dai neoconservatori: i terroristi sono militanti fondamentalisti aiutati da alcuni regimi totalitari del medio oriente che ci vogliono uccidere non per ciò che facciamo ma per ciò che siamo. Con loro non si può trattare e non ci si può più girare dall’altra parte, l’unica via possibile è liberare il medio oriente da quei tiranni che non soltanto sviluppano armi di distruzione di massa, sostengono il terrorismo e minacciano il mondo libero, ma torturano i loro popoli e li consegnano nelle mani dei fondamentalisti islamici.
    Un’altra risposta, più cauta, arrivò da Bush senior e dai suoi ex consiglieri, Brent Scowcroft e Lawrence S. Eagleburger. Henry Kissinger aveva molti dubbi sul cambiamento dello status quo in medio oriente, così come l’ex segretario di Stato, James Baker. Molti altri conservatori come il senatore Chuck Hagel e il polemista Pat Buchanan avrebbero preferito che l’America non inseguisse ambiziosi progetti oltreoceano. Powell ricordò che quando si rompe un paese si eredita la responsabilità di ricostruirlo e alla destra americana non è mai piaciuto impegnarsi nel “nation building”.

    Quando lo status quo non è più ragionevole
    Sull’attacco ai Talebani dell’Afghanistan tutti erano d’accordo, sull’Iraq no. Insieme con una buona parte dei liberal e degli europei, i realisti di destra si sono lanciati in previsioni catastrofiche, in scenari da guerra civile, in preoccupazioni sulle piazze arabe che si sono dimostrate sbagliate e tutto tranne che realiste. Una certa ingenuità c’è stata anche tra i seguaci della dottrina Bush, specie tra chi sosteneva che sarebbe stata una passeggiata e che gli americani sarebbero stati salutati come liberatori. In parte è stato così, ma la Casa Bianca e il Pentagono hanno sottovalutato l’organizzazione dei nostalgici di Saddam e hanno perseguito un progetto minimalista, con poche trupp pronte a lasciare l’Iraq subito dopo la caduta del dittatore. Quel progetto è stato corretto in corso d’opera, a volte con soluzioni sensate, altre con scelte infelici. Il risultato, comunque, è quello del voto di ieri.
    La dottrina Bush ha stabilito il diritto al primo colpo (first strike) non soltanto per evitare che i nemici attacchino per primi, ipotesi contemplata da qualsiasi Stato del mondo, ma per prevenire (preemption) questa possibilità, cioè per intervenire prima che il nemico sia pronto ad attaccare. L’altro pilastro della dottrina Bush, il più importante, ha portato al voto di ieri in Iraq: la politica del cambio di regime (regime change), il sostegno allo sviluppo della libertà e della democrazia e la fine del mantemimento dello status quo. Harry Truman, l’uomo che convinse gli americani a sborsare i soldi per esportare
    la democrazia in Europa e in Giappone, diceva che “il mondo non è statico e lo status quo non è sacro”.
    Secondo Bush e Blair, dopo l’11 settembre lo status quo del medio oriente non era più stabile né difendibile né giustificabile. Se gli alleati non saranno d’accordo, si leggeva nel documento presentato da Bush, l’America agirà unilateralmente, con l’aiuto di chi ci starà, perché la sicurezza degli Stati Uniti è più importante delle alleanze e delle istituzioni multilaterali.
    Lo stesso principio espresso all’Onu, nel 1994, da Madeleine Albright, segretario di Stato di Bill Clinton: “Agiremo multilateralmente quando possiamo, unilateralmente quando dobbiamo”.
    La politica degli Stati Uniti, ha ripetuto Bush, è quella “di cercare e di ottenere la crescita di movimenti e di istituzioni democratiche in ogni nazione e in ogni cultura, con l’obiettivo di porre fine alla tirannia nel nostro mondo”. In Afghanistan e in Iraq l’obiettivo è stato raggiunto, nonostante la strada per il mantenimento del nuovo status quo sia ancora lunga e violenta. In un tempo inferiore a quello impiegato dall’Italia tra il 25 aprile 1945 e il 18 aprile 1948, quei due paesi sono stati liberati, si sono dotati di una Costituzione e hanno cominciato il cammino verso la democrazia. Un terzo, la Libia, ha consegnato volontariamente le armi chimiche, rinunciando ai suoi programmi atomici. La Siria è stata costretta a ritirare le truppe dal Libano, i palestinesi amministrano Gaza e, per la prima volta, possono sperare in un futuro autonomo e democratico.
    * * *
    Baghdad. A Tikrit, città natale di Saddam Hussein, è in testa la lista laica dell’ex premier, Iyyad Allawi, sostengono le televisioni arabe, citando indiscrezioni della Commissione elettorale. Al voto che porterà l’Iraq ad avere il suo primo Parlamento eletto, con poteri per i prossimi quattro anni, i sunniti non soltanto sono andati a votare in massa, non soltanto – a Fallujah, come in altre zone da sempre contrarie a qualsiasi processo democratico – si sono lamentati perché le schede elettorali non erano sufficienti per tutti. Ma, per la prima volta, le formazioni guerrigliere nazionaliste hanno preso le distanze da al Qaida, osservando un tacito cessate il fuoco durante il voto, incamminandosi sulla via auspicata da alcuni – come ha ricordato anche il Christian Science Monitor – che vuole i sunniti impegnati a emarginare i terroristi di al Zarqawi. Il voto è stato una prova generale di dialogo, che potrebbe portare a risultati importanti sulla strada della pacificazione, se i parlamentari sunniti saranno coinvolti nel governo del paese o riusciranno, attraverso l’assemblea parlamentare, a portare avanti le loro istanze.
    Secondo il giornale arabo al Hayat, stampato a Londra, le formazioni antiamericane più importanti, come l’Esercito islamico (che rapì e uccise il giornalista italiano Enzo Baldoni), le fazioni meno integraliste di Ansar al Sunna, organizzazione specializzata in decapitazioni davanti alle telecamere, e l’Armata dei mujaheddin, composta da ex ufficiali del regime di Saddam convertiti all’islam nazionalista, hanno aderito alla “tregua” per il giorno del voto. Fonti del Foglio in Iraq confermano che nelle zone più pericolose, soprattutto nella provincia di al Anbar, infestata dai terroristi stranieri di al Zarqawi, questa fetta di guerriglieri ha protetto i seggi e il voto dei correligionari sunniti. In alcuni casi ha collaborato con le forze di sicurezza locali per bloccare attacchi provocatori di al Qaida. Le fazioni della guerriglia che hanno scelto di non sparare il giorno del voto fanno parte della cosiddetta “resistenza matura”, come l’ha definita lo sceicco Ahmed al Samarray, punto di riferimento dei sunniti: matura, cioè, per un accordo politico voluto dal Partito islamico iracheno, che guida una coalizione di movimenti sunniti data per vincente nelle zone di influenza della minoranza. Uno dei leader, Adnan al Dulaimi, ha dichiarato ieri che, se entrerà in Parlamento, cercherà di calmare la situazione: “Forse attraverso appelli indiretti riusciremo a persuadere quanti impugnano ancora le armi a prendere parte al processo politico”. I guerriglieri, favorevoli alla scelta di votare, hanno fatto sapere che “la lotta continua fino al ritiro delle truppe d’occupazione”, ma un primo passo è compiuto. Allawi – prima seguace del Baath poi oppositore di Saddam, che ora sta recuperando tutti gli ex del regime pronti a servire il paese prendendo le distanze dal deposto rais – è l’ago della bilancia nei confronti dei partiti religiosi sciiti. Con i sunniti sta parlando di una grande Conferenza di riconciliazione nazionale a febbraio, prosecuzione di quella del Cairo, questa volta in Iraq.
    Un governo di “salvezza nazionale”
    Nel quartiere di al Adhamya, baluardo sunnita della capitale, gli elettori sono corsi alle urne come fosse un giorno di festa. Nessuno ha speso più una parola a favore di Saddam, che proprio in questo quartiere ha fatto la sua ultima, scenografica apparizione quando i marine statunitensi stavano entrando nella capitale. Nel sud è in testa l’Alleanza irachena unita, formata dai partiti religiosi Dawa e Sciri, collegati con gli estremisti sciiti di Moqtada al Sadr. Allawi, nonostante minacce e attentati, sta rosicchiando voti ovunque, in alcune aree è testa a testa coi religiosi. Soprattutto a Baghdad: nella zona verde, Allawi è il più votato. A nord, i movimenti curdi dei leader Massoud Barzani e Jalal Talabani confermano il successo elettorale di gennaio. Il premier Ibrahim al Jafaari ha già annunciato che in caso di vittoria darà “più spazio ai seguaci dell’imam Moqtada”, in linea con la deriva religiosa dell’alleanza. I curdi hanno già detto di non volerne sapere e di preferire il governo “di salvezza nazionale”, che sta costruendo Allawi, al quale servirà l’appoggio dei sunniti.

    Su il Foglio di qualche giorno fa

  2. #2
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    avevo letto il titolo: "volate in Iraq"
    magari con Ryanair

 

 

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