Quando si valuta ciò che il mondo deve alla civiltà italiana, si resta sbalorditi. Non per nulla Victor Hugo fu costretto a dire: «Il piú alto delitto che possa fare un uomo è di attentare all'Italia». Quando un'occasione porta a parlare di qualche paese estero, si parla immediatamente del genio italiano. Durante la breve, travolgente guerra di Polonia del settembre 1939-40, i giornali, descrivendo Varsavia o Cracovia, descrivevano una pagina di storia dell'arte italiana. E cosí per tutti i Paesi: dalle rovine romane dell'Inghilterra alle torri genovesi sul Mar Nero, dai grandi navigatori dell'Atlantico e del Pacifico ai musei di Parigi o di Leningrado, dalle avventure di Garibaldi nel Sud America a quelle di Nullo per la libertà della Polonia, ai monumenti di Lisbona o di Monaco: dovunque il genio italiano è presente. Ma i lavoratori pensano all'Estero non solo per le glorie che vi ha lasciato in tutti i secoli la civiltà nostra: vi pensano per il lavoro che vi ha profuso la loro fatica, la dura fatica dei muscoli, costruttrice di opere gigantesche cui debbono molto spesso benessere e sviluppo intere regioni degli Stati Uniti, del Sud America, dell'Egitto, dell'Iran, della Francia, del Belgio!

Questa dura fatica, una volta, si chiamava «emigrazione». Oggi la fatica è sempre dura, perché questo è il destino di ogni vero lavoro, ma è accompagnata dalla speranza di poterla presto esplicare all'ombra delle bandiere della Patria, nelle terre ad essa indispensabili per assicurare il lavoro a tutti i suoi figli, le materie prime all'alimentazione delle sue industrie, i mercati per collocarvi i suoi prodotti.

Che cosa fosse l'emigrazione di un tempo, ascoltiamolo in uno scritto di Arnaldo Mussolini (che la chiamava «esule Italia» sul Popolo d’Italia):

«Per alcuni decenni si sono rovesciati sulle coste orientali dell'Atlantico dei milioni di Italiani (fior fiore del nostro popolo) attrezzati ed agguerriti per il lavoro piú aspro e duro. Lontani, senza ausilii, senza aiuti, molti di questi Italiani sono andati dispersi, molti altri sono caduti vittime delle febbri e del tracoma, altri ancora hanno fecondato la terra su la quale elementi non nostri hanno costruito fortune economiche e politiche. Vi sono delle classi dirigenti esotiche che devono la loro situazione di privilegio al lavoro oscuro, tenace, profondo, inuguagliabile della gente nostra. E nessuna democrazia-sociale ha mai avvertito l'assurdo dell'ammissione della lotta fra le classi d'uno stesso popolo in confronto all'agnosticismo che si pretende dai popoli meno fortunati nei riguardi di chi li sfrutta. L'ultima ondata emigratoria risale al dopo-guerra e fu indirizzata verso la Francia. La vicina Repubblica che ebbe dai Tedeschi quattordici dipartimenti invasi, e dei piú fiorenti, la stessa Repubblica che ebbe verso il Sud-Ovest un pauroso spopolamento delle sue campagne, si valse del nostro momentaneo disagio ed incanalò gli elementi migliori dell'Italia Settentrionale verso le sue regioni. Abbiamo perduto circa un milione di Italiani attrezzati alla fatica costruttiva ed al lavoro piú fecondo. Era tempo che in materia emigratoria fosse pronunziata una parola alta e umana. Questa parola, precisa, convincente, soffusa di viva solidarietà nazionale, è stata detta dal Primo Ministro».

Il Primo Ministro, il Duce, aveva poco prima ordinato: «Deve essere sopra tutto desiderio e vanto dei Prefetti, dei Podestà, dei Fasci, delle Organizzazioni sindacali, ciascuno nell'ambito della propria competenza e della propria zona, promuovere le iniziative locali, eccitare la produzione, intensificare la loro opera per dare a tutti i cittadini lavoro utile e mezzi sufficienti di vita senza che la necessità li costringa a ricercarli in terra straniera».

Era questa la soluzione realistica, pratica, indiscutibile del problema emigratorio, nel quadro della solidarietà nazionale, allora in attesa che fosse precisata dal sistema corporativo e resa meglio attuabile dall'espansione imperiale.

Arnaldo Mussolini, con spirito che sembra davvero profetico, proseguiva nel mirabile commento: «Chi sa che un giorno non si compia il miracolo! Che l'Italia nuova e concorde, con una classe dirigente degna dei tempi, in una fioritura di opere concrete, dopo aver chiuso la parentesi emigratoria e dissanguatrice, non chiami a sé i suoi figli lontani, coloro che furono tormentati dalle necessità, abbandonati dalla fortuna ai bordi delle strade infinite dei due mondi!».

La relativa relazione di Galeazzo Ciano, su questo argomento, dimostra come il voto di Arnaldo diventi a mano a mano realtà.

Erano finiti, sepolti dalla parola del Duce, i beati tempi nei quali le classi dirigenti giustificavano l'emigrazione come un «male necessario», come una «valvola di sicurezza». Facevano il conto delle rimesse degli emigranti, della spinta ad incivilire villaggi e borghi che veniva dai ricchi reduci; ma dimenticavano di fare il conto dei valori «umani» per sempre perduti e che sommavano, per non parlare che di cifre, a decine di miliardi di lire. E nessuno meglio di noi può capirlo mentre assistiamo al graduale passaggio dalla civiltà dell'oro alla civiltà del lavoro.

Ma v'era in peggio la perdita di milioni di figli nostri, come tali: di tutti quelli che dimenticavano di essere Italiani e s'imbastardivano in un meticciato morale e culturale che ne faceva gli ospiti «indesiderabili» di tutti i Paesi.

I poteri pubblici se ne disinteressavano. La legge fondamentale del 1888, dopo il primo quinquennio in cui le partenze avevano raggiunto il milione, fu cosí giudicata in una relazione parlamentare del 1901: «Errammo tutti nel 1888; e nulla abbiamo allora compreso che occorrevano provvedimenti di tutela economica e sociale, non soltanto o principalmente di polizia».

Ma lo Stato liberale, quando andava verso il popolo, non sapeva prendere altro volto che quello della polizia.

Poi si aggiunsero nel dopoguerra le ostilità preconcette delle Democrazie, che vedevano nel lavoratore Italiano l'ambasciatore di un popolo deciso a produrre e a farsi valere; di un popolo che il 23 marzo 1919 aveva affermato, costituendo i Fasci di combattimento, che la prima necessità di una nazione non suicida era l'espansione imperiale. Ad una ad una le porte americane, australiane, ecc., tenute da Governi laburisti, si chiusero. Perfino la spopolata Norvegia impose nel 1927 un governativo «permesso di lavoro» per chiunque bussava al suo uscio cercando di guadagnarsi la vita, lassú facile per tutti.

Ma Benito Mussolini raccolse la sfida lanciata dal mondo plutocratico al lavoro italiano e cominciò proprio nel 1927 col cambiare il nome del Commissariato dell'Emigrazione in quello di Direzione Generale degli Italiani all'Estero. Poi al lavoro italiano offrí un impero oltre mare.

Ne vediamo il risultato. Le Nazioni che pretesero di iugularci perché la nostra ricchezza di lavoro sembrava miseria, vedono il lavoro chiamarle alla resa dei conti.

I lavoratori che devono restare ancora oltre frontiera e quelli che fanno parte — con lealtà italiana — delle compagini economiche estere, portano sulle punte d'acciaio dei loro attrezzi l'anima della Patria e l'idea della Rivoluzione Fascista.

Le portano col vaticinio di Dante che concepí l'unità d'Europa nel nome dell'Impero di Roma.

la ginevra del lavoro

S'è ricordata la definitiva uscita dell'Italia dalla Società delle Nazioni; dopo il compiuto biennio di quarantena amministrativa.

Ma bisogna anche parlare di uscita dall'Ufficio Internazionale del Lavoro che non ha minore significato storico dell'uscita dalla zona politica. Zone d'ombre l'uno e l'altra nella spaventevole eclissi delle illusioni della Grande guerra!

Eppure l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, non preoccupata dalle mire territoriali e finanziarie che si nascondevano — o, meglio, non si nascondevano affatto — nel Trattato di Versaglia, poté assumere in diritto un volto onesto e chiaro.

Mentre la Società delle Nazioni trovava il suo atto di nascita nel famoso «preambolo» del Trattato, l'Organizzazione del Lavoro sembrava una poderosa e perfetta macchina per l'applicazione degli articoli 387-427, che compongono quella che fu pomposamente detta la Carta del Lavoro internazionale.

Rispettabili i principii statuiti: il lavoro che assume un concetto comune agli operai, agli imprenditori, agli agricoltori, agli intellettuali; il lavoro che non va considerato una merce e che deve ricevere una retribuzione equa; il lavoro che va controllato e tutelato dallo Stato... Non c'è proposizione, non ostante il sapore generico e incerto di tutta la «Carta», che non avrebbe potuto essere sottoscritta da delegati italiani, fascisti avanti lettera.

Si riconosceva perfino il diritto di associazione ai lavoratori, fino al giorno avanti associati in battaglioni e in batterie per ricostruire il mondo.

Il piú bel documento uscito dalla Reggia di Versaglia fu certamente questa lunga serie di 40 articoli. Non importa se essi provavano che nel 1919 gli operai delle Democrazie non erano ancora liberi di associarsi (le leggi francesi del XX secolo erano in materia piú retrive dello Statuto di Carlo Alberto); e che, dopo un secolo e mezzo di umanitarismo, lo Stato per la prima volta si dichiarava obbligato a vedere un po' addentro nelle faccende igieniche e morali del lavoro.

Era molto aver riconosciuto tutto ciò; ma era niente perché non partendo da un principio e non avendo di mira una mèta, tutta l'azione del costituendo UIL o, come si dice nella lingua ufficiale di Ginevra, del BIT, doveva limitarsi a tranquillizzare i padroni della Società delle Nazioni, che il progresso sociale da realizzare attraverso i postulati della «Gran Carta» non avrebbero dato fastidio a nessuno.

Una prova? La prima Conferenza internazionale del Lavoro, radunatasi a Washington secondo lo Statuto del BIT, ha compiuto da poco i vent'anni. Si votarono le «otto ore», sogno di un cinquantennio di predicazione socialista; ma quando il Fascismo andò al potere e le proclamò legge dello Stato si accorse di essere, dopo tre anni, in anticipo sulle Democrazie. I delegati operai di tutto il mondo furono interrogati sulla scottante questione delle materie prime, presupposto del lavoro per tutti; ma i rappresentanti operai dei Paesi ricchi giudicarono, in ammirevole accordo con i detentori capitalisti dei tesori mondiali, che non c'era nulla da fare.

Bastò quel primo esperimento internazionale a far capire che il BIT non sarebbe stato altro che la camera di servizio della Società delle Nazioni. Vi avrebbe compiuto lo stesso ufficio che i partiti socialisti compivano verso i parlamenti.

Che il BIT non fosse destinato ad altro lo prova l'articolo 392 del Trattato di Versaglia: «L'Ufficio Internazionale del Lavoro sarà stabilito nella sede della Società delle Nazioni e farà parte dell'insieme delle istituzioni della Società».

Ma non basta. Per paura che i delegati operai prendessero la mano, l'articolo 387 avvertí: «I membri originari della Società delle Nazioni saranno membri originari dell'Organizzazione del Lavoro e, d'ora innanzi, la qualità di membri della Società delle Nazioni avrà per conseguenza quella di membro di detta Organizzazione».

L'asservimento dell'Ufficio del Lavoro alla Società, mentre ne impediva qualsiasi autonomo sviluppo, trasportava nel nuovo organismo quel politicantismo che aveva aggiogato e snaturato i movimenti operai nell'ambito delle diverse Nazioni.

E difatti il BIT agí e manovrò come un parlamento, illudendosi di battere le diverse Internazionali col gioco dei voti e delle maggioranze, aumentando i posti e i poteri della Seconda che era una fertile riserva demo-massonica. Quando sorsero i movimenti nazionali operai (primo il Fascista), evidentemente piú pericolosi delle Internazionali rosse, cercò addirittura di escluderli dal Consiglio di Amministrazione.

Il Fascismo operando in una sola Nazione, idealmente ingrandita ai confini dell'umana civiltà, dimostrò sperimentalmente che cosa fosse una Carta del Lavoro. Partí da principii che il patto del BIT aveva appena adombrato; non solo il lavoro era una cosa importante, ma la piú importante; non solo lo Stato doveva vigilare sulle condizioni del Lavoro, ma le sue sorti venivano immedesimate con la salute della razza, con il benessere del popolo, con le fortune della produzione e della Nazione.

Con la Società delle Nazioni v'era l'incompatibilità tra offesi e offensori; ma con il BIT v'era l'incompatibilità piú grave che è tra l'essere e il parere, tra il progettare e il volere. Quando ce ne siamo andati, il BIT deve aver tirato un sospiro di sollievo.

Dell'incompatibilità c'eravamo accorti da un pezzo e l'avevamo considerata con rammarico. Se c'era un terreno d'intesa tra gli Stati, questo era certamente nella giustizia sociale d'accordo col fenomeno produttivo. Ma Società delle Nazioni e BIT in linea sociale non fecero che alimentare la resistenza delle plebi grasse alle rivendicazioni dei popoli magri: una resistenza che prese anche l'aspetto strano di una rivolta, quasi che improvvisamente si fossero rovesciati i criteri della giustizia.

Il BIT volle essere parlamentare e politico anziché sindacale. Da un secolo Proudhon aveva visto nel socialismo (come politica) il nemico dell'iniziativa e dell'autonomia delle classi lavoratrici ed aveva visto giusto, perché tutto il dramma sociale prefascista (in Italia e fuori) fu tutto in quell'interdipendenza. La quale, per di piú, a Ginevra, serviva la peggiore delle politiche.

La Francia, che adoperava la Società delle Nazioni per crearsi una clientela effimera di Stati vassalli, volle adoperare il BIT per assicurarsi una specie di egemonia sociale in Europa, che avrebbe dovuto confermare l'egemonia politica. Non doveva in tutto soppiantare la Germania? La Germania, dopo le vittorie prussiane del 1870-71, aveva dettato legge anche in fatto di socialismo d'anteguerra; Augusto Bebel chiarí, al momento della crisi suprema, che anche il socialismo serviva a marciare.

Cosí il BIT apparve alle grandi Democrazie (lí era la Francia, a rappresentarle) uno strumento di dominio attraverso i movimenti sociali. La mano fu rifiutata ai lavoratori italiani, e i loro interessi, le loro aspirazioni, il loro pensiero furono considerati con un solo metro: quello del rancore politico. Per vincerli, i dirigenti borghesi del BIT si fecero perfino filocomunisti; anche piú sfacciatamente della Società delle Nazioni e dei suoi fronti popolari, perché meno tenuti a certi rispetti politici.

Questa perfetta saldatura ideologica e organizzativa tra Società e BIT fu una fortuna, perché ci consentí di liberarci da entrambi con la procedura semplicissima dell'incontro di volontà fra Duce e Popolo sull'immenso arengo della Nazione, in Piazza Venezia: democrazia totalitaria e integrale.

l'asse della nuova storia

Che cosa sia l'Asse Roma-Berlino dicono i fatti grandiosi che capovolgono la storia di Europa. Ma un punto è bene fissare, in un momento di sosta: che l'Asse è nato tra le masse e in loro presenza.

Mussolini, nel discorso del Campo di Maggio, ne fissò l'origine all'autunno 1935, quando venti milioni d'Italiani scesero in piazza per proclamare la guerra all'Etiopia e al Sanzionismo.

Il primo atto dell'Asse fu compiuto il 26 luglio 1936 dalla Germania, sopprimendo la Legazione in Addis Abeba, cioè riconoscendo l'Impero Italiano.

Pochi mesi dopo, Hitler fissava il valore ideale dell'Asse, rivolgendosi il 10 settembre 1936 ai delegati fascisti intervenuti al Congresso dell'Onore in Norimberga. «Noi salutiamo — egli disse — i delegati dei popoli che vogliono costituire una grande solidarietà europea...».

Era la prima volta che un'intesa diplomatica nasceva non da un crogiolo di interessi, ma da una fucina di idealità che andavano dal clima ardente della grande impresa etiopica alla lotta contro ideologie e supremazie estranee all'indole e al desiderio vitale delle due Nazioni.

Toccò al Duce, di fronte alla storia, di conferire all'intesa il titolo di Asse, che dette a tutti i popoli il concetto esatto e concreto di che si trattava. Nulla di esclusivo, di segreto, di diabolico: nato con la conquista di un Impero di lavoratori, l'Asse si proponeva di attirare, non di escludere, altri popoli di buona volontà. L'anima delle masse vibrava in esso: nulla delle tradizionali alleanze tante volte ignorate dai popoli in nome dei quali le... democrazie le concludono; nulla dei tradizionali «patti» che valgono soltanto se c'è la volontà interessata di osservarli. Il Duce trovò questo nome cosí nuovo e originale negli annali internazionali, il 2 novembre 1936-Anno XIV, nel famoso discorso al popolo di Milano. «Queste intese che sono state consacrate in appositi verbali, debitamente firmati, questa verticale Berlino-Roma, non è un diaframma, è piuttosto un asse attorno al quale possono collaborare tutti gli Stati Europei animati da volontà di collaborazione e di pace».

Quale semplicità di espressione, quale umanità insolita nel prospettare un disegno internazionale! Il Duce stesso sembra esitare nel definire l'accostamento senza precedenti nella storia di qualsiasi popolo: «È piuttosto un asse».

Poco piú di due mesi dopo, la sostanza vera della marcia ideale, dei due popoli, è chiarissima al suo spirito creatore: Egli dice a Göring che lo visita il 18 gennaio 1937: «Abbiamo fatto un gran passo in avanti. Abbiamo saldato l'Asse Roma-Berlino».

È forse questo l'atto di battesimo del nome storico, che assume la sua metafora dalla metallurgia, la forma piú potente del lavoro, come assume dalla rivoluzione il suo contenuto ribelle alle formule della vecchia diplomazia.

Ma che vi è dunque di nuovo nel rapporto internazionale dell'Asse?

Vi è un elemento ignoto a tutte le diplomazie del passato: il popolo.

Nel famoso discorso del Campo di Maggio, Mussolini qualificò l'essenza popolare degli ordinamenti italiani e tedeschi: «Nessun Regime in nessuna patte del mondo ha i consensi che hanno i Regimi di Germania e d'Italia: le piú grandi e le piú autentiche democrazie esistenti attualmente nel mondo sono la Italiana e la Tedesca; altrove, sotto il coperchio degli immortali principii, la politica è dominata dalla potenza del denaro, del capitale, delle associazioni segrete, dei gruppi politici concorrenti».

Sgomberiamo non soltanto dall'Italia e dalla Germania, ma anche da altre Nazioni le scorie di questi tristi prodotti, e ritroveremo i popoli con le loro virtú e i loro difetti, con le loro differenze storiche e razziali, ma, soprattutto, con la loro sincerità, con la loro anima vera, alla quale non si getta mai invano l'appello della giustizia.

È quest'anima, questa volontà popolare che Mussolini e Hitler sono riusciti a mettere alla base dei loro Regimi e di cui si sono fatti interpreti; se vi è una dittatura, essa è di questo genere.

Come risponda il popolo al sistema totalitario e autoritario (ricordare la grande intuizione di Mazzini: «Il mondo ha sete di autorità»), si può vedere dall'intensa circolazione delle masse nei due regimi dell'Asse.

Basta osservare i movimenti totalitari dell'«Opera Nazionale Dopolavoro» italiana del «Gioia e Lavoro» germanico.

Le masse circolano potentemente anche nei Partiti, nel Fronte del Lavoro, nei Sindacati; anzi è proprio in questi aspetti dei Regimi che le antiche, caotiche «folle» delle democrazie e dei socialismi si sono rapidamente trasformate in «masse», cioè in falangi ordinate e consapevoli che uniscono al peso del numero la forza della disciplina.

Ma ci richiamiamo ai movimenti dopolavoristici dei due Paesi perché da essi emergono le caratteristiche salienti dell'attaccamento delle masse ai Regimi.

Il «Dopolavoro», nella pesante, ma gioiosa fatica dei lavoratori e dei produttori, rappresenta quello che è il «rompete le righe» dopo le dure prove delle armi. È allora che si può osservare e capire il comportamento vero delle masse, l'elevatezza del loro spirito, la profondità dei loro sentimenti.

Si può star certi che gente piegata sotto il peso di un lavoro sgradito, o sfiduciata verso ordinamenti e capi, resterà insensibile ai richiami di movimenti sociali e totalitari che hanno la loro ragion d'essere nella cultura, nell'arte, nella musica, nelle manifestazioni sportive, escursionistiche folcloristiche Sui quali movimenti domina costantemente il motivo politico e sindacale che ne chiarisce il fine ultimo.

Ebbene: è su questi consensi che nessun Regime del passato aveva mai saputo e potuto cercare, che il Fascismo e il Nazionalsocialismo hanno imperniato l'Asse.

È questo il fatto nuovo di una diplomazia mai ancora praticata, una diplomazia che ben può definirsi di popolo.

Ecco un'altra travolgente forza spirituale che si aggiunge alla forza delle armi.

la marcia di roma

Il fatto piú significativo di questo inizio dell'Anno XIX è l'immedesimarsi della Marcia su Roma con la Marcia del Fascismo nel mondo. Non è lontana l'ora in cui celebreremo, insieme con la Marcia su Roma, la Marcia di Roma.

Ed è sempre la Roma antica dei legionari e dei lavoratori, fondatori di strade, di città, di bonifiche, di progresso, quale non si scorgeva che intorno al Mediterraneo, sí da farne un mondo a sé tra immensi territori in arretrato di mille anni.

Noi registriamo le vittorie che ci danno il dominio marittimo ed aereo del Mare Nostro, quelle che aprono il varco al possesso di terre che videro opere e audacie di genti italiane, con la stessa visione che ne avevano le famiglie romane, che attendevano nel Foro l'arrivo dei corrieri di Paolo Emilio dalla Grecia, di Scipione dall'Africa, di Cesare dalla Gallia, di Traiano dalla Dacia. Si attendeva, anche allora, non tanto la notizia che una provincia era nostra, ma che la barbarie era stata allontanata dai campi industriali e dai fiorenti commerci dei quali vivevano e prosperavano le genti d'Italia, allora la regione dell'Impero piú folta di popolo.

Anche oggi, anzi dal 1935, il popolo italiano attende, dalla sua resistenza, dalla sua fede, dalle vittorie dei suoi figli e, soprattutto, dalla guida del suo Capo, l'ordine di marcia del lavoro, dopo l'ordine di marcia delle armi.

Anche oggi attende l'espulsione della barbarie (anche se coperta d'oro e di gemme e unta dall'Arcivescovo di Canterbury) dai confini logici e naturali d'Europa, dalla nuova Europa di Mussolini e di Hitler.

Si attende un'Era secolare, forse millenaria, di lavoro e di assetto sociale, cosí profondamente umana che mai piú saranno possibili quelle tragiche contraddizioni sotto le quali è caduta la civiltà che stiamo liquidando: la miseria in mezzo all'abbondanza, la divisione di una stessa umanità in popoli ricchi e in popoli poveri, l'organizzazione di una società internazionale nella quale era possibile qualsiasi turpitudine a danno di paesi meno forti e meno preparati, sotto il manto della giustizia, dell'equità, dell'ideale ecc. Peggio ancora: era possibile escludere dal banchetto della vita — che è, dopotutto, una mensa sempre sacra, ma sempre dura — popoli maestri per civiltà e per benemerenze: bastava non far parte di una ristrettissima oligarchia finanziaria e ideologica!

Ebbene: la marcia della riscossa contro tutto ciò fu iniziata dal Fascismo con l'abbattimento del Regime liberale italiano — pallida scimmiottatura di quello britannico — diciott'anni or sono. Era fatalmente logico che, ad un certo punto, anche il modello dovesse essere assalito; o, meglio, che la Gran Bretagna comprendesse che il Fascismo avrebbe un giorno o l'altro travolto tutto il sistema mondiale che s'impernia su di essa. Di qui la sua implacabile, ma logica, lotta contro l'Italia.

Ad un sol patto la Marcia su Roma non sarebbe diventata un evento internazionale e universale. Se, cioè, il Fascismo avesse perduto all'interno la sua forza rivoluzionaria, la sua caratteristica di rivoluzione continua, decisamente puntata verso le realizzazioni mussoliniane.

In certi climi e certe circostanze non è però mancato in Italia il tentativo e la possibilità che il Fascismo divenisse un'altra cosa. Ed è stato tutte le volte che i pretesi dottrinari cercavano d'innestare il sistema corporativo nell'economia pura, o altrimenti detta; tutte le volte che l'eredità liberale ritornava nei costumi e negli ordinamenti; tutte le volte che l'intransigenza delle teorie, ma piú ancora quella dello spirito, si rallentava; tutte le volte che le anime pavide facevano sentire i loro lamenti ai «tireremo diritto» di Mussolini, o chiudevano gli occhi alla luce ritornata sui colli fatali di Roma! Ma queste forze negative o corrosive finirono per essere eliminate: lo dimostra il superbo totalitario spettacolo della nostra Patria in armi e lo dimostra la confidenza con la quale il Partito apre le porte a falangi di elementi giovani, combattentistici, o comunque benemeriti della Nazione: anche questa è una prosecuzione della marcia dei trecentomila moschetti del 1922. Anche questa è una prova di totale concordia di pensieri, di totale sviluppo della Rivoluzione in tutti i settori: tanto piú estesa, quanto piú intransigente.

Un ventennio di titaniche prove collaudano la forza espansionistica del Fascismo, la cui origine è pertanto da porsi alla Marcia su Roma, quando fu chiaro che il Fascismo non muoveva alla conquista di un Governo, ma all'affermazione di un'idea.

Né, oggi, la Marcia di Roma ha diverso significato; ecco perché è cosí facile parlare agli Italiani degli scopi della guerra dell'Asse: sono gli stessi scopi di giustizia sociale, nazionale e internazionale, del 1919-1922; non si tratta di sottomettere in stile democratico altre Nazioni, ma di accorciare le distanze tra i popoli, perché i popoli possano accorciarle fra le categorie.

Ognuno sa che la guerra Europea deve necessariamente sboccare a due risultati: o un mostruoso accrescimento della potenza dei mezzi economici a disposizione delle oligarchie democratiche, o una nuova organizzazione delle collettività nazionali, mentre Italia e Germania puntano ogni giorno piú decisamente sulle direttrici di marcia segnate dal genio dei loro Capi.

Non invano dieci anni or sono il Duce affermava che nel 1940 l'Europa sarebbe stata fascista o fascistizzata. Oggi, le sue previsioni si sono avverate. Tutti i Fascisti, tutti gli Italiani sentono l'onore e la fierezza di appartenere alla generazione che ha avuto la fortuna di assistere e partecipare allo svolgimento dei grandi eventi di cui la Marcia su Roma fu l'avanguardia.

Un'avanguardia che divenne il ferreo strumento col quale Mussolini scavò il solco di una nuova civiltà. Mussolini sapeva fin d'allora che cosa voleva, come provano luminosamente le Sue direttive d'ante-Marcia nelle quali sfavilla cosí di frequente il concetto d'impero e sempre il concetto della giustizia sociale. Ma per un motivo semplicissimo: che nella dottrina fascista del Duce l'impero non è che l'ambiente indispensabile perché si attui la giustizia sociale che è prima di tutto giustizia internazionale, cioè possibilità di vita, di lavoro, di sviluppo per i popoli di buona volontà, per il popolo italiano innanzi tutto. Il destino del popolo italiano, cosí indissolubilmente legato a quello di Roma, è necessariamente imperiale.

Ma che cosa sia l'impero di Roma dicono millenni di civiltà e lo dice l'immutabile senso di giustizia che anima l'Italia, anche nel momento in cui parlano le armi.

Il popolo italiano sta vivendo la sua grande giornata: la vive con la dignità, la fermezza, la fede, la speranza e il valore che gli ispirano il suo grande passato, ma piú ancora l'insegnamento, la guida, il genio del Duce.

Se nell'autunno del 1922, dinanzi ai marciatori decisi ad aprire la prima breccia nel vecchio mondo, si poteva dire: ecco le avanguardie fasciste, dinanzi allo spettacolo odierno si deve dire: ecco il popolo di Mussolini.