Un anno alla Casa Bianca
Agli americani è bastato il 2009 per stancarsi del presidente Obama
di Marco Respinti
l'Occidentale, 31 Dicembre 2009
Il presidente degli Stati Uniti d'America Barack Hussein, eletto il 7 novembre 2008 e insediatosi ufficialmente alla Casa Bianca il 20 gennaio 2009, è giunto al giro di boa del primo anno. È ora dunque di bilanci. Soprattutto perché, vista retrospettivamente, l'aura un po' mistica e un po' superomistica che ne ha accompagnato, in un crescendo vorticoso, l'ascesa ai vertici istituzionali del Paese nordamericano ha dipinto uno scenario a dir poco grottesco. Come scordare, infatti, l'attesa del tocco taumaturgico ai mali veri e presunti degli Stati Uniti che Obama sembrava promettere, con tutti, ma proprio tutti, a giurare che sarebbe stato effettivamente così? Come dimenticare i fiumi di retorica, del tutto a buon mercato, che ne hanno accompagnato l'elezione? Ma la realtà si è dimostrata davvero diversa, come eloquentemente dimostrano gl'indici di gradimento del presidente che, dopo le fiammate iniziali, sono calati in modo costante e vistoso.
A parte qualche commentatore cocciuto (negli Stati Uniti, ma più spesso all'estero, per esempio in Italia) e al di là di qualche interessato supporter venato più di gratuita ideologia che di doveroso pragmatismo, l'enorme linea di credito che la nazione americana ha infatti accordato alla “promessa Obama” si è sostanzialmente prosciugata, e tutto sommato lo ha fatto in fretta. Alla vigilia dell'elezione, infatti, a fronte di otto anni di presidenza segnati, nel bene e nel male, dalla forte personalità politica di George W. Bush jr., era piuttosto semplice, per Obama e per il suo staff di consiglieri, promettere, a parole, una virata secca d'indirizzi. Del resto, era parso semplice persino al modesto senatore Repubblicano John McCain potersi smarcare dalla linea Bush, salvo poi dimostrarsi totalmente incapace d'incassare quella cambiale in bianco rivelatasi quindi scoperta. A Obama, in grado di giocare carte che per McCain era impossibile anche solo ipotizzare, il giochino è riuscito meglio e quindi il bluff è durato solo più a lungo. Ma tutto ciò, da un certo punto di vista, riguarda il passato. Il presente è invece quello di un presidente ancora e sempre sostanzialmente privo dell'esperienza politica necessaria a guidare un Paese difficile e complesso come lo sono gli Stati Uniti, mancanza a cui Obama cerca quotidianamente di sopperire utilizzando quel che ha a disposizione, e cioè anzitutto i precedenti “vincolanti” stabiliti dal suo predecessore.
Questo è del tutto evidente in politica estera, settore strategico e vitale dell'azione pubblica statunitense, che Obama interpreta sfoderando sempre la propria consueta retorica buonista allorché si tratta di giocare con le parole, salvo poi, quando si tratta invece di agire concretamente, correggersi subito, di fatto ripiegando lungo la scia tracciata (autorevolmente, va detto, se non altro con l'autorevolezza oggettiva dei fatti) da Bush. L'esempio più clamoroso, lo sappiamo tutti, è quello dell'assegnazione a Obama del Premio Nobel per la pace: eccola qui l'evidenza principe di quell'aura che continua comunque a circondare la figura del presidente statunitense (cos'avrebbe mai fatto Obama, in pochissimi mesi, per guadagnarsi tanto riconoscimento?), a cui però egli risponde (vedere il suo discorso alla cerimonia d'investitura) con un realismo ben diverso dal presunto pacifismo che alcuni vorrebbero connotasse la sua politica e assai più simile al decisionismo dei cosiddetti “falchi” Repubblicani. Lo stesso è stato del resto vero quando si è trattato di affrontare la famosa e annosa vicenda della prigione militare per terroristi di Guantanamo, dove, nonostante qualche gaffe, il dietrofront pubblico compiuto da Obama rispetto alle parole temerarie di solo poco tempo prima è stato, per un progressista come lui, tanto clamoroso quanto “conservatore”.
Insomma, l'Obama dei sogni sta giorno dopo giorno lasciando il campo a un interprete pragmatico della politica statunitense, quasi come se il ruolo che egli si trova a svolgere a capo del Paese più potente del mondo lo stesse gradualmente educando alla realtà. È questa per esempio la linea di lettura preferita in Italia da un osservatorio di grande qualità circa i percorsi politici statunitensi qual è Il Foglio di Giuliano Ferrara, il quale, decisamente favorevole di norma più ai Repubblicani che ai Democratici, certamente più a Bush Jr. che a Obama, ha scelto la strada solitaria e coraggiosa di sottolineare di Obama più il continuismo statunitense (giacché esiste un modo specificamente statunitense di esercitare la presidenza, al di là di chi sia fisicamente il presidente in carica) che non le ridotte novità politiche. Insomma, l'Obama di un anno dopo è un presidente federale degli Stati Uniti per certo criticabilissimo, ma sostanzialmente rientrante nella norma dei canoni tipici dell'azione politica statunitense; certamente non la panacea di ogni male come si è sin troppo a lungo voluto. Un americano alla Casa Bianca, dunque.
Ma se ciò è vero sul piano della politica estera (con il sospetto che le virtù di Obama siano dovute più alla pressione esercitata degli scenari internazionali che a farina del suo sacco), nell'ambito della politica domestica le cose stanno ben altrimenti. Qui la distanza rispetto all'Amministrazione Bush jr. è massima,e ciò a consuntivo. Alla Casa Bianca, insomma, un tipo un po’ meno americano.
Infatti, i molti, troppi americani che poco più di un anno fa hanno votato Obama sull'onda di una forte carica emotiva e sentimentale (un numero che non esaurisce la totalità della sua constituency, ma che ne ha rappresentato una fetta amplissima) sono i primi a sedere oggi nel palco dei delusi. L'economia americana, per esempio, uno dei motori centrali dell'intera economia mondiale, langue ancora in grosse difficoltà; soprattutto è sempre difficile la situazione per milioni di quegli americani medi che infondatamente immaginavano che Obama, per il solo fatto di essere Obama, avrebbe fatto il miracolo. Ora, la crisi economica è ancora tutta lì, e soluzioni concrete se ne vedono poche. Soprattutto, poi, esse non dipendono da Obama, buono o meno che egli sia.
E se il motore della ripresa non è ancora entrato a regime, se gli “stimoli” all'economia statunitense predisposti dalla Casa Bianca obamiana hanno avuto il sapere di una ennesima iniezione di velenoso statalismo (la morte civile della vera libertà economica a favore dei cittadini medi), se al massimo di essi hanno beneficiato alcuni grossi complessi industriali ma non gli small business e le famiglie dei taxpayer, certo la colpa non è da imputare tutta a Obama, ma idem non era, un paio di anni fa abbondanti, d'attribuire l'intera colpa del disastro della finanza americana alla politica di Bush come invece si è subito fatto. Se infatti le colpe della catastrofe sono e restano quelle di una libertà economica autoscontatasi del dovere della responsabilità, cioè la pirateria di certi tycoon che costituisce il contrario stesso dello spirito capitalistico autentico, risibile era ieri incolpare Bush del tracollo così come oggi Obama degli stenti; ma se con Bush ci si è andato pesanti, perché, pensano ormai in molti Oltreoceano, bisognerebbe invece usare il guanto di velluto con Obama? La politica ha infatti le sue responsabilità, anche oggettive, e pure i suoi concorsi esterni.
Al netto del gioco sporco della politica sporcata e della crocifissione preventiva degli avversari, con conseguente esaltazione acritica degli sfidanti, cosa resta oggi negli Stati Uniti dopo un anno di ricetta Obama? Un Paese ancora in crisi e per di più deluso, magari pure più di prima, e questo anzitutto perché il salvatore presunto si è rivelato un falso profeta. Si aggiungano infine al conto le goffe mosse fatte da Obama a colpire la sensibilità di milioni di cittadini americani anche suoi elettori e il quadro diviene tragico: per comprenderlo basta ripassare i risultati ottenuti dai referendum su tematiche “eticamente sensibili” celebrati in concomitanza delle ultime elezioni per la Casa Bianca, per considerare poi bene chi e dove ha vinto cosa, e questo in parallelo alla mappa dei luoghi in cui Obama ha fatto man bassa di voti. Sono cioè stati gesti a dir poco imbarazzanti, quelli compiuti da Obama nel corso dell'ultimo anno, su temi importanti di bioetica, sul diritto negato alla vita, persino su questioni di religione pubblica (che negli USA sono sempre cosa assai seria, anche se noi continuiamo a non capacitarcene), i quali, aggiunti alla grande rivolta popolare che negli USA sta montando contro l'abnorme pressione fiscale, totalizzano un carnet diciamo scarsino. Ecco, si chiama redde rationem. Avremmo scommesso che gli americani si sarebbe stancati di Obama parecchio più tardi. Abbiamo sbagliato, per l'ennesima volta, anche questa profezia sul dopo-Bush. Per ciò guarderemo con interesse rinnovato e crescente le elezioni di medio termine del novembre 2010.
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