La borghesia compradora globale
Maurizio Blondet
16/02/2005
Il dottor Padoa SchioppaMittal Steel, il gigante indiano dell'acciaio, sta scalando l'Arcelor, gigante metallurgico franco-lussemburghese.
E poiché il governo francese prova a resistere in nome dell'interesse nazionale, viene continuamente deriso dai media finanziari anglo-americani: vecchiume protezionista.
La ditta che nascerebbe dalla fusione Mittal-Arcelor controllerebbe, dice derisorio il Financial Times, «solo» il 10% del mercato mondiale dell'acciaio (1).
Di ben altro ci si deve preoccupare: per esempio, dice il giornale della finanza britannica, del fatto che tre aziende controllano il 75% della intera produzione planetaria di minerale di ferro.
Che la Samsung sia avviata ad essere l'unico produttore mondiale di schermi piatti e di circuiti per computer D-Ram.
Che in Gran Bretagna, quattro ditte detengano il 94 % di tutte le vendite nei supermercati.
Che Wal-Mart in USA venda il 30% dei prodotti di consumo del suo campo.
Che dieci compagnie americane si accaparrino il 50% delle vendite al dettaglio, e alcune di queste controllino il 75% di una singola merce.
Che Nike e Adidas si accaparrino il 60% del mercato mondiale delle carabattole sportive.
Che la fusione di Procter & Gamble con la Gillette abbia formato un monopolio del settore specifico, senza suscitare proteste.



Insomma, il Financial Times scopre un fatto già visto e previsto secoli fa da David Ricardo e Karl Marx: che il liberismo lasciato a se stesso, specie se globale, non produce concorrenza, ma il suo contrario: forma oligopoli, infine monopoli privati.
Non basta.
Il Financial Times scopre - come un innocente Adamo che avesse appena mangiato il frutto dell'albero della conoscenza - che questi oligopoli globali «catturano profitti spropositatamente alti», sottoponendo a ricatto i consumatori.
Che esercitano un influsso schiacciante anche sul potere politico («basta guardare la presa della Boeing sull'amministrazione Bush»; e avrebbe potuto citare la Halliburton, la Lockheed, la Northrop Grumman).
Che esercitano «un controllo artificiale sulle tecnologie», decidendo loro «quali portare sul mercato e quando», e per contro chiudendo nei cassetti tecnologie che non fanno comodo a loro, o possono minacciare il loro monopolio.



La vera novità sta però in un'altra accusa: le multinazionali-monopolio sono le responsabili della «delocalizzazione» dei posti di lavoro all'estero, nella forma estrema che soffriamo oggi. Perché?
Forse non tutti sanno che dopo la tragedia del '29, provocata in parte anche dalla comparsa di immensi oligopoli privati, quasi tutti gli Stati vararono leggi anti-trust; e in USA, queste erano particolarmente severe.
Le imprese non potendo più, a causa di queste norme, comprarsi e divorarsi i concorrenti con fusioni per accaparrarsi l'intero mercato (espansione «orizzontale»), crebbero per integrazione «verticale»: cercarono economie di scala producendo in casa tutte le parti e i semilavorati di cui avevano bisogno.
Ma quelle leggi anti-monopolio sono state nel frattempo cancellate, su pressione delle stesse lobby degli affari.
Cominciò a indebolirle Ronald Reagan, negli anni '80; Bush, l'amico degli oligopoli delle armi e del petrolio, ha completato l'opera.
Nello stesso Giappone, nuove norme consentono a singole aziende di consolidare un monopolio del 100 % su certe tecnologie-chiave.



Di nuovo libere di espandersi orizzontalmente, le mega-imprese hanno venduto o chiuso le loro divisioni interne dedite alla manifattura, ricerca e sviluppo (attività costose e rischiose) e si sono andate a comprare questi «servizi» nel mondo, da fornitori che non avevano altra via al mercato che ricevere ordinativi dalle mega-imprese.
E naturalmente, sono queste ultime a fare i prezzi, non i fornitori.
Ciò ha provocato una metamorfosi maligna delle stesse multinazionali dominanti: da imprese produttrici, industriali, si sono trasformate in conglomerati commercial-finanziari.
Non producono, ma si limitano a comprare e rivendere ai prezzi maggiorati che sono in grado di imporre grazie alla loro posizione di monopolio.
Ciò che in Sudamerica è accusata di fare la classe «dirigente» locale, la cosiddetta «burguesia compradora» - ricchi che non producono, ma solo rivendono - avviene ora su scala planetaria.
E' nata la borghesia compradora globale.
Con tutti i vizi della più antica borghesia compradora: profittatrice e collusa con governi autoritari.



Ma c'è di peggio.
La nuova espansione orizzontale ha degradato la stessa produzione industriale come sistema e come qualità.
Perché?
Il motivo è intuitivo: i produttori di beni o componenti, che non ottengono la quota giusta di profitto (accaparrata dai mega-monopoli), non hanno i mezzi per pagare la ricerca e l'innovazione, e talora nemmeno per mantenere gli impianti e la forza-lavoro qualificata.
E', in fondo, quel che succede alla Cina: non riceve abbastanza della sua quota di profitto dai delocalizzatori globali, che la incaricano della produzione di massa di merci.
Le merci cinesi sono a basso prezzo ma spesso dozzinali.
Lo spostamento delle lavorazioni in Cina ha trasferito la «concorrenza» su un piano sinistro: non più sul prodotto migliore al miglior prezzo, bensì sul lavoro meno pagato.
E' una rovinosa competizione verso il basso, dove le mega-imprese acquistano sempre più potenza e profitto mettendo fornitore contro fornitore, Paese contro Paese, operaio cinese contro operaio europeo o americano.



In altre parole, non è tanto la Cina che ci «ruba» posti di lavoro, ma sono i monopoli globali privati, forti della loro dominanza commerciale (dominano, coi supermercati, anche il dettaglio) a «rubare» ai cinesi e ai nostri lavoratori la quota di profitto che spetta loro; mettendo, in più, gli uni contro gli altri, onde le mega-imprese possano lucrare sempre di più.
La conclusione sorprendente è che la globalizzazione è rovinosa per il «libero mercato» e soprattutto per le società umane; che è inoltre regressiva, frenando il progresso in nome di profitti di posizione.
Ciò non impedisce al Financial Times di deridere Chirac, colpevole di protezionismo perché difende l'europeità della Arcelor contro la Mittal indiana.
E di approvare, invece, il governo Blair per aver impedito alla Gazprom russa di comprare la Centrica, un'impresa britannica distributrice di gas.
Ciò, perché mentre la Mittal «è una multinazionale senza-Stato», la Gazprom è un'impresa statale di fatto, «longa manus del Cremlino».
Così quello di Blair non è protezionismo passatista, quello di Chirac sì (2).



Come si vede, i dogmi del capitalismo liberista sono fermi e fissi.
I sacerdoti del «mercato» dettano le regole, e se le cambiano a loro piacimento.
Ma almeno, sui giornali britannici del business, qualche problema se lo pongono.
In Italia, no: i sacerdoti nostrani del liberismo, poco informati, continuano ad agitare il turibolo alla presunta «libera concorrenza» favorita dalla globalizzazione.
Di recente Tommaso Padoa Schioppa è tornato a ripetere, su Il Corriere, la litania liberista, elogiando la «distruzione creativa».
Distruzione creativa, «ora pro nobis».
Di che si tratta?
Il concetto è in circolazione da quando la nascita delle ferrovie distrusse il grande business delle carrozze a cavalli.
Persero il lavoro milioni di vetturini e maniscalchi, chiusero le stazioni di posta; ma i licenziati trovarono presto impiego nelle ferrovie e nelle nuove industrie che (allora) nascevano come funghi.



Ora Padoa Schioppa applica il concetto alla concorrenza globale, soprattutto alla Cina che risucchia i nostri lavori a milioni.
Dice: è «distruzione creativa», un sano processo del capitalismo.
Voi tessili, calzaturieri, metalmeccanici che perdete il lavoro a causa dei cinesi pagati dodici volte meno di voi, dovete rallegrarvi: il bisogno aguzza l'ingegno.
E' per voi l'occasione di balzare verso nuovi lavori, più elevati e migliori.
Vi licenziano?
Bene.
Siate più inventivi, datevi da fare, escogitate idee nuove.
Viene da dire: senti chi parla.
Proprio Padoa Schioppa, nella sua lunga carriera di strapagato grand commis pubblico, da Bankitalia fino alla Banca Centrale Europea, non tira fuori un'idea nuova da decenni.
Continua a ripetere le giaculatorie dogmatiche del mondialismo, di cui è gran sacerdote.
Anche il concetto di «distruzione creativa» non è invenzione sua: è un'idea che Schumpeter elaborò nel 1912.
Un secolo fa, in un periodo di grande sviluppo tecnico ed economico garantito però dal protezionismo degli Stati e da alti dazi doganali a difesa della produzione interna.
Idea vecchissima, e mai aggiornata dai liberisti.



I tempi sono cambiati: sarebbe bene che, prima dei giovani disoccupati, Padoa Schioppa si facesse venire qualche nuova idea.
O almeno adattasse le vecchie alla nuova situazione; o almeno leggesse il Financail Times.
Provi a pensare a questo, per esempio: ciò che cercano i capitali che emigrano in Cina non è un «vantaggio comparativo»; è il vantaggio «assoluto» dei salari bassissimi e del lavoro schiavistico, senza difese sindacali.
Persino il dio di Padoa Schioppa, Adam Smith, diceva che la ricerca del vantaggio «assoluto» è regressiva, e peggiora le condizioni generali dell'economia.
Le merci cinesi, prodotte a basso costo, devono comprarle i consumatori ad alto reddito dell'Occidente.
Ma in Occidente il potere d'acquisto si abbassa, perché i salari spariscono e vanno in Cina.
Verrà il momento in cui le merci cinesi, anche a prezzi stracciati, non troveranno compratori.
In tal modo, il liberismo globale sega il ramo su cui è seduto.
Distrugge ricchezza e competenze da noi, e veleggia verso un futuro di «sovrapproduzione» e di enormi invenduti.



Come si vede, anche il dottor Padoa Schioppa non è aggiornato.
Non è competitivo.
Quanto guadagna alla BCE?
Il governatore della Banca Centrale Europea, Trichet, prende oltre 500 mila euro l'anno.
Immagino che il suo stipendio non sia lontano da quella cifra.
Ebbene: il governatore della Banca Centrale USA si contenta di 160 mila euro annui.
E di solito è più bravino ed ha qualche responsabilità in più, come dimostra la mobilissima gestione monetaria americana in confronto a quella europea, che è paralitica.
Se quello in cui Padoa Schioppa vive fosse un «mercato», noi contribuenti, che paghiamo il suo stipendio da Sardanapalo, lo avremmo già licenziato per assumere, al suo posto, un più economico e dinamico economista americano.
Ma naturalmente Padoa Schioppa, come tutti i banchieri pubblici, si è messo al riparo dalla concorrenza.
Non ha concorso a quel posto profumatamente pagato: vi è stato cooptato da poteri forti.
E non perché abbia dimostrato di essere bravo, ma perché sa ripetere a memoria le giaculatorie dogmatiche.
Distruzione creativa?
Ora pro nobis.
Mai un suggerimento su quali «nuovi lavori» dovremmo escogitare.
Beh, non possiamo più permetterci di pagare uno come Padoa Schioppa: è fuori mercato.

Maurizio Blondet




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Note
1) Barry Lynn, «Wake up to the old-fashioned power if the new monopolies», Financial Times, 14 febbraio 2006.
2) Guy de Jonquieres, «The great 'national interest' fallacy», 14 febbraio 2006.




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