Se “nessuno è più schiavo di colui che si ritiene
libero senza esserlo”(1), la Padania,
suo malgrado, è una terra popolata da un
grande numero di individui che, nella loro insana
quanto autodistruttiva illusione, travisano
misere garanzie e residuali concessioni sprezzantemente
elemosinate dall’alto, come fossero
aurei e fulgidi galloni, lealmente conquistati sul
campo di battaglia o ancora i benefici effetti assicurati
da un sistema tutto sommato incardinato
su principi legalistici e democratici. Ma i
problemi non si risolvono certo facendosi beffe
di quelle catene che ostinatamente si vuol negare
esistano: magari a qualche padano sarà anche
capitato di aver meritatamente vinto un
concorso per l’assegnazione di un pubblico impiego;
o forse sarà stato anche il fortunato assegnatario
di una casa popolare; alle poste, nelle
stazioni, negli ospedali sarà stato persino gentilmente
trattato da individui che non si sentivano
in dovere di credersi i depositari di una
cultura diversa e superiore; e che dire delle
scuole o delle università: a qualcuno sarà pur
successo di prendere parte a una lezione, addirittura
di storia, in cui il vernacolo utilizzato
per l’esposizione non fosse spiccatamente levantino
o che l’esposizione stessa non contenesse
i germi di una visione filosofica romanofila
e romanocentrica, impregnata del mito della
“Roma caput mundi”; e ancora, a qualche padano
sarà anche sicuramente successo di aver varcato
l’aula di un tribunale ed essere stato ivi
giudicato da un magistrato che riuscisse a comprendere
le sue ansie, i suoi dubbi, la sua mentalità,
la sua “tavola di valori”, e ancor prima,
naturalmente, la sua stessa lingua!
Tutto ciò, ribadisco, sarà avvenuto di sicuro e,
col beneficio del dubbio, potrà anche non trattarsi
delle classiche eccezioni che confermano
la regola. Quello che importa è ben altro dato,
sconfortante in tutta la sua lapalissiana concretezza:
infatti, gli esempi addotti - che peraltro
sono solo una piccola parte di tutta una congerie
di situazioni che potrebbero essere richiamate
- sono al contempo epifenomeno patologico
di un processo disgregatore e pretesto di
neghittosa inazione. Cioè a dire, la presenza di
tale miriade di fattispecie delinea senza mezzi
termini il perverso assetto materiale “istituzionalizzato”
nel tessuto economico-sociale-culturale
della Padania, nonché subliminalmente
formalizzato come buono e giusto dai suoi interessati
sostenitori. La sua operatività, difatti, si
è retta e si regge tuttora su assurde ideologienel
senso più deteriore del termine -, su artificiosi
quanto surrettizi principi, su premesse
tanto errate quanto passivamente condivise: ed
è solo grazie alla straordinaria opera di analisi,
di critica, di studio, - oltre alle innumerevoli
battaglie combattute - del movimento e dell’opinione
pubblica padanista che si sta ingenerando
un positivo effetto “torpedine”, grazie al
quale si dovranno via via ridestare le coscienze
ancora assopite dal cloroformio romano-meridionalista.
Il pernicioso procedimento è stato costruito
ad arte e ha garantito (e tuttora, purtruppo,
continua a garantire) ai suoi artefici un elevato
rapporto benefici-costi: e ciò sostanzialmente,
bisogna dirlo, grazie a una serie di fattori predicati
al “modus operandi” dei padani durante numerosi
decenni: acquiescenza, timore, interesse
personale, opportunismo, miopia, disillusione,
rassegnazione, frustrazione…E , come dice il
proverbio, “chi è causa del proprio mal pianga
se stesso”!
Quel che è fuor di dubbio è che la scaturigine
di tale circolo vizioso è da ricondursi al cosiddetto
“problema del free-rider”, che un illustre
economista ha recentemente illustrato in un illuminante
saggio(2).
Il “free-rider” (o “battitore libero”) è “uno che
si assicura i profitti del bene o del servizio di
consumo collettivo senza partecipare affatto alla
condivisione dei costi”. “…ognuno avrà moti-
L’essenza del meridionalismo
di Cristian Merlo
(1) J.W. Goethe, Massime e riflessioni,II, 5
(2) J.Buchanan, I limiti della libertà (Milano: Rusconi,1998),
pp. 92-95