«Svizzera di Cosa Nostra»
Così Giovanni Falcone chiamava Trabia, nel palermitano: per anni retta dal patto tra l’ex sindaco di Fi e i clan mafiosi.
Tre giorni fa gli arresti che hanno decapitato la piovra.
Ma in città scorazzano ancora «bossolotti» e lottizzatori.
Trabia, dove la Mafia sceglie Forza Italia
19 Febbraio 2006
Saverio Lodato
Una volta tanto, caso rarissimo in Sicilia, l'opinione pubblica era arrivata prima del blitz, del tintinnio delle manette, degli ordini di cattura, e delle confessioni dei pentiti, sentenziando nel maggio scorso, nel segreto dell'urna, che la banda mafiosa dei Rinella e quelli di Forza Italia, dovevano essere mandati a casa. Da tre giorni, la magistratura, ha provveduto a spostarli da casa loro alla casa circondariale. Stiamo parlando di Trabia, meno di una quarantina di chilometri da Palermo, novemila abitanti che si triplicano d'estate con i villeggianti, adagiata su una piccola collina che degrada sul mare, dove un piccolo terremoto giudiziario decapita una ex mafia e una ex classe dirigente.
Quando diciamo “ex” mafia, non intendiamo mancare di rispetto a nessuno o sminuire il peso specifico di questo centro che insieme a Caccamo e Altavilla Milicia, Giovanni Falcone definiva - da autentico intenditore - «La Svizzera di Cosa Nostra».
Intendiamo solo dire che, per una di quelle curiose lezioni che ogni tanto la Storia sa impartire nei posti più impensati, questa mafia si era apparentata con una classe politica, quella di Forza Italia che, anche questa, appare irrimediabilmente una «ex» classe politica.
Vi racconteremo del nuovo sindaco, di una maggioranza di cittadini silenti, ma in grado di intendere e di volere, di illustri casati ormai ridotti a larve araldiche, di lottizzatori che ancora no, non si rassegnano a considerarsi «ex» anche loro. Ma sappiate anche che a inizio anni '80, sulle montagne di Caccamo, a due passi da qui, venne catturato Michele Greco, il «Papa» di Cosa Nostra, poi sostituito da Totò Riina.
Che il boss Milano aveva a Trabia la sua casetta sul mare, e quando rientravano i pescherecci, acquistava dalla sua terrazza, con un semplice cenno della mano - che significava: «Tutto questo pesce è mio» - , l'intero pescato della giornata..
Che a Trabia, il boss Gerlando Alberti, e il clan dei chimici marsigliesi Bousquet, Rannem e Bozzi, raffinavano vagonate di oppio grezzo prima di ritrovarsi all'Ucciardone. La Svizzera, insomma: rifugio di latitanti, di vacanze dorate per i boss, di scempio edilizio grazie ad amministrazioni comunali nei secoli fedeli e compiacenti.
Ma oggi? Il tabaccaio del corso principale, a due passi dalla Chiesa Madre intitolata a Santa Petronilla, dice che una buona parte degli arrestati li conosceva: «Perché erano fumatori». E chi fuma si sa, mafioso o non mafioso, prima o poi in tabaccheria ci deve entrare. Aggiunge che è rimasto sorpreso, ma che ci fosse la mafia lo sapeva, e lo ha sempre saputo. I trabiesi, forse per effetto della vicinanza del mare che alla lunga schiarisce le idee, sono una particolare specie di siciliani: all'indomani del blitz non negano che Cosa Nostra da queste parti abbia sempre goduto di buona salute, né, soprattutto, tirano fuori la solita cantilena su giornali e televisione che rovinano l'immagine di un «paese per bene».
Passano dalla casa alla cella: l'ex sindaco per un decennio, sino al 2002, Giuseppe Di Vittorio (Forza Italia), democristiano legato a Salvo Lima, ai tempi della prima repubblica; Giovanni Ciaccio, capo dell'ufficio tecnico del Comune, messo in quel posto dalla mafia; Diego Rinella, il figlio d'arte dei Rinella, visto che è fratello di Totuccio già condannato all'ergastolo, capo mandamento di Caccamo; un terzetto di imprenditori del movimento terra e delle cave, Salvatore Buttitta, considerato uomo di Bernardo Provenzano, Innocenzo Ponziano, e Salvatore La Barbera…
Sergio Lari, procuratore aggiunto a Palermo e titolare dell'indagine, spiega che tutto parte nel 2001 e le intercettazioni ambientali in un capannone portano alla sconcertante conclusione che i rappresentanti più significativi della giunta comunale dell'epoca si riunivano alla periferia del paese al riparo da occhi indiscreti. Che portano alla sconcertante conclusione che i boss consideravano Nino Mormino, avvocato fra i più in voga, parlamentare, nonché vice presidente della commissione giustizia della Camera, «cosa loro» (la posizione di Mormino, però, venne archiviata dalla Procura, con la motivazione che non è mai stata trovata la prova che il penalista avesse scambiato voti con favori).
Insomma, per questo è «ex» mafia, per questo è «ex» classe politica. Il loro momento d'oro l'avevano già goduto. Superati, bruciati, accantonati dalla Storia che, per quel curioso paradosso di cui dicevamo prima, spesso sembra anticipare i nuovi grandi scenari partendo da questo, più o meno significativo, ombelico del mondo. Alle comunali del maggio 2005, con uno scarto di sette punti, il centro sinistra elegge sindaco Salvatore Piazza della Margherita, avvocato, 67 anni, una vita spesa nella DC dei Mattarella, i giovani leoni che a fine anni 70, iniziarono una personalissima battaglia contro limiani, ciancimiani, andreottiani, quando per farlo, dall'interno dello scudo crociato di Sicilia, di coraggio ne occorrevano dosi robuste. Piazza mi dice che questi non sono boss. Li chiama «bossolotti».
Spiega che sta ereditando ancora oggi l'assenza di un piano regolatore. Che su novemila abitanti, in 2666 hanno presentato domanda di sanatoria edilizia. Che esiste ancora il partito dei «lottizzatori», rimasti orfani di «ex» mafia e «ex» politica, i quali, con cavilli da legulei, vorrebbero mettere le mani sugli ultimi brandelli di collina e non disdegnerebbero una colatina di cemento sino al mare. Già il mare. E qui la nobiltà, e qui l'araldica.
Non si avverte più neanche l'ombra del vecchio principe Raimondo Lanza, signore e padrone di Trabia, paese che sino al 1643 altro non era che un «borgo» di Termini Imerese. Ma proprio in quell'anno, Ottavio II Lanza di Trabia, illustre antenato del principe, con alcune casse di monete d'oro e quantitativi industriali di biscotti, strappò ai termitani, per Trabia, l'ambito titolo di «comune». Povero Raimondo Lanza.
Del vecchio principe restano davvero poche tracce: un meraviglioso castello in riva al mare oggi ridotto in rovina, una tonnara, inglobata e trasformata in albergo, il suo stemma che ormai si vede solo controluce, sulla fontana della piazza principale di Trabia, dove una volta si abbeveravano i cavalli. Ci fu un tempo, in Sicilia, in cui la mafia divorò, boccone dopo boccone, la nobiltà e le sue grandi proprietà.
Oggi è tutto «ex». Tranne… Tranne quest'opinione pubblica, silente ma raziocinante, che, in quel di Trabia, ha saputo dare un calcio al passato.