Dal quotidiano LIBERO di oggi, 8 febbraio 2006....
" Ankara non potrà mai essere europea
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ANKARA I primi a non sentirsi europei sono proprio loro, i turchi. Recep Tayyp Erdogan, il primo ministro, semmai avverte una particolare vicinanza alla Mongolia e nel luglio scorso, durante una visita ufficiale a Ulan Bator, si era spinto a evocare la « grande Turchia » che va dai Monti Altai a Istanbul. È il sogno panturco, che rende diffidenti verso gli occidentali e aperti ai popoli dell'est. Sarà il retaggio del loro " glorioso" passato ottomano, ma ancora oggi l'effigie che campeggia sulle banconote della Repubblica laica e kemalista è pur sempre quella di Mehmet II, il conquistatore di Costantinopoli e massacratore di cristiani. Da quando nel 1453 i Bizantini sono stati definitivamente sconfitti, la città si chiama Istanbul e la loro eredità cancellata dal Califfato islamico. Con la fine dell'impero, la persecuzione delle minoranze, considerate estranee all'identità nazionale, si è intensificata fino a sfociare nel genocidio armeno durante la Prima guerra mondiale. Ma in Turchia quell'evento resta un tabù, a livello accademico e nel codice penale. Dopo il processo allo scrittore Orhan Pamuk, conclusosi il mese scorso con il ritiro dell'accusa di aver offeso " l'identità turca", ieri è stata la volta di cinque giornalisti, comparsi davanti al giudice per il reato di insulto a un organo di Stato. Se condannati, Hasan Cemal, Murat Belge, Ismet Berkan, Haluk Sahin ed Erol Katircioglu rischiano da sei mesi a dieci anni di carcere. Ankara ha sempre respinto l'accusa secondo cui la campagna violenta lanciata contro gli armeni tra il 1915 e il 1917 sia stata un genocidio. E chi lo sostiene deve fare le valigie e andarsene, come lo storico Taner Akçam. Non è un sostenitore delle tesi di Oriana Fallaci, anzi. Nel suo " Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall'Impero ottomano alla Repubblica", appena pubblicato in traduzione italiana da Guerini e Associati ( pp. 284, euro 24,00), mostra una visione piuttosto moderata del riequilibrio post- kemalista. Ma nel 1976 per aver tentato di riportare alla luce le stragi, fu arrestato e condannato a dieci anni di reclusione. Riesce a fuggire dal Paese un anno dopo e a rifugiarsi in Germania, da dove poi si trasferisce negli Stati Uniti e ora insegna all'Università del Minnesota. Analizzando la situazione politica attuale del suo Paese, dove è al potere il partito di ispirazione islamica Akp, Akçam scrive che « contrariamente all'opinione prevalente in occidente, questi partiti in realtà non promuovono l'avvento di un governo fondamentalista, come è stato largamente affermato, specialmente dai militari in Turchia » . Secondo lui « la missione di questi movimenti islamici è la riconciliazione della modernizzazione con la tradizione religioso culturale » . Più o meno le stesse tesi di Massimo Introvigne, che in " La Turchia e l'Europa. Religione e politica nell'islam tur- co" ( Sugarco, pp. 160, euro 16,00) sottolinea una dinamica di allontanamento dal fondamentalismo tra i membri dell'attuale governo. Percorso difficile e complesso, perché si tratta allo stesso tempo di chiudere la guerra contro la religione scatenata dal padre della patria Kemal Atatürk e dalla sua « ideologia delle " sei frecce": repubblicanismo, nazionalismo, populismo, statalismo, laicismo e rivoluzionarismo » . A ben vedere è la stessa strategia proposta anche dall'Unione Europea alla Turchia. Ma si è già dimostrata un fallimento e i dardi non hanno centrato il bersaglio. Se la religione la metti fuori dalla porta, poi rientra dalla finestra. Andrea Morigi "
Shalom