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    Predefinito Israele in Africa, alla ricerca di un paradiso perduto (parte 1/2)

    Israele in Africa, alla ricerca di un paradiso perduto (parte.1/2)

    :::: René Naba :::: 26 ottobre, 2009 ::::

    Fonte: http://www.renenaba.com/

    9 ottobre 2009

    La connivenza tra Israele e l’apartheid sudafricano, un handicap

    Israele ha ingaggiato un’offensiva diplomatica in direzione dell’Africa al fine di ripristinare il periodo d’oro della cooperazione israelo-africana dei primi tempi dell’indipendenza africana. Ma quest’operazione di seduzione sembra derivare più da una ricerca disperata di un paradiso perduto, tanto rimane vivo nella memoria il ricordo della connivenza tra Israele e il regime sudafricano dell’apartheid, tanto il suo bellicismo anti-palestinese confina Israele in un isolamento internazionale tanto, infine, la xenofobia dei nuovi dirigenti israeliani penalizza la sua diplomazia. al punto da disgustare anche i suoi più fedeli alleati occidentali.

    Il bestiario israeliano è ricco ed abbondanti sono i paragoni animaleschi di cui sono oggetto gli Arabi, al punto che alcuni non esitano a ritenere che si tratti di un marchio di fabbrica del personale politico israeliano. Dall’antico primo ministro laburista Golda Meir, al capo del Likud Menahem Begin, che li definiva « bestie a due gambe », all’ultra-destrorso capo di stato maggiore Raphaël Eytan, che non esiterà a definirli degli « scarafaggi », passando per l’ex primo ministro laburista Ehud Barak che li paragonerà a dei « coccodrilli », i principali dirigenti israeliani hanno apportato, in tutta impunità, il loro contributo a questa fraseologia xenofoba che non trova uguali in nessun altro Stato (1).

    Sull’onda della sua offensiva di seduzione in America latina, la campagna diplomatica condotta da Avigdor Liebermann, ministro israeliano degli Esteri, agli inizi di settembre ha preso di mira i paesi africani che costituiscono il tradizionale punto di ancoraggio di Israele sul continente nero (Etiopia, Kenya, Uganda) nonché la Nigeria ed il Ghana, nella prospettiva di rompere la sua quarantena e di mobilitare le sue amicizie nella sua campagna contro l’Iran.

    L’Etiopia, paese non arabo e non musulmano, per di più scaraventato dalla strategia neoconservatrice americana nel ruolo di gendarme dell’Africa orientale, il Kenya, che nel 1901 era chiamato a servire da patria ebraica nel quadro del programma Uganda del ministro britannico delle colonie Joseph Chamberlain, nelle viste dei dirigenti israeliani costituiscono delle basi essenziali per render sicura la navigazione marittima dall’Oceano indiano verso il porto israeliano di Eilat, nel golfo di Akaba.

    Ma questo tacito patto è valso a questi due paesi perno dell’alleanza alle spalle di Israele di fronte alla penisola arabica e al versante africano del mondo arabo, in particolare sul percorso che conduce alle sorgenti del Nilo (Egitto, Sudan, Somalia) dei seri insuccessi e dei dolorosi richiami all’ordine. Il fiasco dell’intervento etiope in Somalia nel 2007, ha aperto la via alla recrudescenza della guerriglia delle corti islamiche a Mogadiscio, abbinata ad uno sviluppo della pirateria marittima al largo delle coste dell’Africa orientale e alla ristrutturazione di una base di collegamento della marina iraniana in Eritrea, a poche gomene dall’importante base franco-americana di Gibuti.

    Quanto al Kenya, esso è stato teatro di sanguinosi attentati nel 1998 a Nairobi contro l’ambasciata degli Stati Uniti, padrino di Israele, poi direttamente contro gli interessi israeliani a Mombasa, nel 2002, con un totale di 224 morti per l’attentato di Nairobi, tra cui 12 Americani, e quindici per quello di Mombasa, tra cui tre Israeliani.

    In Nigeria, in preda ad una larvata guerra intestina tra musulmani e cristiani, per di più incancrenita dalla corruzione, secondo le stime della Banca Mondiale nell’ordine di 300 miliardi di dollari nel corso degli ultimi tre decenni, Israele lavora per equipaggiare la gendarmeria con due ricognitori e per il loro inquadramento nella lotta contro i guerriglieri del delta del Niger. Nello stesso ordine di idee, Israele conta di consegnare alla Guinea equatoriale veicoli blindati e ricognitori di marina per un valore di cento milioni di dollari, per la protezione di questo nuovo eldorado del continente nero e del suo capriccioso dittatore.

    Aureolato dall’immagine di giovane nazione costituita dagli sfuggiti al genocidio hitleriano, fondata sul socialismo agrario, il Kibbutz, Israele ha a lungo beneficiato di un prestigio presso alcuni dirigenti africani, al punto di vedersi invitare, nel 1958 ad Accra, ad una sessione speciale della prima Conferenza di tutti i popoli africani. All’epoca, Israele era rappresentato dalla signora Golda Meir, mi ministro degli Esteri.

    Di dimensioni modeste, per questo poco sospettato di egemonismo, Israele ha potuto così vedersi affidare la formazione dei primi piloti dell’arma aerea dell’Uganda, del Kenya, del Congo e della Tanzania, al punto da potersi poi vantare di aver lanciato, con la complicità dei servizi occidentali, due dirigenti africani alla testa del loro paese, Joseph Mobutu del Congo (ex-belga) e Idi Amin Dada dell’Uganda.



    Israele in Africa, alla ricerca di un paradiso perduto (parte.1/2) | eurasia-rivista.org

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    Predefinito Rif: Israele in Africa, alla ricerca di un paradiso perduto (parte 1/2)

    Il grande ritorno di Israele in Africa
    :::: Nicolas Michel :::: 19 ottobre, 2009 ::::
    Fonte: Jeune Afrique 11/09/2009

    Non accadeva da più di vent’anni : l’assai controverso ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman – dirigente del partito di estrema destra Israel Beytenu – che ha qualcosa a che fare con la giustizia del suo paese – è attualmente in tournée in Africa. Dal 2 al 10 settembre, ha visitato in successione l’Étiopia, il Kenya, il Ghana, la Nigeria e l’Uganda. Un’« operazione seduzione » i cui obiettivi sono chiari : rafforzare le relazioni economiche tra lo Stato ebraico ed il continente nei settori dell’energia, dell’agricoltura, dell’irrigazione, delle infrastrutture o, beninteso, della sicurezza, ma anche lanciare una sfida diplomatica all’Iran.

    Secondo le autorità israeliane, « durante la visita sarà rievocata la questione iraniana in relazione agli sforzi di quel paese per impiantarsi nella regione ed operarvi ». Detto chiaramente, si tratta di rispondere alle visite di Mahmud Ahmadinejad – che lo scorso febbraio si è recato in Kenya, a Gibuti e nelle Comore – e di tentare di (ri)conquistare il sostegno dell’Africa, specialmente alle Nazioni Unite, al fine di avere più peso contro il programma nucleare iraniano.

    Due anni fa, il ministro degli Esteri israeliano Zipi Livni raccontava così cinquant’anni di relazioni con il continente : « L’inizio delle relazioni tra Israele e l’Africa risale alla metà del XX secolo. Per essere esatti al 1957, con l’apertura di una rappresentanza diplomatica nel Ghana. In realtà, si potrebbe dire che esse sono nate tremila anni fa, quando la regina di Saba rese visita a re Salomone. È vero che esse hanno avuto alti e bassi – sono state fiorenti negli anni 1950 e 1960, inesistenti negli anni 1970 e rinascenti negli anni 1980 e 1990. Oggi, le relazioni tra Israele e la grande maggioranza dei paesi africani possono essere definite eccellenti. » Un buona sintesi, con delle riserve sull’ultimo epiteto che spiegano senza dubbio il viaggio di Lieberman.

    All’epoca delle indipendenze africane, il ministro degli Esteri israeliano Golda Meir si rivolge risolutamente verso l’Africa. Per lei, gli Africani ed il popolo ebreo condividono non pochi punti in comune. Hanno dovuto sbarazzarsi della tutela coloniale. Hanno dovuto valorizzare delle terre spesso ingrate. E sono stati vittime della Storia, morti nei campi di concentramento o ridotti in schiavitù.

    Aiuto militare

    Ma al di là della comunanza di destini, la volontà di sedurre l’Africa sub-sahariana risponde a ragioni più prosaiche. In piena guerra fredda, Israele conduce la propria lotta diplomatica. Si tratta di rompere una situazione di isolamento assicurandosi il voto dei paesi africani alle Nazioni Unite e di rafforzare la sicurezza dello Stato formando un «cordone sanitario» attorno ai paesi arabi sentiti come ostili.

    A metà degli anni 1960, Israele – ferocemente ostile al regime sudafricano dell’apartheid – intrattiene relazioni diplomatiche con più di trenta paesi africani. Vi invia i suoi esperti, forma unità d’élite, vende armi. Nel 1966, una decina di paesi africani riceve da Israele un aiuto militare diretto. Un certo generale Congolese, Joseph-Désiré Mobutu, beneficia pure, nel 1963, di un addestramento in paracadutismo… Due anni prima di prendere il potere !

    Questa politica di aperture si altera a partire dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 : Israele diviene una potenza conquistatrice. Ma la vera rottura avviene nel 1973, con la guerra del Kippur. Il raggiungimento del canale di Suez da parte delle forze israeliane ha contrariato i paesi africani e lo choc petrolifero accresce la loro dipendenza energetica nei confronti dei paesi arabi. Risultato : ad eccezione del Malawi, del Lesotho e dello Swaziland, tutti tagliano i ponti con Israele – che allora si riavvicina al Sudafrica razzista. L’isolamento dello Stato ebraico raggiunge il suo parossismo il 10 novembre 1975, con la risoluzione 3379 delle Nazioni Unite che assimila sionismo e razzismo. I soli paesi africani ad opporvisi sono il Malawi, il Lesotho, la Repubblica centrafricana, la Liberia e la Côsta d’Avorio.

    Realpolitik

    Comunque, al di là delle posizioni politiche di principio, continua ad imporsi la realpolitik. «Durante quel periodo, i legami economici in realtà aumentano : gli scambi commerciali triplicano e le imprese israeliane accrescono le loro iniziative, in particolare in Nigeria, in Kenya e nello Zaire », spiega Naomi Shazan [1]. L’assenza di relazioni ufficiali non impedisce ad Israele nemmeno di mantenere il suo arsenale militare. Alla fine degli anni 1970, circa il 35 % delle vendite d’armi israeliane si fanno in Africa. « Agenti del Mossad, emissari militari ed un piccolo gruppo di uomini d’affari sostituiscono i diplomatici come interlocutori privilegiati dei dirigenti africani e (principalmente) dei partiti di opposizione », valuta Naomi Shazan. Specialisti della protezione ravvicinata di personalità garantiscono la formazioni presso servizi di sicurezza presidenziali o sono messi direttamente a loro disposizione. Come in Costa d’Avorio, in Liberia, nello Zaire, nel Togo, nel Gabon… Nel luglio 1976, Israele si segnala per un blitz all’aeroporto di Entebbe. L’operazione Tuono permette a Zahal di liberare più di duecento ostaggi detenuti dal Fronte popolare di liberazione della Palestina (FPLP). Del resto, il 10 settembre, Avigdor Lieberman parteciperà in Uganda ad una cerimonia di commemorazione in omaggio alle vittime.

    Nel 1978, gli accordi di Camp David segnano l’inizio di una leggera calma momentanea, ma bisogna attendere il 1982 perché Mobutu Sese Seko, nell’ex Zaire, annunci il ristabilirsi delle relazioni diplomatiche, seguito dalla Liberia (1983), dalla Costa d’Avorio e dal Camerun (1986), dal Togo (1987)… Quanto alla dittatura d’ispirazione marxista del colonnello Mengistu, essa riceve armi e permette, in cambio, il « rimpatrio » degli ebrei d’Etiopia, i Falascià.

    All’inizio degli anni 1990 – dopo che nel 1987 Israele ha condannato esplicitamente l’apartheid e le Nazioni Unite hanno annullato, nel 1991, la risoluzione che assimilava sionismo e razzismo –, altri paesi africani come il Kenya, la Guinea o la Repubblica centrafricana riprendono a parlare con lo Stato ebraico. Senza che quest’ultimo si decida ad adottare una strategia chiara e coerente nei confronti dell’Africa. « Non c’è più una dottrina come all’epoca di Golda Meir, spiega Frédéric Encel, professore incaricato a Sciences-Po [2]. Il personale addetto all’Africa è numericamente ristretto e di qualità inferiore. La prospettiva africana è finita. Dagli accordi di Oslo, Israele ha iniziato un ripiegamento diplomatico, economico e tecnico verso l’Occidente – Europa, Stati Uniti, paesi dell’ex URSS. »

    Settore privato in prima fila

    È dunque il settore privato israeliano a modellare le attuali relazioni con il continente, tra importatori di diamanti, compagnie di sicurezza più o meno collegate al potere ed esperti di ogni genere. Anche per le vendite d’armi, l’Africa non è più un mercato portante. « Nel 2005, l’India ha fatto acquisti in Israele per 900 milioni di dollari in materiali militari ad altissimo valore aggiunto, continua Frédéric Encel. Oggi, sui circa 4 miliardi di dollari che rappresentano le vendite d’armi, 1,5 miliardi provengono dall’India e dalla Cina, il resto si distribuisce tra il Caucaso, l’Europa, la Turchia e gli Stati Uniti. L’Africa non acquista armamento sofisticato ma, piuttosto, servizi, molto meno costosi – ad esempio, guardie del corpo. »

    Nel momento in cui Israele rimette ufficialmente piede sul continente, più di quaranta paesi africani intrattengono legami diplomatici con lo Stato ebraico. « In tutti questi ultimi anni, vi è manifestamente un ritorno di Israele in Africa, afferma Encel. È troppo presto per parlare di dottrina ma, a titolo di esempio, la Nigeria vende molto petrolio allo Stato ebraico, riceve sempre più ingegneri israeliani e… nel 2008, non ha votato la risoluzione delle Nazioni Unite contro il muro di separazione. » Se Lieberman desidera ridare respiro alle relazioni politiche ed economiche, rischia però di scontrarsi con certe reticenze. Per il presidente in esercizio dell’Unione Africana, Muammar Gheddafi, « le ambasciate di Israele in Africa sono delle gang che cercano alleanze con delle minoranze per perturbare il nostro continente ».

    Note

    1. Professore emerito di scienze politiche e di studi africani all’università ebraica di Gerusalemme.

    2. Autore di Atlas géopolitique d’Israël, éd. Autrement,.


    Traduzione dal francese eseguita da Belgicus



    Il grande ritorno di Israele in Africa | eurasia-rivista.org

 

 

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