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Discussione: Sugli stati d'animo.

  1. #11
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    "Il tuo orecchio non mi percepisce, ma in cuore ti rimbombo; in forma varia esercito crudele potere" Goethe, Faust, parte prima.
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    Citazione Originariamente Scritto da Outis
    Siamo tutti squilibrati...

    Ma se siamo tutti squilibrati, allora lo squilibrio non esiste.

    Oppure si tratta dell'espressione dei vari gradi dell'anima, allora può essere tu abbia ragione...

    Del resto come afferma Segatori*:"è il sonno dell'anima, non della ragione, a generare mostri". E quando l'anima si risveglia, può essere sia soggetta a sommovimenti oscillatori...

    (*Adriano Segatori, L'anima e le sue parole",Edizioni di Ar )

  2. #12
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    Citazione Originariamente Scritto da Yggdrasill
    Ma se siamo tutti squilibrati, allora lo squilibrio non esiste.

    Oppure si tratta dell'espressione dei vari gradi dell'anima, allora può essere tu abbia ragione...

    Del resto come afferma Segatori*:"è il sonno dell'anima, non della ragione, a generare mostri". E quando l'anima si risveglia, può essere sia soggetta a sommovimenti oscillatori...

    (*Adriano Segatori, L'anima e le sue parole",Edizioni di Ar )


    Intendevo dire "Noi", non tutti...

  3. #13
    Forumista senior
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    "Il tuo orecchio non mi percepisce, ma in cuore ti rimbombo; in forma varia esercito crudele potere" Goethe, Faust, parte prima.
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    Ahhh, ecco, allora tutto si spiega.()


    « ...tutte le corse dei cavalieri erranti sembrano chimere, sciocchezze, stravaganze, e son tutte a rovescio delle altre. E non perché la cosa stia realmente così, ma perché sempre in mezzo a noi s'agita una turba di incantatori, che mutano e svisano tutte le nostre cose a piacer loro e secondo il loro desiderio di aiutarci o di rovinarci; quindi questo che a te pare una catinella da barbiere, a me pare l'elmo di Mambrino, e a un altro parrà forse un'altra cosa. E fu molto previdente il mago che mi protegge, facendo sì che paia catinella a tutti, ciò che realmente e veramente è l'elmo di Mambrino, perché altrimenti, dato il suo grande valore, tutti mi inseguirebbero per togliermelo » (Cervantes, Don Quijote, parte I, capitolo xxv).


    (buonanotte Outis)

  4. #14
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    Grazie Yggdrasill

    per il recupero di queste pagine di godevole lettura.

    saluti

  5. #15
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    Citazione Originariamente Scritto da margini
    Grazie Yggdrasill

    per il recupero di queste pagine di godevole lettura.

    saluti

    paul ritorna tra noi....

  6. #16
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    Citazione Originariamente Scritto da Legionnaire
    paul ritorna tra noi....

    Se è così m'aggrego alla prece.

    (Legionnaire, suvvia...Un po' di ritegno! Mi pari un cuore infranto )

  7. #17
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    Citazione Originariamente Scritto da Yggdrasill
    Se è così m'aggrego alla prece.

    (Legionnaire, suvvia...Un po' di ritegno! Mi pari un cuore infranto )
    Infranto anch'io Ad esempio quando sento parlare di fascismo che finisce nel 22 e ricomincia nel 43 sento la mancanza di un intervento di Paul

    (detto ciò, grazie Yggdrasill per questo bellissimo topic)

  8. #18
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    Citazione Originariamente Scritto da cristiano72
    Infranto anch'io Ad esempio quando sento parlare di fascismo che finisce nel 22 e ricomincia nel 43 sento la mancanza di un intervento di Paul

    Considerando che uno dei fili conduttori di questa discussione, non l'unico, si badi bene, era proprio identificabile col concetto di "mancanza", o "assenza", che dir si voglia, direi che certi aneliti sono tutt'altro che fuori luogo.

    Quindi, dopo aver assistito alle "oscillazioni" dovute alla "mancanza" di stabilità dell'animo umano, continuamente travolto, trascinato, a volte sconvolto, da sensazioni e sentimenti, che altro non sono se non il riflesso del mondo sullo specchio della propria anima. Alla mancanza d'Amore e d'Assoluto, che forse solo il quieto ritorno all'umido grembo di Madre Natura può colmare. Alla mancanza d'una risposta univoca, e soddisfacente, con la quale risolvere l'eterno dilemma circa il senso della vita, mirabilmente espressa da alcuni esponenti delle avanguardie storiche del '900,e che poi, forse, hanno trovato risposta nella metafisica di De Chirico (mirabile interprete delle cogitazioni di un Nietzsche o Schopenhauer).
    E allora, perchè no! Anche alla mancanza di Paul, che con i suoi interventi tanto ha saputo arricchire questi lidi virtuali, e che può quindi a pieno titolo rientrare tra le tematiche di questa discussione...

    Direi allora di dedicargli, e tutti assieme, questa bellissima serenata, sperando così che ci ripensi e torni tra noi.
    (auspicando pure che voi non siate troppo stonati, altrimenti dubito del risultato... )


    T O R N A A (S U R R I E N T O) POL
    (De Curtis)


    Vide 'o mare de POL
    che tesoro tene nfunno;
    chi ha girato tutto 'o munno
    nun l'ha visto comm'a cca
    Guarda attuorno sti sserene,
    ca te guardano ncantate
    e te vonno tantu bene...
    te vulessero vasà...
    E tu dice: "ìparto addio!"
    t'alluntane da stu core...
    da sta terra de l'ammore...
    tiene 'o core 'e nun turnà?
    Ma nun me lassà,
    nun darme stu turmiento!
    torna a POL famme campà

    Viede 'o mare quant'è bello
    spira tantu sentimentu
    comme tu a chi tiene mente
    ca scetato 'o fai sunnà,
    guarda guà chisto ciardino;
    siente, siè, sti sciure arance:
    nu prufumo accussi fino
    dint'o core se ne va...
    e tu dice: "Ìparto, addio!"
    t'alluntane da stu core...
    da sta terra de l'ammore
    tieno 'o core 'e nun turnà?
    ma nun me lassà,
    nun darme stu turmiento!
    torna a POL, famme campà

    http://members.tripod.com/arlindo_correia/021201.html


  9. #19
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    MARIO SIGNORE

    Professore Ordinario di Filosofia Morale dell’Università di Lecce

    PASSIONI E/O EMOZIONI.

    UNA SFIDA PER LA RAGIONE**

    “INformazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia”, n°6 novembre-dicembre 2005, pagg. 26-35, Roma





    La sfida che si vuole porre alla “ragione” parte dalla constatazione che pathos e fronein si ritrovano, a ben guardare, nell’attitudine del filosofare.

    Thaumazein è un pathos! La meraviglia come ci rammenta il filosofo, è archè, ma non svanisce con l’affermarsi del processo conoscitivo, che non smette di fare i conti con la straordinarietà.

    In questo senso l’archè è un inizio mai superato, è un pathos che colpisce essenzialmente (thauma) e da cui si inizia la riflessione filosofica; problema che si scaglia addosso e coinvolge il pensare; sofferenza dell’ inizio che non si placa; pathos che non abbandona l’ethos, malgrado le pretese dell’etica ellenistica.

    È tutto qui il cuore della tesi che vogliamo sostenere con la nostra riflessione.

    Il tema che proponiamo è compatibile con differenti (almeno due) approcci, e i problemi che esso prospetta fanno intravedere diverse possibili soluzioni. L’audacia della ricerca dell’elemento “passionale” interno alla stessa ragione, pari alla desacralizzante irruzione nel tempio del Aufklärung, non esclude la pur legittima esposizione delle ragioni della passione, in una sostituzione del genitivo (soggettivo o oggettivo a seconda dell’itinerario che si vuole tracciare) che non altera, almeno significativamente, il senso della messa in questione.

    Qualunque sia il punto di partenza privilegiato (la ragione o la passione) il discorso si apre a trecentosessanta gradi sulla ragione, della quale si considerano complessivamente gli esiti filosofico-speculativi e quelli pratici, etico-politici.

    L’operazione ermeneutica su di una coppia concettuale pregiudizialmente costituita da termini antitetici ed escludentisi vicendevolmente (aut-aut), vuole proporre non senza qualche rischio non solo una sospensione delle ostilità, ma una ricollocazione semantica che li inserisca nel medesimo orizzonte di senso, in cui entrambi possano aprire, insieme, la sfida a quei significati tanto sedimentati, quanto ovvi, ai quali il pensiero della scissione e della separatezza ci ha abituati nell’ormai plurisecolare (millenario) esercizio.

    A questo punto, si tratta di argomentare e argomentatamente smascherare il limite pregiudicante di questa separatezza, cogliendolo innanzi tutto nella lunga storia della ragione occidentale e in quella ricostruzione delle sue avventure che, per primo, l’esercizio filosofico ha imposto all’attenzione/riflessione dell’uomo comune. Da questo impegno storico-teorico deriverà una prima assunzione di senso, che riguarda la collocazione dell’analisi delle passioni all’interno (non fuori né contro) della ragione colte, le passioni, come un’articolazione, magari la più interna, la meno evidente, della stessa ragione.

    La scelta, di metodo e di merito, approda significativamente a due istruttivi esiti (o almeno due): 1) impegnarsi in un’indagine sulle passioni, nel senso prefigurato sopra, significa non uscire, ovvero non rinunciare al lavoro di autoanalisi e, perché no, di autocritica e valutazione della ragione, ma, al contrario, volerla indagare e rivelare a partire dalle profondità più impervie e, apparentemente, “oscure”; 2) porre in relazione virtuosa ragione e passioni può voler indicare un ruolo di queste ultime, non più marginale rispetto alle sorti dell’esperienza razionale, bensì coessenziale e imprescindibile per la comprensione più adeguata dell’esperienza umana individuale e sociale.

    L’operazione speculativa che qui si vuole proporre è tanto più intrigante quanto più vuol essere legata ad una intenzionalità di salvaguardia (finalmente) di quel “pensare”, che facendo i conti (sine ira et studio) con la metafisica tradizionale e con l’ontologia, mette in scacco la plausibilità/sostenibilità di quel “prendersi cura della lontananza” che a molti appare con la punta più alta del filosofare.

    Per liberarsi da quella forma di metafisica (tutte le forme di metafisica, compresa quella positivistica!) Heidegger dopo Sein und Zeit si domanda: in quale rapporto col mondo della vita si colloca la domanda “Was ist das Ding”? Rispetto a questa domanda, a favore del filosofo vale la singolare presunzione della potenza di ciò che lo fa filosofare “contro” il modo di pensare abituale. L’alternativa di prossimità e lontananza, della cosa più vicina e di quella più lontana, non è più superata grazie alla possibilità di determinare il lontano in base al prossimo e di integrarlo a partire da questo come proiezione; al contrario, proprio ciò che è vicino è (sarebbe) una delle forme in cui ciò che è veramente importante viene alterato e occultato. [La passione è cieca!]. Così tutte le vie che portano ad esso non possono che condurre all’erramento (nel senso di errore e di perdita dell’orientamento: la stella polare della ragione): ci interroghiamo sull’immediatamente tangibile attorno a noi e nel far ciò ci allontaniamo dalle cose a noi più vicine ben più di Talete che guardava soltanto fino alle stelle.

    La metafisica ha voluto costringere la teoria, sotto la denominazione di trascendenza, ad andare al di là del confine cosmologico, al di là delle stelle. Noi vogliamo andare, dice Heidegger, oltre qualsiasi cosa, fino all’incondizionato, là dove non vi sono più cose che offrono un fondamento (la passione delle cose) e un suolo a cui appoggiarsi. Le servette, dice Heidegger al plurale, ridono del filosofo; esse non capiscono perché egli non si fermi alle cose più vicine, sicchè queste gli diventano fatali, poiché gli sono così remote. «L’ente, che noi stessi siamo in ogni momento, è ontologicamente il più lontano».¹

    Tanto lontano che non lo si recupera nemmeno con le riduzioni feno*menologiche di Husserl, che pone l’origine del filoso*fare nel superamento dell’ovvietà, e la vittoria sulla crisi della ragione nel ritorno alla Lebenswelt: l’essenziale, perciò, non richiede di allontanarsi dal mondo della vita verso posizioni eccentriche, ma, al contrario, di descrivere quelle riattuabili prestazioni del mondo della vita che si celano in ciascuna di tali posizioni, in quelle cioè delle scienze positive. Del fenomenologo le servette non ridono; al limite egli ha da ‘dire’ loro solo ciò che esse pure avevano visto, senza poterlo dire.

    Una prima conclusione mi pare di poter trarre dalla impostazione heideggeriana: la via della profondità abissale del pensiero filosofico che lo rende sordo ai richiami della storia e della vita è anche la via che conduce all’assoluta a-paticità del pensiero!

    A questo punto bisogna chiedersi se non sia possibile percorrere un’altra via che, senza disperdere il grande guadagno dell’autonomia della ragione conseguito lungo il cammino della modernità, non necessariamente si chiuda con l’impossibilità per la ragione di esercitare il diritto-dovere a dare conto dell’integralità dell’esercizio del pensare. Insomma, autonomia della ragione e assunzione da parte di essa di un atteggiamento critico/inclusivo sono da definirsi incompatibili, come apparirebbe dalle conclusioni heideggeriane? La domanda è retorica perché è evidente che «affinché la ragione mantenga la sua capacità critica e di rendere conto del tutto, è necessario che essa rimanga legata da un rapporto vitale con il mondo poiché questo è il fondamento e il terreno delle sue possibilità di esplicarsi»,[1] che è come dire recuperare tutto il pathos che si annida in una “ragione” non priva di “mondo”.

    E qui può valere la lezione di E. Husserl per il quale ogni interpretazione e oggettivazione intellettuale e scientifica poggia sull’esperienza del mondo, che si è già sempre rivelato agli uomini come natura, la quale costituisce il referente ineludibile del pensiero, che da questo rapportarsi fa discendere la sua capacità (attitudine) a donare senso alla realtà.

    Ma voglio dare un antecedente autorevole di questa esigenza di inclusività espressa nella presenza determinante del “sentire” (sentimento) nella impegnativa fatica del pensiero e del pensare. Faccio riferimento alla posizione di Kant, specialmente a quei luoghi in cui si mostra impegnato a ricercare un punto di equilibrio tra ruolo autonomo e determinante dell’io nella costruzione del lògos, ruolo indelegabile se si vuol mostrare fino in fondo di saper far uso della propria ragione quell’uso autonomo della ragione che qualifica l’uscita dalla minorità; «L’uscita dello stato di minorità colpevole significa…che la presa di coscienza del fatto che l’uomo, nel suo agire – ed anche l’uso della ragione è un agire – e nella storia di questo agire, ha a che fare con se stesso», e la capacità/volontà di sconfiggere quel “fanatismo”, che impedisce alla ragione di aprire un rapporto dialettico col mondo e la condanna a quel “monologo dogmatico”, che la sottrae al “lavoro del concetto”»².

    Kant difende e definisce la libertà nel pensare, per il ruolo insostituibile che questa libertà assume rispetto al significato che egli attribuisce all’orientarsi nel pensare.

    Ma per certi aspetti ancora più inevitabile e stringente appare l’apertura del dialogo col mondo in Was heißt sich im Denken orientieren? che stiamo analizzando ed in cui l’orientarsi del pensiero nel mondo può essere letto come la metafora di un impegno del pensiero a non sottrarsi alla fatica del dialogo con la storia. Addirittura qui si parte dal significato “geografico” di orientamento, per estenderlo poi al “terreno” del pensare. Nello spazio geografico, pur considerando tutti “i dati oggettivi”, ci possiamo orientare perché possediamo una “ragione soggettiva” di distinzione che è il sentimento di una “differenza”. «Ho bisogno del sentimento di una differenza (Gefühl eines Unterschiedes) nel mio proprio soggetto, vale a dire la differenza tra mano destra e mano sinistra. Chiamo ciò un sentimento (ein Gefühl), perché queste due parti non mostrano esteriormente alcuna differenza nell’intuizione»²

    Analogicamente sarà incombenza e responsabilità della ragione guidare il suo uso anche oltre i limiti dell’esperienza (über alle Grenzen der Erfahrung). In questo caso, nella “determinazione” della propria capacità di giudizio, la ragione non è assolutamente in grado di portare i suoi giudizi sotto una determinata “massima” in base a fondamenti “oggettivi” di conoscenza, bensì “unicamente” in base a un “fondamento soggettivo” di distinzione. Questo “fondamento soggettivo” è il sentimento del bisogno”, proprio della ragione di orientarsi nel campo smisurato del soprasensibile, postulando l’esistenza di ciò che non si può provare oggettivamente. Si tratta, dunque, del sentimento di un’esigenza che scaturisce dalla ragione e dalla consapevolezza dei suoi limiti e costituisce così la fede razionale, una pura fede razionale (ein reiner Vernunftglaube) che si mostra come un “tenere per vero” (Fürwahrhalten) soggettivo, il quale serve ad “orientare l’uomo nel campo del sovrasensibile”.

    In ogni caso, la ragione non può rimanere insoddisfatta e anche quando appare priva degli elementi richiesti per formulare un giudizio determinante, deve cercare una massima (un principio soggettivo) che consenta comunque di formulare il nostro giudizio senza dimenticare i “limiti” costitutivi della nostra capacità conoscitiva. Non possiamo fare a meno di giudicare perché “la ragione vuol essere soddisfatta”.

    Come è possibile ricercare nella “soggettività” quei principi o quelle “massime” che ci consentono di “soddisfare” il bisogno “reale” della ragione?

    Il processo di questa ricerca è del tutto riflessivo, anche se culmina in una decisione, o addirittura, nella necessità di un passaggio qualitativo: dal teoretico al pratico.

    Forse qui, proprio in questo cercare “che cosa significhi orientarsi nel pensare”, è possibile cogliere l’unità genetica tra la problematica del giudizio riflettente e la fondazione pratica della filosofia kantiana.

    Nel puro pensiero speculativo, la ragione non si orienta mediante una conoscenza, ma mediante un “bisogno soggettivo” che essa avverte. Il “mezzo” con cui la ragione si orienta quando mancano “condizioni” e “principi” oggettivi della ragione, è il “sentimento del bisogno” (Gefühl des Bedürfnisses). Questo mezzo è una “massima” per il solo “uso” della ragione, che i suoi “limiti” le consentono.

    Un processo di ricerca “riflessivo”, inteso come Fürwahrhalten (tenere per vero) soggettivo e fondato su una continua mai definitiva comprensione e ricomprensione dei principi e delle condizioni di possibilità dell’uso della nostra ragione, «riveste sempre una grande importanza quando manchiamo di principi oggettivi e siamo tuttavia costretti a giudicare: dove non è arbitrario di volere o di non volere giudicare determinatamente di qualcosa, dove esiste un bisogno reale di giudicare, un bisogno inerente alla ragione stessa….»²

    Seguendo Kant, è possibile «assumere che il giudizio, ciò che consente la conoscenza, non è riconducibile unicamente ai principi e ai fondamenti della logica formale o a quelli della logica trascendentale, ma ancora prima di questi, la terra in cui si radicavano il giudizio conoscitivo e più in generale la facoltà del giudizio è la destinazione della ragione. Destinazione in cui si coappartengono tra loro, fin dal cominciamento, la dimensione gnoseologica, quella etica e quella estetica»²

    L’universalità del bisogno della ragione è la stessa universalità che si mostra, in modi diversi, nel rapporto qualitativo tra le fondamentali dimensioni del capire e dell’agire umano. “Il dibattito del bisogno” (das Rechtes Bedürfnisses) della ragione si pone come un fondamento soggettivo per “presupporre” qualcosa che non si può pretendere di conoscere in funzione di fondamenti e criteri oggettivi; la ragione non può “orientarsi” se non secondo il suo proprio “bisogno”.

    Ma spetterà ancor di più al pensiero contemporaneo, che ha sperimentato la collisione tra ragione moderna e l’estraneità deresponsabilizzante delle “passioni”, cercare le strade più idonee che consentono al “pensare” di non disperdersi nelle insidiose tentazioni del nichilismo, avendo perduto ogni saldo ancoraggio alla tensione dimostrativa della ragione, ma anche di non dissipare quella riserva di senso che si cela nella irrinunciabile dimensione “patica” del pensiero.

    E questa volta, l’esito è diverso, perché proprio cambiando, o riprendendo (il tradizionale) il punto di abbrivio della pur insostituibile ricerca del legale, del normativo, del “fondato”, si è aperta a nostro avviso, una nuova possibilità per la ragione. E questo inizio è la passione del vivere, che ha imposto le sue regole (l’ossimoro non è casuale!) al pensiero e ne ha determinato la traiettoria per il futuro.

    Vogliamo dire che di fronte ad un’attitudine filosofica piuttosto diffusa in quasi tutto il secolo scorso, da un lato rinunciataria nei riguardi dei grandi racconti, della metafisica e dei sistemi moderni, dall’altro aggressiva nell’imporre la forza della propria debolezza, l’uomo ha continuato a vivere, ad operare nel sociale, a produrre, a sperimentare, a creare, a confrontarsi con la natura, a interrogarsi sul problema del dolore e della morte, a cercare la felicità, a divedersi (con passione) sulla domanda radicale se interrompere o proseguire l’alimentazione meccanica di una persona ridotta allo stato vegetativo.

    Anche di fronte alla caduta del fondamento, l’uomo ha continuato a interrogarsi su “che fare”, su come dobbiamo vivere, sopravanzando il razionalista, troppo preoccupato di emendare la ragione, passandola al rasoio della logica ad excludendum.

    Questo richiamo al vivere che parte da chi “sente” di dover vivere ha avuto e sta avendo una ricaduta anche sulla ragione, sulle sue nuove tensioni e intenzioni; la sta conducendo verso luoghi nuovi e antichi in cui è chiamata ad abitare. E in questi luoghi si ritrova a coabitare, a integrarsi con la passione, anzi le passioni, sotto la forma del sentire e del sentimento, con esiti che qualcuno intelligentemente, sta rimettendo al centro della riflessione filosofica.

    Così nell’ambito della filosofia morale in cui, per fortuna, non si è spenta l’urgenza di definire l’evidenza che serve alla fondazione dei giudizi morali, si comincia a capire che «non si dà accesso all’evidenza morale dove non si dà un’estensione del sentire di livello personale (strato dei sentimenti, o dell’intenzionalità inter-personale) e una sua strutturazione in un ordine personale e vigente di priorità assiologia. L’ultima restrizione vincola l’accessibilità dell’evidenza morale al possesso di un ethos moralmente compatibile».[2] In altre parole occorre trovare, a parte subiecti, la condizione alla quale una sensibilità personale diventa una sensibilità moralmente compatibile, ovvero una coscienza morale capace cioè di giudicare (conoscenza) e agire (virtù) in base a motivazioni morali.[3]

    Questa condizione è il rispetto, nel suo senso forte di sentimento della trascendenza individuale, in quanto portatrice di valore, e quindi in particolare nella dignità di qualunque persona come tale.

    Così definito, il rispetto è il sentimento della conoscenza morale e la condizione dell’instaurarsi delle virtù morali, e dunque propriamente la soglia della conoscenza morale, o la condizione di compatibilità morale di un ordine del cuore.

    Riconosciamo essere questa del rispetto una via per uscire dall’intellettualismo, in quanto fondazione insoddisfacente dell’etica perché incapace di rendere ragione del fatto che la conoscenza del bene non comporta ancora affatto che lo si faccia. In questo senso non la conoscenza morale è condizione per la virtù, ma è proprio quest’ultimo che motiva la conoscenza morale. Ciò vuol significare il legame tra la libertà in formazione che è una persona nella sua ultima individualità, e la conoscenza assiologia, che forse può essere assunta come chiosa all’affermazione aristotelica “una rondine non fa primavera” dell’Etica a Nicomaco, quasi a indicare il carattere dinamico dell’opzione morale, ma anche integrale e comprensivo di un procedere arricchito di conflitti e indurimenti, indifferenza etica e passione per il valore, risvegli e accecamenti anche in funzione degli incontri e della storia della persona.

    Ma qui c’è un punto che merita qualche breve riflessione. Ogni etica non può essere tale se al di là della dimensione per così dire vocazionale, non ammettesse l’esistenza e l’accessibilità di esigenze non negoziabili e assolutamente obbliganti per tutti.

    A ben guardare a fondamento di ogni azione morale (es. quella che noi definiamo azione “giusta”) vi è una forma che previene l’arbitrarietà delle preferenze nelle relazioni con gli altri e con se stessi, ma in compenso ciò che di volta in volta è dovuto come atto morale, è definito dalla buona fondazione dei sentimenti che è giusto che io nutra nei loro confronti. La passione della “fraternità” rende più praticabile ciò che appare non negoziabile e assolutamente obbligante per tutti.

    Lo stesso si potrebbe dire, ma non mi inoltro, della relazione tra credere e conoscere; tra fede e ragione. Nulla più della passione di una fede allarga gli orizzonti del conoscere e li rende infiniti, così come slarga, spingendole al limite, le possibilità della ragione.

    Ma come per la morale, l’istanza sovrapersonale della personalità religiosa di un uomo è radicata nella profondità delle persone, nell’intero dell’essere della persona. Al di là, al di fuori di questo intero ragione e passione, fede e ragione, sentimento e conoscere riprendono a dividersi e a contrapporsi.

    Recuperando, invece, il principio di integrazione, richiesto dal tema dell’intero, l’interno e l’esterno, il dentro e il fuori, il medesimo e l’altro, si rimettono in dialogo pur senza mai confondersi: qui l’intero non è più l’unità definitiva, indistinta, totalizzante (di cui ha giustamente timore Lèvinas). Qui vale l’efficace impostazione di Romano Guardini, in Virtù: «È forse lecito dire che ogni vera cultura comincia col fatto che l’uomo si ritrae. Non si spinge avanti, non afferra e rapisce per sé, ma crea quella distanza dove, come in uno spazio libero, può apparire veramente una persona con la sua dignità, l’opera con la sua bellezza, la natura con la sua potenza di simbolismo».[4]

    Ma per questo occorre passione, o meglio, una ragione che si fa passione, sentire, sentimento (come dicevamo) del “rispetto”. Questo, infatti, come dice Max Scheler «non è … un’aggiunta sentimentale alle cose bell’e pronte, percepite, tanto meno una mera distanza, eretta dal sentimento, fra noi e le cose …. Esso è, al contrario, l’atteggiamento in cui si percepisce qualcosa di più, che l’irrispettoso non vede e per il quale egli è cieco: il mistero delle cose e la profondità del valore della loro esistenza».[5]

    Più avanti, dirà sempre Scheler, rispetto è quella sensibilità, quella passione che ci consente di cogliere, vedere “i teneri fili che prolungano ogni cosa nel mondo dell’invisibile”, di “stanare” il Dio nascosto che è in ogni cosa, la parola che risuona solo nel e dal silenzio. La passione del “rispetto” come sentimento che può considerarsi dovuto, a differenza dell’amore. La civiltà morale di un’epoca (la sua cultura) si può forse misurare dall’ampiezza e dall’estensione della passione del rispetto a cose che manifestano almeno alcune delle caratteristiche delle persone, ad esempio la capacità di soffrire che vale per gli animali, ma anche l’unicità, che vale per le opere dell’arte e della cultura, i monumenti della storia, i paesaggi.

    La passione per l’uomo trascende ogni antropologia metafisica e impedisce che il soggetto, la persona, si dileguino nell’ipertrofismo del soggetto moderno o nell’assenza definitiva di ogni soggettività nella post-modernità. Ma, ancora, impedisce che la scienza della morale “intristisca”, si faccia “triste scienza”, per la messa in liquidazione di destinatari ed agenti dell’azione morale.

    In Dialettica negativa Adorno ha evidenziato, ad esempio, come Auschwitz non dimostri soltanto «in modo inconfutabile il fallimento di una cultura» bensì anche «l’indifferenza che ha raggiunto la vita di ogni singolo»,[6] l’universale fungibilità, e quindi l’eliminabilità di tutti gli esseri umani.

    Per Adorno, Auschwitz fu possibile perché la freddezza, il gelo del soggetto [della ragione] costituitosi per dominare sulla natura, indurendo gli individui a monadi asimpatetiche, si era a tal punto esteso da impedire lo svilupparsi di un agire solidale su ampia scala. È innanzitutto qui la radice profonda dell’idea adorniana che l’epoca della tradizionale dottrina della “vita giusta” fosse irrimediabilmente tramontata.

    Nemmeno Adorno, alla fine accederà definitivamente a questa conclusione sconsolata. La passione del vivere (che spinge le lepri di Minima Moralia a riprendere a correre dopo essersi finte tramortite per gli spari del cacciatore, e Adorno ad affermare “la filosofia continua a mantenersi in vita perché non fu colto l’attimo della sua realizzazione”), ha qui una legittimizzazione in più, perché se, ad esempio, è scomparsa la possibilità di una donazione di senso al dolore, legittimando questa scomparsa come funzionale all’interno dei migliori dei mondi possibili, al suo posto subentra la prospettiva progressista (!) di una possibile eliminazione o quanto meno di una illimitata diminuzione del dolore affidata, in modo indeterminato, allo sviluppo tecnologico, all’autonomia di una forma di razionalità, la razionalità tecnica, disimpegnante nei riguardi dell’impegno morale dell’uomo buono, chiamato ad agire moralmente e quindi a procurare all’altro una sofferenza sempre minore. Di fronte alle non soddisfatte promesse della modernità, quelle di un’etica universalistica fondata su una razionalità orgogliosa dell’inflessibilità del suo rigore interno e della sua paradigmaticità, e quella di una ragione tecnica che non si appella ormai più alla morale, forse è urgente reintrodurre una “passione ontica” della prassi umana, libera finalmente dalla convinzione che basti costruire una tavola dei valori, o degli enunciati morali formalmente corretti per indurre la salvezza del mondo, senza che sia avvertito profondamente, in modo passionale (con quanto di medesimezza e di partecipazione abbiamo voluto semanticamente esprimere col termine “passione”!) un interesse morale per un’umanità libera dal dolore e dalla sofferenza.

    «Acquistare una maggiore consapevolezza delle passioni, a questo punto, implica che non ci si contenti di farsi trasportare da fluctuationes o perturbationes animi prodotte da venti che spingono l’individuo da ogni parte, o di lasciarsi guidare da automatismi irriflessi.»[7] Spinoza ha compreso che l’opposizione diretta e frontale di ragione e passione è generalmente destinata a logorare le energie dell’individuo e a paralizzare e a lacerare in maniera permanente gli atti di volontà.

    Solo due strade maestre si aprono, in effetti, nelle grandi filosofie, a chi intenda sciogliere i nodi del volere. La prima consiste nello sbloccare le forze in precedenza represse, immobilizzate e inutilizzate, delle passioni e dei desideri, incrementandone l’intensità in vista di una parallela crescita della “gioia “ e della potenza di esistere dell’individuo (che è la strada seguita da Spinoza stesso, e, per certi aspetti da Descartes) La seconda, nell’affidarsi ad un’entità che sia simultaneamente dentro e fuori dell’individuo, a un potere cioè capace di mediare dall’interno la singolarità e l’universalità (ed è la strada seguita da Agostino, quando cerca di sintonizzare la volontà umana con quella di Dio, “più intimo a me di me stesso intimior intimo meo…”) . Sia nel primo come nel secondo caso occorre disinnescare il conflitto immediato e binario tra passioni e ragione, spostando il livello dello scontro, magari facendo subentrare un terzo elemento, comune ai primi due, come arbitro e parte in causa nello stesso tempo.

    Spinoza rappresenta il ponte tra le etiche tese all’autocontrollo e alla manipolazione politica delle passioni e quelle che lasciano aperto il campo dell’incommensurabilità del desiderio. Contribuisce in tal modo ad abbattere il doppio muro che tradizionalmente divide, da un lato, le passioni dalla ragione e, dall’altro l’irrequietezza delle nuove masse dalla “serenità” del saggio.[8]

    Dall’analisi della loro apparente, e, per molti, ovvia, contrapposizione può discendere una meno parziale considerazione della ragione, specialmente quella “moderna”, ed una meno inadeguata chiave interpretativa degli eventi storico-politici e dei comportamenti soggettivi e individuali dell’uomo moderno e contemporaneo.

    Pensare le passioni, nella loro più diversa articolazione (emozioni, sentimenti, bisogni, fedi), non come turbamenti, o, magari temporanea, “sospensione” della ragione, ma come costitutive di ogni tonalità della nostra razionalità, può servire a riscattare, tra l’altro, l’esercizio filosofico dal suo isolamento speculativo, dando nuovo vigore di senso alla pagina platonica del Teeteto: «è proprio del filosofo questo sentimento: la meraviglia: ché non v’è altro principio del filosofare e chi disse Iride figlia di Taumante (Thaumazein), pare non abbia dato una falsa genealogia» (155 d). Meraviglia, passione, eros del pensare che fa uscire il pensiero dal dominio dell’unilateralità della ragione tutta dispiegata, riportandolo al “principio”, all’origine costante e perenne del filosofare, là dove la frattura fra passione e ragione non si è consumata e le passioni rivendicano le loro…ragioni.







    **Relazione tenuta al convegno:

    LIMITI E LIBERTA’ NELL’ORIZZONTE ESISTENZIALE -IL RUOLO DELLE EMOZIONI

    CNR – Roma, 14.10.2005





    --------------------------------------------------------------------------------

    [1] A. PONSETTO; La modernità e la sua genesi, Milella, Lecce 1992, p. 264.

    [2] R. DE MONTICELLI; Il problema fondamentale di un etica del sentire, in: “Fenomenologia e società”, 3/2003, p. 7.

    [3] Ibidem.

    [4] R. Guardini, Virtù, Morcelliana, Brescia 1997.

    [5] M. SCHELER, Il valore della vita emotiva, Guerini, Milano 1999, p. 172.

    [6] TH. W. ADORNO, Erziehung nach Auschwitz, in: Gesammelte Schriften, Frankfurt a. M. 10.2, pp. 674 e seg., p. 359 – 355.

    [7] Vedere la critica al “pilota automatico” in: R. Nozick, The Examined Life. Philosophical Meditation, New York 1989, p. 11.

    [8] Cfr. R. BODEI, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 26-27

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    Merita di tornare su. Il pezzo di Nietzsche in particolare.

 

 
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