Originariamente Scritto da
Eridano
Una delle ragioni “forti” che permettono di
identificare la Padania all’interno dello Stato
italiano (ma anche in aree confinanti appartenenti
a Stati stranieri) è la lingua.
Si tratta di una ragione “formidabile” anche se,
purtroppo, poco conosciuta e ancora meno rivendicata
perfino da molti di coloro che si dichiarano
padanisti. Eppure resta, insieme al territorio
e alla cultura (che è del resto strettamente
legata alla lingua), una caratteristica fondamentale
e ineliminabile dell’essere padani: il motivo
principale dell’affinità tra padani e padani e
della differenza tra i padani e gli altri popoli che
li circondano. E’ comunque una nozione che va
chiarita.
La lingua padana è una comunità di dialetti
priva di regolamentazione normativa (koiné, lingua
standard) anche se non è certamente l’unica
delle lingue viventi che versa in queste condizioni:
lo era il catalano prima del 1932; il basco prima
del 1982; lo è il curdo ancora oggi. È però
quella i cui attuali fruitori stentano di più a riconoscere
l’unità profonda. Ciò si deve soprattutto
a ragioni storiche e politiche ma anche a una
mancanza di informazione linguistica generale
che coinvolge la scuola e i mass media della stessa
Padania, totalmente tributaria, in questo settore,
dello Stato italiano. Nessun intellettuale padano
ha supplito a questa carenza dando origine
a un movimento di rivendicazione specifica, come
è invece accaduto ad altre “nazioni” prive di
Stato proprio.
Si può così dire che il padano è la lingua con il
minor grado di consapevolezza culturale espresso
finora dai suoi locutori: al punto di mostrarsi
priva, lungo quasi tutto l’arco della sua storia, a
eccezione di un momento felice verificatosi a cavallo
tra il XIII e il XIV secolo, di qualsiasi soprassalto
di coscienza linguistica.
Ciò non toglie che, da un punto di vista glottologico,
questo idioma mostri una propria identità
davvero spiccata. Purtroppo, astraendo da
motivazioni linguistiche, è difficile rendersi conto
di questa identità. Per farlo è infatti necessario
un addestramento culturale, lo ripetiamo, che la
scuola italiana non ha mai predisposto per i suoi
utenti, salvo forse gli studenti degli istituti universitari
di glottologia.
Mentre tutti i cittadini padani riconoscono a
vista la differenza tra un bassotto e un levriero,
ma hanno anche imparato che si tratta sempre di
cani e che, in quanto cani, entrambi gli animali,
pur differenti tra loro, sono collettivamente differenti
dai gatti, pochi sono coloro i quali riconoscono
a orecchio che gesa, cesa e cisa sono sì
parole in apparenza (anche se poco) diverse tra
loro ma sono anche parole in fondo assai simili:
e che divergono assai di più, e nello stesso modo,
dalla parola chiesa per un elemento particolare
che le accomuna: la palatizzazione del CL- latino
di ecclesia, parola dalla quale derivano. Questo
tratto è condiviso soltanto dalle parlate padane.
Non vogliamo addentrarci in questioni tecniche.
Vogliamo soltanto far presente che l’unità
glottologica tra parlate in apparenza diverse non
significa che queste parlate debbano essere identiche
(altrimenti sarebbero una parlata sola): significa
soltanto che devono condividere un certo
numero di tratti comuni che non appaiono in altre
parlate o gruppi di parlate.
Quando si dice che tutti gli uomini sono anatomicamente
uguali non significa che debbano
essere identici ma che condividono un certo numero
di tratti comuni che li identificano come
uomini e non come cani oppure gatti. Le differenze
non sono soltanto superficiali e tutte immediatamente
percettibili. Tornando alle differenze
tra gli uomini, per valutarle correttamente
occorre anche un esame più profondo quale può
offrire, ad esempio, la genetica.
I gemelli omozigoti, i più simili in apparenza
tra loro tra tutti gli uomini, al punto di essere
scambiati abitualmente l’uno per l’altro quando
li si guarda, hanno in comune soltanto l’80% del
patrimonio genetico. Figuriamoci gli altri.
Si potrebbe dire allora che le parlate padane, in
apparenza tanto superficialmente diverse, stanno
tra di loro, se non come gemelli omozigoti, perlomeno
come fratelli. Di ciò ci si rende conto,
spesso, anche a vista: ci se ne rende conto però
sempre attraverso una indagine più approfondita,
in questo caso di tipo strettamente glottologico.
L’indagine glottologica è assai meno difficile
di quella genetica e non necessita di strumenti
complessi di laboratorio. Bastano una conoscenza
linguistica di base e un registratore. E’ un po’
come la matematica elementare. Se ci si limita ai
nostri sensi non possiamo affermare che 2131 +
1750 fa 3881. Ma è facile farlo con una calcolatrice
o anche soltanto con carta e penna.
La scienza linguistica ha già provveduto a individuare
nelle varie parlate padane un gruppo linguistico
fondamentalmente omogeneo e a se
stante entro il panorama delle lingue neo-latine
o romanze: un gruppo che ha, paradossalmente,
più affinità con il francese standard (e con il
gruppo delle parlate “francesi” alle quali il dialetto
di Parigi ha fornito la base per il francese standard)
che con l’italiano. Anche se è meno diverso
dal francese che dall’italiano, è comunque diverso
anche dal francese.
Purtroppo, il padano non ha prodotto, come
ha fatto il francese e anche l’italiano, una lingua
standard dall’interno delle sue parlate: una forma
di riferimento nella quale tutte queste parlate
si riconoscono a orecchio. Ma questo complesso
di parlate esiste e di esso va tenuto conto.
Tuttavia, per afferrarne la struttura, è necessario
confrontarlo con complessi di parlate omogenei
e non soltanto con le lingue standard. Non si
sommano le mele con le pere, ma le pere con le
pere e le mele con le mele. Equivocando con i
nomi delle attuali regioni, imposte dallo Stato
italiano spesso contro la ragioni della storia e
delle identità etniche, si suole parlare di “lingua
piemontese” (o “lombarda” o “emiliana” e così
via) e per dimostrarne l’esistenza solitaria si confrontano
i suoi tratti con quelli dell’italiano standard.
Ma è un procedimento sbagliato.
Per dimostrarlo, ci riferiremo a un saggio del
professor Bruno Villata nel quale si compara il
piemontese con l’italiano per dimostrare che è
un’altra lingua. Ma i suoi argomenti non valgono
se si compara il piemontese, ad esempio, con il
lombardo.
Il piemontese ha il suono s-è che l’italiano non
ha: s-èiamé (esclamare). Ma questo suono lo ha
anche il lombardo: s-èena (schiena); il ligure:
s-èiavitü (schiavitù); il veneto: s-èiao (schiavo). Il
piemontese ha il suono n- (faucale): lün-a (luna);
ma lo ha anche il ligure: San-a (Savona). Il piemontese,
anziché io, usa il pronome oggetto mi:
ma tutte (ripeto: tutte) le parlate padane (e soltanto
esse) fanno lo stesso (se non usano mi usano
me, che è la stessa cosa).
L’elenco potrebbe continuare. Risulta tuttavia
già evidente che non si tratta di tratti relativi al
solo piemontese ma di tratti condivisi da tutte le
parlate padane, cioè da tutte le mele del paniere
(che possono essere di tipo diverso: golden, regina,
delizía, boskoop, grammy-smith ma sono
sempre mele e nessuna di loro è una pera): non
si può prendere una sola mela (una golden) e
confrontarla con una pera astratta (costruita in
base a caratteri comuni alle varie qualità di pere)
per dimostrare che quella mela fa categoria merceologica
a sé, prescindendo dalle altre mele.
All’obiezione che una stessa forma linguistica
può apparire diversa a seconda che si tratti di
piemontese o di lombardo, risponderemo che la
stessa cosa accade anche all’interno del solo piemontese:
a Torino si dice anduma (andiamo) ma
nel Canavese si dice anden (a Milano, andem). A
Torino si dice lait (latte) ma nel Monferrato laè
(come a Milano).
Se dai singoli suoni, dalle singole parole e dalle
singole forme morfologiche si passa alla sintassi
(la vera “struttura” di una lingua) ci si accorge
che essa è assolutamente identica in tutte le parlate
padane: è la filigrana delle banconote che distingue
quelle vere da quelle false più delle sfumature
di colore.
Detto questo, non ci resta che augurare ai padani
di riconoscere finalmente l’esistenza della
loro lingua, di là dalle singole varianti locali, e di
riconoscersi in essa, e non soltanto nel desiderio,
magari legittimo, di non separarsi dalle troppe
banconote pretese dal fisco dello Stato italiano.
Sergio Salvi