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    Predefinito La biografia dell'aspirante presidente del consiglio

    Questa è la biogrfia del probabile nuovo presidente del Consiglio:

    Il 3 novembre 1982 Romano Prodi entrava nel tempio stesso della mediazione, quell’Istituto per la Ricostruzione Industriale che da braccio esecutivo delle politiche economiche del fascismo e poi del regime democristiano, ora appariva un bastimento talmente sovraccarico di istanze, imposizioni e impegni, da rischiare di affondare. “Sono stato nominato in quel breve lasso di tempo che separa il giorno dei morti dal giorno della vittoria”, annunciò argutamente. Poi volle aggiungere: “Ho più debiti io che l’Argentina”. Nel mentre Prodi dava l’impressione di caricarsi di una croce, al contrario era per lui l’avvio definitivo di una stupefacente carriera.

    Due anni prima di ascendere al vertice dell’Iri, Prodi aveva fondato a Bologna un istituto di studi e ricerche economiche, Nomisma, dal nome della moneta bizantina. Nomisma venne finanziata quasi per intero dalla Banca Nazionale del Lavoro, all’epoca presieduta dal socialista di sinistra Nerio Nesi il quale, dopo l’eclissi politica di Claudio Signorile agli inizi del 1980, era l’uomo con maggior potere in quella corrente, pur essendo formalmente allineato con la maggioranza di Craxi. Nel verbale di approvazione del bilancio 1982, i consiglieri di Nomisma lamentarono il “grande vuoto” lasciato dal professore e da Massimo Ponzellini che lo aveva seguito all’Istituto come nel 1978 al ministero dell’Industria. Tuttavia i consiglieri arrivarono alla conclusione che non esistevano incompatibilità: Prodi poteva rimanere presidente del comitato scientifico, mentre Ponzellini avrebbe sì dovuto dimettersi da direttore generale, ma per divenire consulente e segretario del comitato scientifico di Nomisma.

    Ancora quindi legato a Nomisma, Ponzellini assunse ad interim la carica di direttore dell’ufficio Studi e Strategie dell’Iri, nonostante l’incompatibilità ai sensi dell’articolo 22 dello statuto dell’ente. Dal 1983, però, Prodi e Ponzellini si trovarono a essere indagati in un procedimento penale che si concluse con la loro assoluzione nel dicembre 1998. Secondo il giudice istruttore Casavola, a proposito delle commesse stipulate da Nomisma con alcune aziende del gruppo Iri, in particolare Sip e Italstrade, non si era trattato “di un atto amministrativo del presidente dell’Iri o di una delibera collegiale del consiglio di amministrazione, cioè di atti di finalità pubblica fuorviati dalla volontà di conferire consulenze a una società privata e di personale interesse com’è Nomisma.

    Notava tuttavia la sentenza come l’”ingerenza profittatrice” si verifichi anche quando il pubblico ufficiale si avvale di persone o enti diversi per conseguire il privato interesse: purché però tali rapporti siano rilevanti sotto il profilo del diritto pubblico. Ma le società che avevano dato commesse a Nomisma, pur controllate dall’Iri, ente di diritto pubblico, erano società per azioni di diritto privato: in conclusione, “l’idea che le commesse siano state affidate perché a richiederle erano il presidente dell’Iri, e il suo assistente, alle società collegate, è verosimile, ma non assume gli estremi del reato”.

    Questo orientamento sarebbe stato completamente rovesciato pochi anni dopo nelle indagini di Mani pulite: le società per azioni il cui controllo risalisse comunque a enti pubblici sarebbero state tutte considerate operanti nella sfera dell’interesse pubblico, e i loro dirigenti qualificati come pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, con le conseguenze penali del caso.

    Il 25 maggio 1983 Nomisma firmò una importante commessa con il dipartimento Sviluppo e Cooperazione del ministero degli Esteri. Alcune denunce anonime innescarono un altro procedimento penale, e anche qui si arrivò in istruttoria all’assoluzione di Prodi e Ponzellini, ma al rinvio a giudizio di due esponenti del ministero degli Esteri e di tre negoziatori per conto di Nomisma. Secondo il giudice istruttore, Nomisma non vantava alcuna competenza specifica nel settore di ricerche affidatole, anzi “ha formulato una duplicazione di strutture per consentirsi una duplicazione di introiti”. “E’ singolare rilevare”, concludeva l’ordinanza, “che le opere pubblicate non sembra siano state consultate se non da pochi… né sono state destinate ai corpi diplomatici… e la loro consultazione è stata riservata solo ai diplomatici in transito alla Farnesina… Esse non sono state esaminate o lette dai negoziatori della convenzione e gli aggiornamenti… sono in realtà per due terzi ripetitivi”. Infine, “sarebbe stato utile e interessante conoscere l’opinione del prof. Prodi quale presidente del comitato scientifico, ma egli ha dichiarato nel suo interrogatorio di non aver mai letto l’opera”. Comunque, alla fine, tutti gli imputati furono assolti.

    Secondo il giudice Casavola, Nomisma “è una società che permette l’affermarsi di studiosi provenienti in particolare dall’ambiente universitario, e non è infrequente constatare il loro passaggio, dopo un’esperienza in Nomisma, all’Iri o alle società collegate, allo scopo di ricoprire cariche di presidenti o di amministratori delegati”. Durante gli anni di presidenza di Prodi, le immissioni di dirigenti e di consulenti esterni nel gruppo Iri contribuirono a svuotare quell’ufficio Studi e Strategie dell’Istituto, affidato tra molti mugugni al suo pupillo Ponzellini. Si spegneva così quella “centrale di management a disposizione dello Stato” - definizione di Pasquale Saraceno - che era stata la ragion d’essere dell’Iri, progetto pragmatico per il quale era stata predisposta una normativa esigua che doveva garantire la flessibilità di gestione e l’autonomia dall’azionista pubblico. D’altronde i tecnici erano già stati emarginati: quando nel 1975 la Commissione Chiarelli indagò sullo stato delle PPSS (Partecipazioni statali, ndr), nessuno dei seimila dirigenti venne ascoltato né incluso nella Commissione stessa: “Eppure quei dirigenti”, osservava con delusione Saraceno, “costituiscono il sistema decisionale del complesso delle imprese a PPSS; ed era su quel sistema che, dopo tutto, la Commissione doveva far luce”.

    Di quella vera e propria mutazione genetica si era accorto il collegio sindacale dell’Istituto, quando il 9 gennaio 1985, due anni dopo l’avvento di Prodi, aveva stigmatizzato l’affidamento a consulenti esterni di “incarichi di carattere generico, peraltro aventi carattere continuativo”; e un appunto dello stesso genere era statao rivolto per la gestione 1984 dalla Corte dei Conti.

    Le polemiche, i dubbi e le perplessità sulla qualità della sua gestione non lo abbandonarono mai. Nella primavera del 1995, Prodi decise di rispondere alle critiche in un modo singolare: inviò un documento di sei cartelle ad alcune comunità religiose. La difesa di Prodi, intitolata “Iri: come era, cosa ha fatto, cosa lascio”, pervenne nelle mani di Franco Bechis di “Milano Finanza”, il quale ne pubblicò una sintesi il 3 maggio. Prodi ricordava che “a fine 1982 il gruppo si presentava in una situazione estremamente negativa sia sotto l’aspetto economico che sotto quello finanziario”. Egli intendeva dimostrare, soprattutto in relazione alla sua candidatura alla testa dell’Ulivo, che la sua era stata un’opera di lunga lena, i cui risultati si erano visti solo con l’inversione di tendenza dei conti nel 1985: si era trattato quindi del “più importante processo di risanamento attuato alla fine degli anni Cinquanta in Italia e probabilmente uno dei più importanti dopo gli eventi degli anni Trenta”. Dopo questo singolare autoincensamento, così concludeva il professore: “Chiunque in chiave tecnica, e volendo far parlare le cifre per quello che non vogliono dire, volesse giungere a conclusioni che non sono supportate da dati obiettivi, si assumerebbe sicuramente il compito di una interpretazione non in buona fede”.

    Il fatto è che l’Iri, a causa della sua originaria natura di ente liquidatorio, aveva nel proprio statuto una caratteristica particolare, che lo differenziava nettamente dalla normativa del codice civile per le società, nonché da altri enti pubblici economici quale ad esempio l’Eni. Infatti lo statuto dell’Iri stabiliva che utili e perdite di natura patrimoniale non andavano inseriti nel conto economico, ma si riflettevano solo sul patrimonio: dettata per il bilancio dell’Istituto, quella normativa fu applicata di fatto anche al consolidato di gruppo, nel quale rientravano solo i dati del conto economico della capogruppo.

    Quando Prodi annunciò trionfalmente che l’Iri nel 1985 era in utile di 12 miliardi e 400 milioni, si riferiva al solo conto perdite e profitti dell’Istituto; ma la Corte dei conti, magistratura di sorveglianza, volle mettere bene in chiaro che la realtà si presentava più complessa: “Il complessivo risultato di gestione dell’Istituto per il 1985, cui concorrono… sia il saldo del conto profitti e perdite sia gli utili e le perdite di natura patrimoniale, corrisponde a una perdita di 980,2 miliardi, che si raffronta a quella di 2737 miliardi consuntivata nel 1984”. E per quanto riguardava il bilancio consolidato, la Corte notava che le perdite nette nel 1985 erano assommate a 1203 miliardi contro i 2347 miliardi del 1984. Fra il dicembre 1982 - all’arrivo di Prodi in via Veneto - e quello del 1989 - quando lascerà la presidenza - il netto patrimoniale dell’Iri si dimezzò, passando da 3959 a 2102 miliardi: la spiegazione si poteva trovare nel fatto che le perdite di gestione non erano comparse nel conto economico, ma avevano invece concorso a diminuire il netto patrimoniale. A riprova, l’indebitamento dell’Istituto, salito dal 1982 al 1989 da 7349 a 20.873 miliardi (+184 per cento), e quello del gruppo Iri da 34.948 a 45.672 (+30 per cento).

    Prodi dimostrava una notevole abilità nel propagandare alcuni dati consuntivi complessi: tuttavia a un osservatore esperto come Mediobanca non poteva sfuggire l’impoverimento patrimoniale dell’Istituto. Dalla nascita dell’Iri al 31 dicembre 1983 le perdite patrimoniali erano assommate a 9233 miliardi: due anni dopo quella cifra era aumentata di 4407 miliardi. Poiché, come aveva ben spiegato Pasquale Saraceno, le perdite affioravano nei bilanci del gruppo Iri dopo anni, non tutto quello spaventoso aumento doveva essere addebitato alla gestione di Prodi: comunque la situazione si prestava a equivoci e fraintendimenti. Quando Massimo D’Alema, ai primi del 1995, intervistato da Enzo Biagi in televisione, ebbe ad affermare che Prodi, da lui scelto per guidare la coalizione contro Silvio Berlusconi e i suoi alleati, era un “uomo competente” perché quando nel 1989 aveva concluso il suo lavoro di presidente dell’Iri il bilancio dava un “più 981 miliardi”, non fu difficile basandosi sulle cifre fargli notare che il dato reale, considerate le perdite siderurgiche transitate solo nel conto patrimoniale, dava un “meno” di 2416 miliardi. Quelle cifre non potevano essere contestate e non lo furono.

    Bisogna comunque riconoscere a Prodi una eccezionale abilità nel farsi dare dallo Stato dal 1983 al 1989 una enorme quantità di denaro a costo zero. L’ex ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino, al corrente più di qualunque altro della reale situazione delle finanze pubbliche, ha rilevato - sotto lo pseudonimo di “Geronimo” sul quotidiano “Il Giornale” - che dei 28.500 miliardi erogati dallo Stato a titolo di fondo di dotazione dalla data di nascita dell’Iri, Prodi ne ottenne 17.500.

    (…)

    Per Prodi presidente e Enrico Micheli direttore generale dell’Iri spa, lo Stato riaprì dunque quei rubinetti che erano stati chiusi per Nobili: in cambio però chiedeva il rientro dai debiti nei tempi dell’accordo Andreatta-Van Miert. Già dal 3 luglio Enrico Cuccia era uscito allo scoperto mettendo per iscritto il suo piano, basato su un gruppo di investitori che avrebbero dovuto controllare tra il 15 e il 25 per cento sia della Comit sia del Credit: sarebbe poi stato necessario un aumento di capitale di 2040 miliardi per ciascuna banca, e solo allora le azioni residue avrebbero potuto andare sul mercato. “Comit e Credit” scrisse Cuccia a Prodi “sono sottopatrimonializzate… mal gestite da anni… Solo un folle o un ente pubblico potrebbe acquisirle così come sono.” L’appunto di Cuccia, il quale ben conosceva il vizietto di Prodi, si chiudeva con un invito alla riservatezza: “Questo nostro modo di lavorare ci procura molte antipatie, ma un lavoro di questo genere non può essere condotto a buon fine se si è frastornati dalle chiacchiere dei giornali, dalle interrogazioni parlamentari e dai sindacati”.

    (…)

    Dopo la lettera di Cuccia del 3 luglio, il 20 i due si incontrarono; il 6 agosto Prodi trasmise all’altro le sue perplessità su un aumento di capitale prima della privatizzazione: l’ipotesi di far partecipare il “nocciolo duro” dei privati all’aumento avrebbe ridotto l’incasso dell’Iri a poco più della vendita dei diritti di opzione. Ma il custode del capitalismo familiare italiano aveva idee ben chiare: i soldi sarebbero serviti non a pagare l’Iri, ma a rafforzare le banche privatizzate. “Mi rendo conto”, scrisse il 20 agosto Cuccia, “che i nostri punti di vista sono alquanto distanti perché partono da due premesse diverse. Ella ritiene che l’Iri debba, anzitutto, preoccuparsi di ricavare il prezzo più alto possibile… Io sono, invece, convinto che l’Iri debba, innanzitutto, farsi carico di arricchire il mercato di imprese valide, che non riservino amare sorprese ai risparmiatori”.

    Però Prodi aveva in mano l’arma decisiva: la necessità per l’Iri di stabilizzare i debiti entro l’anno, imposta dagli accordi fra Andreatta e il commissario Cee Van Miert, e quindi di far cassa con le banche, invece di consentire all’aumento di capitale voluto da Cuccia, al quale avrebbero partecipato i privati ma non l’Iri, in modo da lasciare le banche grasse e il convento di via Veneto povero. Ai primi di settembre il consiglio di amministrazione di Iri spa decise di mettere in vendita tutto il pacchetto azionario controllato di Comit e Credit, dopo alcune scaramucce fra Prodi e Barucci al ministero del Tesoro, che la stampa condì di corpo a corpo, urli e minacce. Nel pomeriggio del 23 settembre 1993, l’iri formalizzò l’incarico alla banca d’affari americana J.P. Morgan per la valutazione del patrimonio delle due aziende di credito; in quanto al collocamento delle azioni, la banca americana Lehman Brothers Lynch, la banca di investimenti americana che aveva ricevuto da Franco Nobili l’incarico di collocare quelle del Credit, venne estromessa a favore dell’americana Goldman Sachs, della quale fino a pochi giorni prima di far ritorno a via Veneto Prodi era stato consulente.

    Forse Romano Prodi si era montato la testa: fatto sta che dopo l’oltraggio fatto a Cuccia rifiutando le sue avances, ai primi di ottobre in dichiarazioni pubbliche espose la propria convinzione che il capitalismo italiano soffrisse per la presenza di pochi grandi gruppi: quattro in tutto, mentre in Gran Bretagna ce n’erano ben ventotto: “Le privatizzazioni sono una grande occasione per cambiare questa situazione, creare pluralismo economico e quindi libertà”.

    Se il sistema doveva essere aperto, l’obiettivo italiano non poteva essere quello del francese “nocciolo duro”, creato per assicurare stabilità. Insomma, Prodi proponeva una vera e propria rivoluzione nel capitalismo nazionale, con un linguaggio e dei modi ben più appropriati ai grandi leader politici del recente passato che non a quel consulente di azienda ripescato dall’oblio.

    Giorgio La Malfa, il figlio del fondatore del Partito repubblicano, aveva vissuto un momento di gloria all’indomani delle elezioni politiche dell’aprile 1992, quando con il 4,4 per cento dei voti, ventisette deputati e dieci senatori, egli si era rifiutato di entrare nel governo di Giuliano Amato preferendo restare alla finestra, sotto la protezione di quei “poteri forti” che suo padre aveva per tutta la vita ambito rappresentare. Tuttavia succesivamente Giorgio La Malfa era rimasto impigliato nella rete di Mani pulite e il suo partito si era sgretolato; ma egli restava pur sempre un figlioccio di Cuccia e un alleato, per quanto assai depotenziato, di Mediobanca. La Malfa vide nelle esternazioni di Prodi il rischio che dalla “rivoluzione” non uscissero vincenti le forze capitalistiche tradizionali, che con i loro giornali avevano condizionato l’opinione pubblica in senso favorevole alla distruzione della vecchia classe politica, ma una accoppiata tra democristiani di sinistra ed eredi del cominismo. Il 7 ottobre decise che non poteva più tacere e concesse un’intervista ad Alberto Statera della “Stampa”.

    “Il nocciolo duro”, spiegò La Malfa, “vuol dire vendere veramente le aziende a gruppi privati, che ne assumono la guida nella loro libertà imprenditoriale, con i manager di loro fiducia. La public company significa invece il frazionamento assoluto della proprietà aziendale… Chi nominerà o confermerà nel loro incarico gli amministratori delle società privatizzande? Naturalmente l’attuale vertice dell’Iri e il gruppo politico attualmente più forte nelle imprese pubbliche: la sinistra democristiana… Le privatizzazioni alla Prodi sono fatte su misura per la sinistra democristiana”.

    L’esuberante La Malfa si lasciò scappar di bocca alcune affermazioni imbarazzanti, che lo avvicinavano un po’ troppo ai suoi nemici socialisti: “è vero, i miei amici dell’”Economist” hanno presentato Prodi come il risanatore. Ma si sono sbagliati e glielo dimostro con le cifre”, precisò a Statera. “Tra il 1982 e il 1988, presidente Prodi, l’Iri ebbe fondi di dotazione e mutui con l’obbligo di rimborso da parte dello Stato per 17.724 miliardi, più di una volta e mezzo rispetto al complesso di fondi che l’Istituto ebbe dalla sua fondazione, nel 1933, fino al 1988. Il bilancio di quell’anno motrò un utile di 1263 miliardi, ma senza considerare la siderurgia. In realtà, nel 1988 la perdita fu di 2416 miliardi. Se questo è risanamento…”

    Conosciamo già queste cifre, contestate a Romano Prodi da membri del comitato di presidenza anche con pubbliche prese di posizione. Ma che ora venissero riprese dal figlio di Ugo La Malfa, di colui che era stato il riferimento politico del capitalismo laico, azionista e delle grandi famiglie, valeva a indicare la violenza dello scontro sotto le acque limacciose del governo Ciampi: “Al professo Prodi non riconosco nessun titolo di privatizzatore di aziende e, tanto meno, di risanatore dell’Iri. Quel che gli riconosco”, chiarì Giorgio La Malfa, “è invece un preciso ruolo politico: il presidente dell’Iri non è un tecnico, ma un fior di democristiano”. In quella squadra si trovavano secondo l’esponente repubblicano, fianco a fianco con Prodi, il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, il direttore generale della Rai Locatelli, lo tesso presidente della Repubblica Scalfaro. “La spartizione continua. Poi, diranno che il governo Dc-Pds è imposto dallo stato di necessità, dall’avanzate delle orde leghiste”.

    La Confindustria si schierò sulle tesi di La Malfa, per voce del suo vicepresidente, il dirigente della Fiat Carlo Callieri: “Non si vuole un azionista di riferimento perché in realtà si vuole che l’azionista sia ancora quello pubblico”. Proponendosi di non parteggiare per nessuno in quella disputa, il capo del governo adottò un atteggiamento pragmatico: “Le formule dette del “nocciolo duro” e della public company sono utili alla schematizzazione del processo di privatizzazione. Non possono tuttavia costituire ricette valide in ogni occasione, né è possibile una loro applicazione dogmatica ed estrema”. Ciampi comunque introdusse per le banche il limite del 3 per cento al possesso azionario per ogni soggetto; ma il professor Ferro-Luzzi, membro del consiglio di amministrazione dell’Iri, fece notare in quella sede il 14 ottobre che il limite del 3 per cento consentiva, anche contro le intenzioni, di costruire un nucleo stabile di controllo: sarebbe stato sufficiente mettere insieme dieci investitori per raggiungere una quota di capitale sufficiente a scongiurare le scalate nelle grandi banche. La previsione di Ferro-Luzzi si rivelerà esatta qualche mese dopo, proprio in relazione alle privatizzazioni di Credit e Comit.

    Intanto Romano Prodi si era voluto togliere dalla scarpa il sassolino della Sme, la finanziaria agro-alimentare che otto anni prima non gli era riuscito di cedere a De Benedetti per 420 miliardi. Il gruppo godeva ottima salute: per il 1992 il bilancio consolidato esponeva ricavi per 5869 miliardi e un risultato netto di 127, che consentiva la distribuzione agli azionisti di 110 lire per azione, cifra invariata rispetto all’anno precedente. A seguito della scissione del gruppo, voluta da Nobili per far affluire direttamente all’Iri i proventi della privatizzazione, erano nate due nuove finanziarie: la Cbd (Cirio-Bertolli-De Rica) e l’Italgel. In capo alla Sme restano così le attività della distribuzione e della ristorazione, con un fatturato di 3800 miliardi; Cbd ne fatturava 110, e 900 circa Italgel.

    Italgel fu venduta alla Nestlé, la multinazionale svizzera che aveva rilevato da De Benedetti la Buitoni-Perugina, a un prezzo di 437 miliardi che provocò polemiche: faceva anche impressione il fatto che buona parte dell’industria alimentare italiana fosse negli ultimi tempi passata in mani straniere. Il 25 febbraio 1993 l’Istituto, presieduto da Franco Nobili, aveva deciso di vendere con asta pubblica la Cbd: il 15 marzo il Credito Italiano effettuò una valutazione del gruppo tra i 900 e i 1350 miliardi. La finanziaria lucana Fisvi di Saverio Lamiranda si era fatta avanti offrendo 130 miliardi, poi aumentati a 310 miliardi e 708 milioni per il pacchetto del 62,12 per cento delle azioni possedute dall’Iri: si trattava tuttavia dell’unica proposta, anche se non tanto appetibile. La Fsvi era controllata per il 60 per cento da cooperative agricole del Mezzogiorno, mentre fra gli altri soci spiccavano il Banco di Napoli e l‘imprenditore Giuseppe Gravanti, il quale godeva della liquidità ricavata dalla vendita delle sue attività nella produzione di latte, precedentemente cedute alla stessa Sme. Sembrava difficile che la Fisvi potesse provvedere non solo a pagare il prezzo all’Istituto, ma anche alla Opa per 200 miliardi sul resto delle azioni della Cbd. “La voce insistente”, faceva sapere il “Corriere della Sera” il 13 ottobre 1993, “è che la finanziaria abbia l’appoggio di potentati politici, più esattamente della sinistra democristiana campana”.

    Il 29 luglio, quando il consiglio di amministrazione dell’Iri si apprestava a deliberare sul terzo punto all’ordine del giorno, “Sme: cessione del settore industriale”, il presidente Prodi sospese la seduta per convocare un’assemblea straordinaria che, nel corso di trenta minuti, modificò dieci articoli dello statuto sociale dell’Iri spa. Alla ripresa dei lavori, il consiglio decise di abbandonare la strada dell’asta e di procedere invece per trattativa privata.

    Evidentemente Franco Nobili dal carcere non era in grado di illustrare i vantaggi dell’asta competitiva, che lui aveva sperimentato con successo e con unanimi riconoscimenti, come abbiamo visto, al tempo della privatizzazione della Cementir. Per parte sua, il consiglio di amministrazione volle conferire tutti i poteri amministrativi al presidente Prodi il 7 ottobre, con facoltà di “compiere gli atti riferentisi a operazioni, attive e passive, a breve e a medio-lungo termine, di importo non superiore a lire miliardi 500”. Si trattava di una delega amplissima, della quale non aveva mai in precedenza goduto nessun organo dell’Istituto, e in essa rientrava per il valore l’operazione Fisvi-Cbd.

    Quando i particolari della vendita trapelarono, fioccarono le polemiche: Pietro Larizza, segretario generale della Uil, la definì “operazione da supermercato: compri tre per tenerne due”. “C’è una società che acquista e non ha ancora i soldi per pagare; per formare il capitale necessario, vende una parte di ciò che ha comprato; per la parte che rimane cerca ancora i soci finanziatori per completare l’acquisto. Con questo metodo a dir poco discutibile”, concludeva Larizza, “non servono imprenditori acquirenti, basta essere un buon mediatore di affari”.

    A metà novembre la Fisvi non aveva ancora pagato il pattuito; l’aumento di capitale era ancora in itinere, mentre soci come il Banco di Napoli prendevano le distanze. Nel frattempo il parlamentare comunista di Napoli Antonio Bassolino, che poco tempo dopo sarebbe stato eletto sindaco della città, scriveva una lettera al presidente del Consiglio Ciampi, , allegando una nota dettagliata sulle modalità di vendita della Cbd alla Fisvi e sul profilo “imprenditoriale” degli acquirenti. “È infatti evidente”, concludeva, “il pericolo che privatizzazioni fatte a questo modo espongano pezzi strategici del nostro apparato produttivo alle mire speculative e affaristiche”. In una conferenza stampa tenuta a Napoli il 16 ottobre Bassolino ribadiva: “é come se dei nani decidessero di impadronirsi di un gigante”. Alla lettera a Ciampi era allegato il testo di una denuncia alla Procura di Napoli presentata dall’avvocato Giovanni Bisogni.

    Si aprì così un procedimento penale nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione dell’Iri spa, spostato poi a Roma per competenza: qui il sostituto procuratore Giuseppe Geremia affidò al perito Renato Castaldo una consulenza tecnica. Il perito rilevò come Prodi fosse stato dal 23 marzo 1990 al 20 maggio 1993 advisory director, vale a dire membro dello staff dirigenziale che decide le strategie imprenditoriali e le acquisizioni di aziende, della multinazionale Unilever di Amsterdam. Secondo Castaldo, il ruolo della Unilever nell’affare risultava di “regia generale”, come si deduceva dai documenti: “È innegabile e documentato che la Unilever S.A. e la Unilit spa (la filiale italiana) hanno inviato offerte, condotto trattative dirette e indirette con l’Iri e gestito l’acquisto del settore “olio” (la Bertolli) in epoca precedente alla stipula del contratto definitivo fra Fisvi e Iri, predisponendo anche clausole da inserire nel contratto…”.

    In effetti la Fsvi aveva organizzato, prima ancora di divenire proprietaria della Cbd, la vendita della Bertolli alla Unilit, “con il consenso del consiglio di amministrazione dell’Iri, per la somma di 253 miliardi così procurandosi il denaro per pagare il prezzo...”.. addirittura la Fisvi non era stata neppure in grado di presentare la fideiussione di 50 miliardi richiesta dal bando d’asta del 2 marzo: avendone presentata una per soli 5 miliardi, avrebbe dovuto essere esclusa dal gruppo degli aspiranti concorrenti. L’articolo 6 del contratto impegnava l’acquirente ad assicurare la continuità produttiva delle aziende del gruppo Cbd: ma di fatto l’Iri aveva consentito che la Fisvi smembrasse il gruppo prima ancora di averlo acquistato e pagato, e lo vendesse a pezzi, in modo tale che alla fine il finanziere Sergio Cragnotti divenne proprietario della Cirio e della De Rica.

    Secondo i calcoli del perito, se le aziende fossero state vendute separatamente, l’Istituto avrebbe potuto incassare quasi 700 miliardi, ma il pubblico ministero non volle contestare agli imputati la congruità del prezzo: il “nodo cruciale”, come ebbe a dichiarare il magistrato Geremia, si trovava nel conflitto di interessi fra l’advisory director della Unilever professor Prodi, e il presidente dell’Iri Prodi. Ma le richieste dell’accusa non trovarono spazio presso il giudice per le indagini preliminari Eduardo Landi il quale, appoggiandosi a una nuova perizia da lui stesso commissionata su richiesta della difesa, nell’udienza del 22 dicembre 1997 non concesse il rinvio a giudizio dell’allora presidente del Consiglio.

    La vicenda fu tirata fuori il 4 maggio 1999 dal “Daily Telegraph” di Londra, il giorno prima del voto del Parlamento europeo sulla candidatura di Prodi alla presidenza della Commissione, ma il giornalista Evans-Pritchard denunciò di non aver avuto possibilità di accesso ai documenti, inclusa la sentenza di archiviazione di Landi:” Un velo di segretezza è stato fatto cadere sul processo”. Dopo aver incassato sulla propria designazione una esaltante maggioranza, alla conferenza stampa a Strasburgo Prodi era in attesa delle domande dei giornalisti con “quell’aria da gatto che attende il topo all’uscita della tana, un’espressione che lo caratterizza in particolari momenti”, come sottolineava il “Corriere della Sera”. Egli aveva ricevuto sul suo fax quelle quarantasette pagine della sentenza di Landi, sulle quali Evans-Pritchard non era riuscito a mettere le mani, e aveva ammucchiate sul tavolo vicino a sé cinquanta copie del documento. Quando un giornalista del quotidiano belga “Le Soir” gli chiese infine delle accuse del giornale inglese, Prodi rispose che dopo indagini piuttosto lunghe le conclusioni avevano dimostrato “che la misura era assolutamente conveniente e quanto ho fatto era appropriato all’Iri. Il fatto quindi non sussisteva. Si tratta della formula più felice che potesse essere emessa. È rarissimo che si arrivi a questa formula in una sentenza”.

    Con una certa spudoratezza, già nel febbraio 1994, in una panoramica sul suo ultimo mandato all’Iri, pubblicato sul “sole 24 Ore”, col titolo Il mio Iri, Prodi aveva risposto alle critiche mosse alla vendita della Cbd, “chiara dimostrazione di quanto strano sia il nostro Paese. È infatti secolare abitudine agitare lo spettro delle multinazionali che si impadroniscono dell’Italia, ma quando si presenta un acquirente italiano (e per giunta rappresentante soprattutto di cooperative meridionali) si innalza un muro di contrarietà. La nascita di nuove strutture e di uomini nuovi è ritenuto forse un pericolo più grande della vendita a imprese multinazionali”. Davvero Prodi poteva non sapere che la Bertolli sarebbe finita nelle mani della multinazionale Unilever?

    (…)

    Secondo rivelazioni del “Daily Telegraph” del 12 giugno 1999, tra il 1991 e il 1993 la società di Bologna Analisi e studi economici (Ase) ricevette l’equivalente di 1.400.000 sterline per consulenze: Ase, che non aveva dipendenti, era controllata da Romano Prodi e da sua moglie, Flavia Franzoni. Il quotidiano britannico riportò che “secondo Fabrizio Zoli, il segretario della società, quasi tutti gli importi pervenuti alla Ase provenivano da due fonti, la banca americana Glodman Sachs e la multinazionale americana General Electric. Ma questa versione è in contraddizione con quella di un altro associato di Prodi a conoscenza dei conti, Piero Gnudi, il quale ha dichiarato che il denaro proveniva da Goldman Sachs e dalla società anglo-olandese Unilever”.

    Nel novembre 1996, da poco più di sei mesi presidente del Consiglio, Prodi dichiarò al “Corriere della Sera” che “lasciando l’Iri dimostrai qual è la mia etica: non accettai nessuna consulenza in Italia e tra le tante offerte scelsi la banca straniera Goldman Sachs”. Per la verità, dal 1990 al maggio 1993 era stato anche, come abbiamo visto, membro dello staff direttoriale della Unilever; inoltre era stato chiamato da George Soros, lo speculatore sulla lira del settembre 1992, a far parte di un gruppo di lavoro di economisti che si interessavano al piano di Stanislav Shatalin per la liberalizzazione economica della Russia. A fare il nome di Prodi a Soros era stato il professore dell’Università di Harvard Jeffrey Sachs, il quale in seguito venne pregato dai russi di allontanarsi dal paese e di non occuparsi più dei suoi problemi economici.

    Il rapporto con Soros non era superficiale, al punto che il 30 ottobre 1995 con Prodi volle presenziare al conferimento della laura honoris causa in Economia allo speculatore da parte dell’università di Bologna, alla presenza del rettore Roversi Monaco, del professor Zamagni, preside della facoltà di Economia, e di Beniamino Andreatta, i quali poi andarono tutti a cena dall’imprenditore Giuseppe Gazzoni Frascara: eppure Prodi, all’epoca già entrato nell’agone politico alla testa della coalizione dell’Ulivo, avrebbe dovuto essere più attento alle frequentazioni. Il 3 maggio 1999, sul “Corriere della Sera”, il giornalista Ivo Caizzi notava le difficoltà che avrebbero potuto essere frapposte a Prodi dal Parlamento europeo per la nomina a presidente della Commissione, e con una certa malignità elencava i rapporti con i Ferruzzi, con gli imprenditori Saverio Lamiranda per la Cbd, Sergio Cragnotti e Angelo Rovati, vecchio amico, già presidente della Lega Basket, rinviato a giudizio il 25 marzo 1998 dal giudice per le indagini preliminari di Milano Maurizio Grigo per una presunta intermediazione in una tengente; nonché per “aver appoggiato l’ascesa in Comit di Enrico Braggiotti, diventato superlatitante di Tangentopoli”. E così concludeva: “Gli potrebbe venir chiesto anche della sua pluriennale frequentazione con lo speculatore internazionale George Soros, confermata al “Corriere” dopo l’insediamento a Palazzo Chigi come capo del governo”.

    La questione dei rapporti tra Prodi e le centrali della finanza globale è delicata per l’alternarsi nella stessa persona di incarichi politici in Italia e infine nella Eu e di consulenze private. “Per quanto riguarda essere di centro, di destra o di sinistra, una cosa è certa: io non sono mai stato consulente della Goldman Sachs”, ironizzò l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 1995, quando Prodi, che dopo l‘uscita dall’Iri nella primavera 1994 era ritornato a fare il consulente della banca di affari americana, si apprestava a mettere insieme la coalizione di democristiani di sinistra e post-comunisti”.

  2. #2
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    Citazione Originariamente Scritto da c@scista
    Questa è la biogrfia del probabile nuovo presidente del Consiglio:

    [...]
    E questa è quella del prossimo ex...

    http://www.politicaonline.net/forum/...d.php?t=209958

  3. #3
    Super Troll
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    Citazione Originariamente Scritto da antonio
    a me, per scegliere, basta la biografia di berlusconi....dai suoi esordi alla banca rasini, alle sue proficue frequentazioni con Stefano Bontade, alla sua iscrizione alla P2, alla sua liason con dell'utri, mangano e previti...alla serie interminabile di leggi ad personam...
    Berlusconi è ormai politicamente finito e galoppa verso una inevitabile sconfitta per cui non vale nemmeno la pena interessarsene mentre Prodi sta per essere eletto Presidente del consiglio per cui è molto più interessante conoscere la sua biografia per rendersi conto su chi è veramente questo oscuro tecnocrate che tornerà al governo e su quali potenziali danni potrebbe fare.

  4. #4
    decerebrato consapevole
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    Predefinito Prodi e l'IRI

    In questo periodo di propaganda tornano antichi refrain, tipo la gestione dell'IRI di Prodi.

    Qualcuno sa sintetizzarmi con dati di fatto se Prodi ha gestito bene o male l'IRI?
    "Preoccuparsi e' inutile. Infatti se esiste una soluzione al problema non ha senso preoccuparsi. E se la soluzione non esiste allora perche' preoccuparsi?" - Ignoto.

  5. #5
    vae victis
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    A cazzotto Prodi ha risanato l'Iri a forza di privatizzazioni e svendite(che genio... ),e grazie all'aiuto consistente dei soldi che ogni anno gli venivano "devoluti" dalle finanziarie...Poi moralmente il fatto che sia stato messo all'Iri da De Mita la dice tutta.

  6. #6
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    Citazione Originariamente Scritto da XT
    In questo periodo di propaganda tornano antichi refrain, tipo la gestione dell'IRI di Prodi.

    Qualcuno sa sintetizzarmi con dati di fatto se Prodi ha gestito bene o male l'IRI?
    Thread di pura provocazione (l'ennesimo).

    Qualunque cosa ti si dica tu hai già una tua verità in tasca. Mi sbaglio?

  7. #7
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    Avete rotto con questa storia dell'IRI. Gli archivi di POL sono pieni di 3D provocatori su questa storia, con le risposte (nomi, anni, cifre) di chi si è documentato, per rispondere ai bananas ignoranti.
    Sarebbe ora di finirla, andate a leggerveli e parliamo di attualità.

    Per quanto mi riguarda, il 3D non ha più nulla da dire e si può anche chiudere.
    Pertanto, chiedo all'Amministrazione di provvedere.

  8. #8
    decerebrato consapevole
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    Citazione Originariamente Scritto da Curioso
    Avete rotto con questa storia dell'IRI. Gli archivi di POL sono pieni di 3D provocatori su questa storia, con le risposte (nomi, anni, cifre) di chi si è documentato, per rispondere ai bananas ignoranti.
    Sarebbe ora di finirla, andate a leggerveli e parliamo di attualità.

    Per quanto mi riguarda, il 3D non ha più nulla da dire e si può anche chiudere.
    Pertanto, chiedo all'Amministrazione di provvedere.
    Guarda che io cerco proprio questo. Se mi dai qualche link vado a leggermelo.

    Come faccio ad usare il CERCA?
    "Preoccuparsi e' inutile. Infatti se esiste una soluzione al problema non ha senso preoccuparsi. E se la soluzione non esiste allora perche' preoccuparsi?" - Ignoto.

  9. #9
    Makeru ga, katta
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    Certo però che è strano che i maldestri non abbiano ancora ritirato fuori l'Iri, visto che siamo in campagna elettorale.

    Tra l'altro vedo anche poche discussioni sul miliardo di morti commessi dai comunisti. Vabbene che ora è la moda delle foibe, ma mi preoccupo. Non è che si sono rotti anche i pollisti più duri?
    _______________________
    Gli zeri, per valere qualcosa,
    devono stare a destra.

  10. #10
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    La storia delle provocazioni l'ho già sentita.....

 

 
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