da www.corriere.it
«La rivolta è una scusa, un milione di libici non sa cosa mangiare»
Italiani in fuga da Bengasi che brucia
«Assaltata la nostra chiesa». Operai, suore, muratori: gli ultimi scampati sull'aereo per Roma. «Ci gridavano: assassini»
TRIPOLI (Libia) — C’era una chiesa cristiana, a Bengasi. Non c’è più. Venerdì hanno distrutto il consolato italiano. Sabato hanno cercato gli uffici degli italiani. Domenica hanno fatto scappare gli italiani. E lunedì mattina, sono entrati nell’ultima casa rimasta che li ricordasse, questi terribili bastardi che siamo: la chiesa.
La folla si è ripetuta, lo scempio si è consumato. Una vera profanazione, come non se ne ricordano da quelle parti: sfondato il portone, sfasciate le panche, buttati a terra i quadri della Via Crucis. «Nessuno ha potuto controllare se hanno aperto anche il tabernacolo e rovesciato le ostie—racconta un testimone —, ma è il segnale: volevano dare una lezione ai crociati». La rivolta sta virando, un filo. Ora si va a caccia di qualunque simbolo occidentale. E l’aperta contestazione al regime di Gheddafi non è solo qualche slogan, il coro che domenica inveiva mentre stupravano il nostro corpo diplomatico. Adesso è ribellione vera.
Ieri mattina, è stata presa d’assalto una caserma della polizia. Si sono sentiti spari e stavolta, dicono, a mirare non erano gli agenti. «Assassini!», gridavano dalle strade intorno, ragazzi che lanciavano sassi e qualunque cosa. Una decina di palazzi, uffici pubblici, sono stati saccheggiati. Il governatorato non ha ancora imposto il coprifuoco, ma è come se l’avesse fatto: «Le strade sono vuote — descrive chi è rimasto là —. La gente si chiude in casa dalla mattina presto, quando la situazione sembra ancora tranquilla: sanno tutti che non è finita, finché l’ultimo morto della strage di venerdì non sarà seppellito».
La caccia al cristiano è la nuova paura. Il vescovo di Tripoli, monsignor Martinelli, rientra da Roma e si fa portare subito sulla Sirte. Va a recuperare una dozzina di quelle suore che da anni curano i malati negli ospedali della Cirenaica e, benedette ostinate, non se ne vogliono andare. Scappano di sera anche operai, gruisti, muratori. I primi sette oggi, gli altri domani. Gente che non sbrodola: «Posso raccontarvi quanti container ho spostato con queste mani qui — dice Ivano T., padovano —, ma dei disordini non so nulla: io stavo sempre al cantiere». «La rivolta contro gli italiani è una scusa — dice un collega —. Loro ce l’hanno con gli stipendi da fame, che sono bloccati dal 1971. C’è un milione di libici che non sa che cosa mangiare. E non è bello vedere, con le tv satellitari, come ce la passiamo noi».
L’ultima volta che manganellarono la folla e spararono, raccontano, fu dopo che venne a giocare la Juventus: la settimana successiva, allo stadio, la gente protestava per tutto quel denaro sprecato e la polizia intervenne dura. E le vignette? A Bengasi se l’aspettavano, la rivolta: il 10 febbraio, tutti i giornali avevano pubblicato l’ira della fondazione Gheddafi per le parole di Calderoli che ha invitato a lanciare una guerra ai musulmani», con un appello al Papa perché ricucisse lo strappo. Ma tutti qui conoscevano lo Jyllands-Posten, il giornale danese che ha pubblicato i disegni blasfemi, anche per un’altra ragione: nel 2003, un articolo irridente sull’allegra vita di Gheddafi junior a Copenaghen aveva quasi provocato una rottura delle relazioni con la Danimarca.
L’Italia, poi, ci ha messo del suo. «I discorsi anti italiani non mancano mai a Bengasi — racconta il console Giovanni Pirrello —. Qualche mese fa, ho organizzato una cena d’affari e ho piazzato all’ingresso una grande foto di Berlusconi che stringe la mano a Gheddafi. Un signore si è messo a protestare in pubblico, si è alzato e se n’è andato: non tollerava che si potessero fare affari con noi».
Nella folla di domenica, si è sentito di tutto. E a contestare col pugno alzato c’erano anche i parenti dei «bambini infetti di Bengasi», una storia terribile di 400 bimbi risultati sieropositivi in un ospedale privato della città e di sette infermieri bulgari che sono in prigione condannati a morte, con l’accusa di essere gli untori. C’è una richiesta di risarcimento a Sofia per 10 miliardi di dollari, «la stessa cifra che fu data per le vittime dell’attentato di Lockerbie», e gli interessi nella vicenda della Bulgaria (che ha solo un piccolo ufficio) erano seguiti proprio dal consolato italiano, con un fondo internazionale per la raccolta di aiuti alle vittime dell’Aids.
Qualcuno potrebbe aver avuto interesse a fomentare? Gli scampati alla rivolta se lo chiedono, sulla scaletta dell’aereo per l’Italia, e si incrociano con chi non si domanda molto e se ne va lo stesso. Gabri D.C., una tour operator, con la sua comitiva era sulla piazza degli scontri poche ore prima che scoppiasse l’inferno: «Sono tre giorni che stiamo in giro per la Libia, ma nessuno dell’ambasciata ci ha mai contattati per sapere come stavamo». Marisa F. tornava da turista in Libia per la prima volta, espulsa ed espropriata con la famiglia quando aveva tre anni: «Siamo andati a vedere la vecchia casa dei suoi nonni — racconta il marito —. Adesso è diventata una scuola coranica».
Dopo i greci e i romani, i bizantini e gli ottomani, si consuma l’ultima cacciata: più della metà abbandona e «A Bengasi tra poche ore non ci sarà più un italiano», dice il console Pirrello, anche lui in partenza. Non ha mai attraversato posti facili, il console: studioso di lingue orientali, era a Islamabad durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan, ad Algeri la vigilia dei primi tumulti islamici nel Mediterraneo, a Mosca negli anni della perestroika, a Salonicco quando i soldati italiani sono andati nei Balcani. Ha dovuto lasciare tutto: «La mia casa e il resto. Ho salvato il passaporto diplomatico e questa borsa».
Il silenzio ora è calato su Bengasi. Il Leader ha preso tempo. Ha finto di tollerare, ha lasciato che si celebrassero i funerali e si sfogasse l’ultima vendetta. Adesso basta: la città rivoltosa è un angolo di mondo zittito, oscurato, scomparso dai radar dell’informazione. Tutti fuori. Nessun visto alla stampa straniera che vuole entrare, nessuna libertà ai giornalisti che s’aggirano qui. È l’ordine che circola veloce per i palazzi di regime. Via gli italiani, che rischiano troppo.
E via gli altri, fastidiosi testimoni o inutili volontari. Alle 11 del mattino, a Tripoli si ragiona veloce sul da farsi. Nell’ufficio del potente Juma Belker, scrittore e factotum del Colonnello, caffè e sigarette sotto la foto dell’intervista fatta l’estate scorsa a Romano Prodi («Un incontro emozionante, la inserirò nella mia raccolta di conversazioni coi leader di tutto il mondo»): è da lì che arriva lo stop alla stampa e alla tv. Le notizie sono benzina sul fuoco, dicono, meglio innaffiarle di censura. Avevano promesso di portarci a Bengasi? «No, col volo delle 3 ve ne andate tutti a Roma». E rimanere almeno a Tripoli? «La situazione è pesante. Lo facciamo per la vostra incolumità ». Troppo buoni: bagaglio veloce, due ore di tempo, una Mercedes nera coi poliziotti a zigzagare nel traffico per l’aeroporto, è subito check-in. Volo Az 871: solo andata.
Francesco Battistini
21 febbraio 2006