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    Predefinito Montecassino: scatenate i marocchini!

    Montecassino: scatenate i marocchini!


    Nella primavera del 1944, gli anglo-americani, bloccati ad Anzio e a Cassino dall'accanita difesa tedesca, decisero di aggirare l'ostacolo chiedendo al comandante francese Alphonse Juin di espugnare la dorsale montuosa degli Aurunci, prendendo alle spalle il dispositivo di difesa germanico. Il 12 maggio l'offensiva francese fu lanciata in direzione del monte Faito e del monte Maio, il cui controllo consentiva l'accesso alla catena dei monti Ausoni. Grazie all'attacco condotto attraverso località assai impervie, in due giorni le truppe marocchine inquadrate nell'esercito francese(i cosiddetti goumier) aprirono ai mezzi corazzati la via per Ceprano e Frosinone e risalirono, nella settimana successiva, la provincia fino alla valle dell'Amasene e del Sacco, costringendo i tedeschi a una rovinosa ritirata per evitare l'accerchiamento. Durante la loro travolgente avanzata, per circa due settimane, dal 15 maggio all'inizio di giugno, quasi dimezzate dalla resistenza tedesca (alla fine della battaglia i goumier erano ridotti a circa 7 mila), le truppe francesi si abbandonarono a una serie impressionante di saccheggi, omicidi e stupri in tutti i paesi conquistati, soprattutto contro gruppi ristretti di persone o individui isolati, finché non fu loro ordinato di arrestare la marcia a Valmontone. Il carattere sistematico delle violenze e la sostanziale acquiescenza di comandanti e ufficiali diffusero la convinzione della libertà di azione concessa ai soldati coloniali contro i civili, nonostante le sanzioni previste nei codici militari per i reati citati. In un memorandum della presidenza del consiglio, l'atteggiamento degli ufficiali francesi era duramente stigmatizzato perché «lungi dall'intervenire e dal reprimere tali crimini hanno invece infierito contro la popolazione civile che cercava di opporvisi», segnalando come le truppe marocchine fossero state reclutate «mediante un patto che accorda loro il diritto di preda e di saccheggio». «Gli ufficiali lasciano ai marocchini una discreta libertà di azione» e «nella generalità dei casi essi preferiscono ignorare e da qualcuno è stato anche detto che agli irregolari marocchini spetta il diritto di preda».

    UNA NOTA DEL 25 GIUGNO DEL 1944 del comando generale dell'Arma dei carabinieri dell'Italia liberata alla presidenza del consiglio, segnalava nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano,Supino, Morolo e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno), 418 violenze sessuali, di cui 3 su uomini, 29 omicidi, 517 furti compiuti da soldati marocchini, i quali «infuriarono contro quelle popolazioni terrorizzandole. Numerosissime donne, ragazze e bambine (...) vennero violentate, spesso ripetutamente, da soldati in preda a sfrenata esaltazione sessuale e sadica, che molte volte costrinsero con la forza i genitori e i mariti ad assistere a tale scempio. Sempre a opera dei soldati marocchini vennero rapinati innumerevoli cittadini di tutti i loro averi e del bestiame. Numerose abitazioni vennero saccheggiate e spesso devastate ed incendiate». L'impatto per la popolazione civile fu quindi traumatico. L'ondata di violenza generalizzata e sottratta a ogni controllo dei tanto attesi liberatori gettò gli abitanti in uno stato di prostrazione profonda, accentuando il senso di sfiducia verso ogni realtà esterna. La liberazione tanto agognata si trasformò in un incubo di violenza sfrenata e incontrollata. L'inatteso seguito degli avvenimenti è rimasto impresso a caratteri assai vividi nella memoria dei protagonisti. «Li portettero qua a migliaia. Se vedevano scegnere dalla montagna... da luntano erano come alle furmiche», ricorda Concetta C. «Ma fuiette nu passaggio, in tre iuorni, facettero l'inferno. Erano na razzaccia brutta e spuorca. C'avevano gli 'recchini agliu nase, certe vesti longhe (...). Pe tutta la muntagna se sentevano strilli e lamienti....». Giovannina M, un'altra testimone intervistata, dei marocchini dice: «Nui aspettavamo gli liberatori, arrivettero chigli de n'auta razza. Erano brutti. Parevano gli diavuli. Ce rubettero chigliu poche che c'era remaste e facettero tanto scempio della populazione... C'avevano carta bianca agliu fronte e facettero tutte chelle spurcizie agli omene e alle ferrimene... una strage. Chisti marocchi erano spuorchi, come alle bestie. Erano niri con gli occie rusci, con gli 'recchini agliu nase... na montagna piena, sbucavano da tutte le parti, pigliavano tutte le donne che incuntravano e se le purtavano alla boscaglia, passavano in colonna in mieso a nui... addò vuò scappa? »Non diversa l'immagine trasmessa dalle fonti ufficiali. Una relazione del ministero degli affari esteri sottolineava che «quotidianamente, in qualunque ora del giorno e della notte» avvenivano «violazioni carnali, ferimenti e assassini, rapine e saccheggi. Molto frequenti erano stati i casi di ragazze giovanissime defiorate e violentate successivamente da in*teri gruppi di soldati in preda a fu*ria sadica», mentre «molte donne sono state trovate cadavere a seguito delle violenze patite. Molto spesso tali atrocità sono state commesse in presenza dei famigliari, ridotti prima all'impotenza, e dopo il massacro degli stessi», confermando che «i genitori, i fratelli ed i mariti» erano stati costretti «ad assistere allo scempio effettuato» e spesso «uccisi, feriti o malmenati per la resistenza fatta o la difesa esercitata allo scopo di impedire le violenze carnali». La natura selvaggia del comportamento del Cef disorientò quindi la popolazione, convinta di vedere arrivare gli americani: «Girava la voce che venivano gli americani... invece gli americani non c'hanno passato alla montagna», dice Tommaso Fortunato. La sorpresa fu totale. Gli abitanti rimasero stupiti prima dall'aspetto dei liberatori, poi, dall'inatteso dilagare delle violenze. «E' stata brutta. Per fortuna i marocchini qui non sono passati... all'inizio quando ho visto a Sora questi neri, ho detto: mamma mia guarda gli animali... lo dissi alla figlia della padrona, perché non mi rendevo conto che anche loro erano esseri umani» «Nui non lo sapevamo mica che chisti marocchini pigliavano le femmine», racconta Maria De Angelis, «nui sentivamo alluce (gridare) ma non lo sapevamo chello che era... credevamo che se stevano a porta annanze (avanti) la gente pè la ripara e loro non ce vulevano i (andare)».

    La sensazione di impotenza, la tolleranza mostrata dai comandi verso i marocchini, il riconoscimento ufficiale che pareva accompagnare la loro violenza selvaggia e indiscriminata, totalmente al di fuori di una possibile regolamentazione, sconcertò gli abitanti dei paesi liberati. L'impossibilità di una qualsiasi difesa dinanzi al dispiegarsi di una ferocia animalesca (più volte richiamata dall'accostamento dei goumier alle bestie), così feroce da fuoriuscire dalla sfera umana (indemoniati e diavoli sono infatti definiti ripetutamente i marocchini), l'abbandono subito dalle autorità alleate in cui avevano riposto tanta fiducia, segnarono in maniera indelebile la memoria dei giorni di guerra. L'immagine restituitaci, e dalla documentazione archivistica e dalle testimonianze orali, è quella di un paesaggio infernale: «I soldati marocchini che avevano bussato alla porta e che non venne aperta, abbattuta la porta stessa colpivano la Rocca con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, quindi veniva trasportata di peso a circa 30 metri dalla casa e violentata mentre il padre (...) da altri militari veniva trascinato, malmenato e legato ad un albero. Gli astanti terrorizzati non potettero arrecare nessun aiuto alla ragazza e al genitore in quanto un soldato rimase di guardia con il moschetto puntato sugli stessi». «Nui le semo incontrati per la via e pure in mieso alla strada se pigliavano le ferrimene», racconta sempre Giovannina M. «Gli omene anziani che stevano con nui non ce putevano soccorre pecche loro erano assai e ammazzavano chilli che defendevano le donne... C'erano gli graduati che erano bianchi, francisi e non gli dicevano (g)niente. lemmo (andammo) a fa commedia aglìu commando... ce dissero che per fa i (andare) annanzi gli marocchi li avevano dovuti da "carta bianca". Solo alla fine, dopo tre iuorni, gli tolsero sta carta bianca». «Arrivettero addò stavamo nui e con chisti ce stevano pure gli trancisi, chigli che gli cumannavano», aggiunge Concetta C. «E facettero stragi... lo c'avevo le mie cose, quanno se ne accurgettero gli due che m'avevano sbattuto per terra s'alluntanarono (...). Sai quante vecchie so morte per gliu dolore...». La popolazione potè soltanto nascondersi, sperando di riuscire a sfuggire ai soldati: «La notte so arrivati chisti marocchini e hanno cominciato a bussare alle case... grida dappertutto nel paese. A casa nostra non hanno fatto niente pecche la seconda notte si è ristretta tutta la famiglia... abbiamo chiuso dentro con una varrà (sbarra) dietro la porta, e così dopo tre giorni è passata la furia».
    Per il capitano Pittalli «il 90% delle persone che hanno attraversato la zona di operazione delle truppe marocchine sono state derubate di ogni loro avere, come anche molto alto è il numero delle donne violentate, e notevole anche il numero degli atti contro natura commesso a danni di uomini», ricordando che «molti casi vengono taciuti». I dati del ministero degli interni, raccolti pochi mesi dopo la liberazione, indicano in circa 3.100 le donne vittime di violenze sessuali da parte delle truppe marocchine, ma si tratta di una stima nettamente inferiore al numero reale degli abusi. La guerra moderna, tendenzialmente totale, mise quindi in comunicazione anche le piccole località periferiche con i grandi eventi,che spesso finirono per coinvolgerle. La comunità, impossibilitata a incidere sugli eventi, non riuscì a elaborare una valutazione condivisa della violenza che la travolse.
    [...]
    DUE VOLTE VITTIME
    La memoria, ricostruendo la realtà degli avvenimenti, ha assolto un compito preciso: rimuovere l'orrore assolutizzandolo. Le amministrazioni locali non sono state capaci di costruire un discorso pubblico dell'evento, rimasto vivo soltanto nel ricordo dei più anziani e delle persone colpite. Affidato ai singoli, il tentativo di spiegazione è risultato però troppo pesante. Le categorie culturali esistenti non consentivano un riassorbimento integrale della violenza sessuale nello schema dei valori tradizionalmente accettati. Le donne violentate continuarono a essere oggetto di commenti e di giudizi a bassa voce. «In paese nisciuno ne parlava in faccia, ma tutti ne parlavano sotto sotto. E venivano indicate: è stata chella, è stata chell'ata. E roppo (dopo) cheste donne qui le schifavano un po' tutti», ricorda Angela C. Le donne violentate incontrarono notevoli difficoltà a sposarsi se nubili, gli uomini tornati dalla guerra manifestarono disagio e rabbia verso le mogli violentate. I conflitti tra coniugi rimasero aspri per molto tempo; allo stesso modo fu impossibile per le vittime degli abusi sperare di potere svolgere una vita normale all'interno della realtà locale. «Lo stupro», ricorda Cinzia Venturoli, «prima di essere considerato come una ferita al corpo e all'anima della donna vittima, era vissuto come un'offesa all'onore personale e familiare,un oltraggio rivolto all'onore e ai valori della comunità. A ciò si deve aggiungere il sospetto di collusione e di una responsabilità della donna che non era riuscita a difendersi e, quindi, a evitare la violenza sessuale». Sin dall'età moderna, era andata infatti codificandosi, anche a livello giuridico, una tradizione che imponeva alla vittima dello stupro di dimostrare di avere opposto resistenza alla violenza, dando «prova di onestà (...) affinchè su di lei non ricadesse il sospetto di un consenso». Si può allora facilmente comprendere come, a livello locale, la tendenza, in ambito maschile, a fare ricadere la colpa dell'accaduto sulle donne sia stata quindi generale. Incapaci di affrontare le mille contraddizioni aperte dagli stupri nel loro sistema culturale, gli abitanti dell'area non furono in grado di rapportarsi con la loro storia più recente, preferendo oscurare la vicenda e lasciando ai singoli l'elaborazione della memoria dell'occupazione marocchina. «Era passata... era fatta... non ce se pensava chiù... non uscivi manco a mente», dice Marìanna Gorelli. Il silenzio non ha però condotto all'oblio. La memoria della guerra, in questo caso, si presenta infatti «come memoria ferita, come ricomposizione non avvenuta», come ricordo pubblicamente negato ma, nel privato, destinato a rimanere a lungo presente. Lo stupro nelle storie di vita appare una «frattura che non di rado si presenta sotto forma di opposizione radicale tra "adesso" e "prima"», diventata una sorta di spartiacque, una cesura netta e definitiva, destinata a segnare per sempre l'esistenza delle vittima. Per questo intorno a esso si è tentato generalmente di creare un vuoto, interrompendo la memoria della guerra su questo episodio.

    PER ANNA BRAVO «IL TRAUMA DELL'OFFESA, rimosso ma non medicato pur dopo tanti anni, si somma al vincolo sociale del silenzio che una donna deve serbare sugli oltraggi sessuali subiti». La violenza carnale non viene quasi mai nominata apertamente, quasi se ne portasse la responsabilità. Non essendo mai stato superato il significato sociale di vergogna a cui essa era legata nell'ambito del mondo contadino è stata riproposta infatti essenzialmente come "colpa" della vittima. Il maresciallo maggiore dei carabinieri della stazione di Pontecorvo, Angelo Frignani, nel giugno del 1947, quindi a tre anni di distanza dalle violenze dei marocchini, parlando della violenza subita da una giovane del luogo, ricorda che il «fatto (lei) per vergogna non lo rese noto a nessuno e non si fece neppure visitare». Del resto, nello stesso contesto culturale, la sessualità in quanto tale era recepita come elemento da celare, perché connesso all'impurità e quindi attinente alla sfera del «non dicìbile». Gli stupri, a riprova, non vengono mai chiaramente indicati come tali; si preferisce ricorrere alle molte locuzioni della tradizione orale che, in modo eufemistico, richiamano il rapporto sessuale. La memoria popolare ricorda quindi con estremo realismo la durezza della quotidianità del tempo di guerra, riportando l'aspetto disumano della violenza che ha investito la comunità, ma evita accuratamente di menzionarla in modo chiaro. «Se la vulevano purtare... essa non ce votte i (andare) assieme, diciamo così che tu me capisci», racconta Mananna Gorelli, «e allora la vatterono (picchiarono) e l'antugnerono (fecero i lividi) bona bona... gli facettero gli cecie neri». Le lacerazioni non si ricomposero. Nel dopoguerra lo stupro di massa, nelle celebrazioni istituzionali, è stato «sempre più collocato in subordine fino a essere presentato come un incidente scontato e tutto sommato non grave». Al ritorno ufficiale alla normalità prebellica non corrispose, a livello privato, il completo superamento di comportamenti stimati, benché subiti e non voluti, comunque immorali e disdicevoli. L'atteggiamento delle donne verso l'elemento estraneo rappresentato dalle truppe straniere rimase motivo di emarginazione e di espulsione dalla comunità. Le giovani violentate dovettero lasciare il paese o sposare uomini più anziani di loro. «Tante se ne sono iute (andate) via dagliu paese. Molte so 'spatriate, pè se rifa na vita (...). Se ne so iute via pecche vulevano dimenticare chello che era succiesso e irsene (andarsene) luntano», afferma Concetta C. I mariti, tornati a casa a guerra finita, manifestarono avversione e risentimento nei confronti delle moglie violentate. «Gli uomini qua della faccenda dei marocchini non tanto ne vogliono parlare... Chi perché c'aveva chacche parente danneggiato da chisti surdati, chi per n'auto motivo, ma non ne vogliono parla chiù. So peggio che se fosse capitato a loro personalmente...», ha raccontato Rosa M.

    LO STUPRO DI GUERRA, infatti, non rappresenta soltanto un esercizio violento della sessualità, ma ha un valore fortemente simbolico di comunicazione fra uomini intorno all'esercizio del potere sul territorio. «Lo stupro si presenta come un'estensione di autorità» e costituisce un potente mezzo di intimidazione e demoralizzazione, perché nella guerra totale «la conquista del territorio è assimilata a quella del corpo femminile come luogo. Violando il corpo femminile si viola in realtà il corpo e l'identità di un popolo di un'intera nazione». Gli uomini della nazione vinta considerano lo stupro come l'umiliazione definitiva, il «colpo di grazia sessuale», come è stato definito recentemente da Emma Fattorini. «Gli uomini vivono lo stupro delle loro donne come un aspetto della propria angoscia maschile della sconfitta», ha scritto la femminista americana Susan Brown-miller. «Questa visione egocentrica ha una parziale validità. A parte una genuina, umana preoccupazione per mogli, figlie, amate, lo stupro perpetrato dal vincitore è una prova inconfutabile della condizione di impotenza virile del vinto. La difesa della donna è da sempre un simbolo dell'orgoglio maschile, così come il possesso della donna è stato il simbolo del successo maschile. Lo stupro del vincitore distrugge tutte le residue illusioni di potere negli uomini della parte sconfitta. Il corpo di una donna violentata diventa un campo battaglia rituale, un terreno per la parata trionfale del vincitore. L'atto compiuto su di lei è un messaggio trasmesso da uomini ad altri uomini: una vivida prova di vittoria per gli uni e di sconfitta per gli altri». Assai significative sono le annotazioni dei parroci di alcuni piccoli centri della provincia, illustrando e l'atteggiamento della Chiesa rispetto al problema, e il quadro culturale in cui la vicenda andava a inserirsi. L'impossibilità di una soluzione non penalizzante per l'universo femminile emerge con chiarezza. Il tema delle violenze sessuali è trattato ampiamente, in maniera diffusa, con dovizia di particolari.

    LE NARRAZIONI SONO RAPPRESENTATIVE dell'ambivalenza culturale dei sacerdoti: l'approccio singolare che adottano sull'argomento è caratterizzato dalle contaminazioni profonde della tradizione culturale popolare in materia (ove la donna rientra nella categoria del possesso, alla stregua degli altri beni materiali), con quella più squisitamente morale propria dell'impostazione cattolica. Emerge, da parte dei prelati, il senso, tutto maschile, dell'offesa ai propri averi; lo smarrimento dell'uomo di fronte a questo tipo di violenza appare dunque assimilabile allo sconcerto per le razzie di animali, le distruzioni di infrastrutture, i furti di biancheria, ovvero per tutti quei fenomeni, provocati dal conflitto armato, turbativi delle consuetudini sociali sedimentate nel tempo. La violenza sulle donne entra a fare parte, insieme a tutti gli altri danni, della logica irreversibile della guerra, cui non ci si può opporre, se non in circostanze particolari, quando risulta possibile occultare gli oggetti del desiderio dei soldati. Il diario del parroco di Morolo, don Antonio Biondi, dopo avere accennato agli stupri, prosegue elencando i danni materiali, denotando la sottintesa continuità logica e mentale da parte dì chi scrive. Il richiamo fatto dai parroci «all'onore macchiato», riporta poi ancora una volta a una concezione della donna quale oggetto di possesso (la violenza sessuale perpetrata nei confronti di una sposa è un reato più grave rispetto a quella inflitta a una fanciulla perché la prima "appartiene", attraverso il matrimonio, a un altro uomo), piuttosto che una considerazione di parità sociale e uguale dignità tra i sessi. «Non c'è stata famiglia in parrocchia che non abbia risentito di danni morali o materiali. Tutte le donne sorprese isolatamente in campagna o in montagna dovettero subire l'onta degli istinti ferini di quegli esseri inumani (...). Quasi non bastasse, i marocchini completarono le loro imprese con furti di denaro, di oggetti preziosi, di biancheria e perfino di utensili da cucina perfettamente inutili per essi (...). Molte, e non tutte donne di cattiva fama, parteciparono pure ai balli organizzati dai soldati alleati, alcune addirittura dai marocchini fecero conoscenza con il té e appresero a prepararlo».

    AUTOMATICAMENTE LE DONNE che avevano avuto contatti con i soldati furono considerate corrotte. Il contatto con gli estranei fu bandito come momento di contaminazione, pratica disgregante del gruppo di origine. Proprio questa demarcazione divenne il fondamento culturale dell'autoriconoscimento della comunità, con cui i parroci cercavano di rafforzare la coesione interna del gruppo. La condanna del ballo era da riconnettersi alla trasgressione insita in un'attività ludica, negata alla donna come moglie/madre/lavoratrice, oggetto esclusivo del patrimonio maschile. . La tradizionale funzione femminile, e la sua subalternità all'uomo, furono i riferimenti culturali condivisi da molte delle stesse donne e non mutarono neppure dopo la drammatica esperienza dello stupro di massa. L'accoglimento del punto di vista maschile fu, in molti casi, totale. La vittima dello stupro, in questa visuale, finiva per essere l'uomo, privato del suo ruolo protettivo, della sua virilità, verso il quale la donna si era macchiata di una colpa grave, non essendo riuscita, in un certo senso, a salvaguardarsi. La donna nella concezione dominante era ridotta al rango di bene mobile di coloro che si erano assunti l'onere della sua protezione formalizzata attraverso le strutture familiari (padri, fratelli) o le istituzioni sociali (i mariti tramite il matrimonio). Il crimine commesso contro il suo corpo era trattato alla stregua di un delitto contro la proprietà maschile. La violazione di questa sua particolare sfera della proprietà, in questo sistema culturale, era inaccettabile per il maschio che vedeva offuscato il suo prestigio sociale e incrinata da uomini esterni la propria funzione di guida della comunità. I racconti delle protagoniste rendono assai efficacemente le conseguenze di tali atteggiamenti culturali, contribuendo a evidenziare l'allontanamento dalla vita sociale della vittima, che si realizzava come forma di punizione per la sua presunta indegnità.

    ESEMPLIFICATIVA NELLA SUA DRAMMATICITÀ la narrazione di Anna C: «Mio padre tornò alla fine della guerra e cominciò l'inferno a casa nostra. Mamma piangeva spesso, anche quando lavorava o stava sola. Mio padre incominciette a bere e si arrabbiava pè niente e ce picchiava. La nonna ce voleva bene e cercava di difenderci. Ma se morì subito di crepacuore. Io non riuscivo a capire perché papa diceva tante brutte parole a mamma. Crescemmo, passavano gli anni, sempre a faticare. Quando divenni signurina mio padre, me lo ricordo ancora, me disse: "Vedi adesso di non fa pure tu la fine de tua madre". La mamma allora dovette quasi spiegarmi, con la forza, tutto chello che gli erano fatto gli marocchini. Capii che gli surdati che m'avevano dato la cioccolata avevano ruvinato per sempre la pace della casa nostra. Mamma me raccontò che l'avevano violentata in cinque. Mi diceva che tutti gli omene sono sporchi ma che i marocchini sono più sporchi di tutti. Quanno mio padre capì al suo ritorno quello che era successo a mia madre non stette chiù bene, pareva impazzito. Non sapeva con chi se la doveva pigliare, con chi se doveva sfogare e allora se sfugava con mamma e con noi. Come ho detto, mio padre è stato in Africa in campo de concentramento. Forse il sole gli aveva dato alla testa, gli aveva fatto male come a tutti. Mamma lo diceva che era stato il sole a prendergli la ragione. Così, saputo dei marocchini, non è stato chiù bene. Na parola porta l'altra e finiva sempre per insultarla. Però era un lavoratore mio padre.Lavorava il terreno e poi andava anche a iuornata cogli muratori; anche mamma lavorava la terra, stava sempre nei campi ma tata (papa) la teneva gelosa per il fatto dei marocchini. Non la mandò più a iuornata fuori con le altre donne del paese. Non le volle far chiedere la pensione a quel tempo, quando si seppe che se putevano fare le domande. Non vulette (g)niente per non far correre la voce, gli pareva troppo brutto quello che era successo a sua mo*glie». Lo stupro non ha rimedio in questo ambiente. Le interviste forniscono la sensazione di un enorme deposito sepolto di violenza. A quella fisica è seguito un vissuto quotidiano difficile, segnato per sempre dagli avvenimenti, con soprusi più o meno gravi, che assai di rado è emerso e ha «trovato la strada per chiedere ascolto e giustizia».

    SIAMO DINANZI A UN RIMOSSO di dimensioni assai vaste, effettuato dai singoli ma anche collettivamente dall'intera comunità, alimentato nelle donne dal sentimento plurisecolare di essere prede, divenuto con il tempo elemento costitutivo dell'identità femminile. «La cultura a cui apparteniamo», ha scritto Elena Gianini Belotti a proposito dei condizionamenti sociali nella formazione femminile, «si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere». Il contesto socio*culturale ha inciso quindi pesantemente sulla possibilità delle vittime di trovare un significato comunitario alla violenza generalizzata che le ha investite. Non è possibile ricordare apertamente, non si può neppure dimenticare. L'aggressività degli uomini della comunità locale è stata spostata sulle donne violentate, la cui condizione continuava a restare assai difficile. Scriveva Paola Masino nel 1951 delle donne violentate: «Le più giovani sono restie a farsi vedere. Per loro l'onta potè, in un certo senso, essere minore; fu tuttavia assai più grave moralmente, anzi addirittura mortale. Nella vecchiaia un simile insulto può essere considerato solo un martirio, ma per la giovinezza diviene il furto di ogni possibilità d'amore e di maternità, diviene la distruzione dello scopo stesso della creatura nata donna. Se ne stanno, alcune di esse, chiuse in un ebetimento di dolore e di umiliazione, in un quasi volontario isolamento che tu senti tanto più tragico in quanto solo un grande benessere economico potrebbe aiutarle ad uscirne in parte. Mandarle altrove, curarle, occuparle in un lavoro che non solo le distragga dal presente ma possa garantir loro quel futuro che rimarrà inesorabilmente squallido nel vuoto necessario di ogni affetto. Se la loro vita fisica è stata risparmiata, tutta la loro vita morale e sentimentale è stata distrutta: mutilazione che ben poche pensioni di guerra o indennizzi possono risarcire».

    IL TRAUMA SUBITO DALLE DONNE con la violenza sessuale fu messo da parte, nascosto, ed espulso dalla memoria ufficiale pubblica e individuale, diventando materia per speculazioni scandalistiche o clientelismo elettorale. A livello nazionale, ricordare gli stupri poteva infatti «avere implicazioni pericolose perché dimostrava, nella migliore delle ipotesi, l'impotenza, nella peggiore, la complicità: era quindi incompatibile con la ricostruzione di un sentimento di autostima maschile nazionale», ma soprattutto rischiava, come ricorda Dianella Gagliani di «portare a discutere i caratteri dell'alleato e dell'alleanza occidentale», in cui l'Italia era stata accolta. Le violenze sessuali non sono state quindi inserite nel discorso pubblico, non essendo rappresentabili, come nell'ex Jugoslavia, in chiave di rafforzamento identitario della comunità nazionale, mancando nel Mezzogiorno, ogni possibile riferimento al modello dell'eroe maschile da affiancare all'immagine femminile della vittima sofferente. Degli stupri erano inoltre autori non i nemici (i tedeschi), contro cui una risorta comunità maschile (i partigiani) impugnava le armi, ma, al contrario, gli alleati, al cui fianco si combatteva per fare rinascere la nazione distrutta dal fascismo. Lo stupro di massa non poteva essere quindi presentato come un frammento della tragedia collettiva del popolo italiano, funzionale alla denuncia del nemico nazi*fascista, e non era destinata a trovare spazio nel retorica dell'antifascismo e della Resistenza.

    Il CEF, CORPS EXPEDITIONNAIRE FRANCAIS
    I Corps expeditionnaire francais, formato da circa 130 mila uomini, inquadrati in quattro divisioni, al comando del generale Alphonse Juin, si caratterizzava per la presenza di circa 12 mila goumier, soldati di origine marocchina ed algerina, specializzati nella guerra di montagna, organizzati in piccoli raggruppamenti, denominati goum, posti al comando di un ufficiale francese. Così descrive Fred Majdalany queste truppe: «Agiscono come una marea su una fila di castelli di sabbia. Sono capaci di spingersi a ondate su un massiccio montano dove truppe regolari non riuscirebbero mai a passare. Attaccano in silenzio qualsiasi avversario che si presenti, lo distruggono e tirano via senza occuparsi di quel che accade a destra o a sinistra. Hanno l'abitudine di riportarsi indietro la prova delle vittime uccise; perciò sono nemici con cui non è piacevole aver a che fare». (Fred Majdalany , La battaglia di Cassino, Milano, Garzanti, 1974, pag. 283).
    Ai goumier fu affidato il compito di conquistare la dorsale montuosa dei Monti Aurunci, permettendo così alle truppe anglo-americane, nel maggio del 1944, l'aggiramento della rocca di Cassino, strenuamente difesa dai paracadutisti tedeschi, e lo sfondamento della linea Gustav, aprendo all'esercito alleato la strada per Roma. L'alta pericolosità dell'azione spinse di fatto le autorità alleate a concedere informalmente carta bianca ai soldati nord-africani contro la popolazione civile.

    IL PROCLAMA FANTASMA DI JUIN
    « Il vostro generale vi annuncia, vi promette solennemente, vi giura, sul suo onore di soldato e sulla bandiera di Francia, che si alza, per l'ultima volta, il sole sulle vostre sofferenze, sulle vostre privazioni, sulla vostra fame. Oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c'è una terra larga ... ricca di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare oltre quella linea senza lasciare vivo un solo nemico, il vostro generale vi promette, vi giura, vi proclama che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete sarà vostro, a vostro piacimento e volontà. Per 50 ore. E potrete avere tutto, prendere tutto, distruggere o portare via, se avrete vinto, se ve lo sarete meritato». È tradizione diffusa che all'alba del giorno fissato per l'attacco sul fronte del Garigliano, il 14 maggio 1944, il generale Alphonse Juin abbia inoltrato, alle truppe nordafricane (goumier) della seconda divisione di fanteria, del generale Dody, e della quarta divisione da montagna, del generale Guillaume, il proclama appena citato.




    da Millenovecento - Dicembre 2003

  2. #2
    Massimiliano71
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    Il bello è che, come riportai un paio di mesi fà, un sindaco testa di cazzo della zona ha pure premiato alcuni militari marocchini per essersi sacrificati nello sfondamento della linea Gustav. Roba da maiali!

  3. #3
    -Uruz-
    Ospite

    Predefinito

    Ma la fate finita di postare sti poemi..tanto li legge solo Massi..

  4. #4
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    Certo che dover ricorrere ai marocchini per spuntarla sui tedeschi qualifica come fanterie da poco americani et associati...............bloccati a Monte Cassino e ad Anzio-Nettuno !

    Comunque il Papa Pio XII° si rifiuto' di ricevere in vaticano il generale Juin !

  5. #5
    Massimiliano71
    Ospite

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    Citazione Originariamente Scritto da -Uruz-
    Ma la fate finita di postare sti poemi..tanto li legge solo Massi..
    Veramente ho letto solo il titolo.....

 

 

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