Il grande imbroglio del «pareggio»
di Vincenzo Vasile
14 Febbraio 2006
Il governo prima cambia la legge elettorale poi finge di accorgersi che qualcosa non va

Ingovernabilità.
Pareggio.
Parole-chiave di quest’avvio di campagna elettorale. Il fantasma è stato evocato dagli apprendisti stregoni del centrodestra con il pasticcio della nuova legge. Tutto prevedibile. Tutto previsto.
I premi di maggioranza «regionali» previsti per il Senato dalle nuove norme possono infatti provocare - in caso di vantaggio risicato di una delle coalizioni - uno stallo istituzionale senza precedenti. Cioé la formazione di una maggioranza differente per ciascuno dei due rami del Parlamento. Ora sono Marcello Pera e Pier Ferdinando Casini a interrogarsi su questi possibili effetti di una storpiatura costituzionale che reca la firma della Casa delle Libertà. Quindi, anche la loro firma.
Ma per Casini la colpa sarebbe dell’opposizione, e non si capisce perché; e lo stesso Berlusconi aveva qualche giorno fa oscuramente tirato in ballo persino Carlo Azeglio Ciampi che, però, l’ha rimproverato a quattr’occhi di aver truccato le carte in tavola (lui era più che perplesso su quella norma), e tanto per cambiare il premier ha ritrattato: era stato frainteso, o aveva frainteso, non si sa, e poco importa).
A ben vedere, è una specie di disconoscimento di paternità: dopo aver votato la legge-pasticcio, con un colpo di maggioranza che al momento venne propagandato come prova di compattezza sulle cosiddette «riforme», ora gli esponenti del centrodestra usano gli stessi argomenti che erano stati formulati dall’opposizione durante il dibattito parlamentare. Ma quell’allarme era stato lanciato per tempo dal centrosinistra: cioé quando ancora si poteva far qualcosa per modificare la legge, per evitarne i disastri che adesso vengono così coralmente vaticinati.
Ora, che rimane da fare? Non c’è riscontro al Quirinale dell’eventualità prospettata da un autorevole commentatore come Andrea Manzella, in un fondo su Repubblica: la correzione in corsa del pasticcio attraverso un decreto legge, che in teoria - ma solo in teoria - potrebbe essere approvato pur dopo lo scioglimento delle Camere. Per condurre in porto l’operazione ci vorrebbero, scrive Manzella, almeno tre garanti: i presidenti delle due Camere e il presidente della Repubblica.
Sul Colle,, in verità, non si è ancora fatto vivo nessuno per proporre questa mediazione, e Ciampi sarebbe del resto abbastanza poco entusiasta della prospettiva, da considerare quanto meno «poco realistica». Anche e soprattutto perché non sembra che vi sia assolutamente un clima politico tale da consentire che venga concordata in extremis dai due Poli qualche operazione di ingegneria elettorale. L’opposizione difficilmente si metterebbe attorno a un tavolo per trattare un compromesso che, oltre a essere difficilmente concepibile sul piano tecnico, non verrebbe capito.
Dentro la maggioranza ci sono, del resto, tante di quelle forze, e tante altre potrebbero sorgere, che sotto sotto, si riservano la carta del «pareggio», nell’illusione di fare da ago della bilancia per la prossima legislatura. E c’è anche da notare che i conti in casa Cdl da qualche giorno non danno più affatto per scontato il pareggio: Lazio, Piemonte, Friuli e Puglia non è detto che vadano al centrodestra. Per non parlare del peso dei senatori a vita, e dei sei senatori che verranno eletti all’estero. Sono tutti segni concordanti del fatto che l’unica vera maniera per vincere lo spettro dell’ingovernabilità non passa attraverso la ragioneria istituzionale: occorre che si voti, e si voti in massa per dissipare questa paura.
Solo con un voto massiccio all’Unione l’esito della partita non verrebbe affidato al computo dei risultati relativi a una quindicina di seggi. Ma alla risposta a quell’appello che Ciampi ha formalizzato il giorno dello scioglimento del Camere: in questa campagna elettorale si stia attenti ad attuarne le «precise regole», e si parli soprattutto dei problemi del Paese.