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  1. #1
    Totila
    Ospite

    Predefinito Un mega-attentato per colpire l'Iran?

    Un mega-attentato per colpire l’Iran?
    Maurizio Blondet
    26/02/2005
    L'installazione petrolifera saudita di AbqaiqUn grosso attentato «islamico» è imminente?
    La voce circola negli ambienti dell'intelligence.
    E il motivo c'è.
    Philip Giraldi è un ex alto funzionario della CIA.
    Nel numero di Agosto 2005 del periodico American Conservative, Giraldi disse che Cheney e Rumsfeld avevano istruito il Pentagono di preparare i piani per un attacco all'Iran: il piano doveva essere pronto a scattare «in risposta ad un altro attacco terroristico tipo 11 settembre».
    E aggiungeva: «come nel caso dell'Iraq, tale risposta non è condizionata dal fatto che l'Iran sia davvero implicato nell'atto di terrorismo contro gli Stati Uniti» («the response is not conditional on Iran actually being involved in the act of terrorism»).
    Si può essere più chiari?
    Cheney e Rumsfeld «sanno già» che un attentato «deve» accadere, per giustificare l'intervento in Iran.
    Lo scenario immaginabile è lineare:
    1) si verifica un «nuovo», terrorizzante e spettacolare 11 settembre;
    2) la Casa Bianca accusa l'Iran di essere il mandante dell'attentato, in base a «prove» che non può rivelare per non scoprire le sue fonti d'intelligence;
    3) cominciano i bombardamenti sulle installazioni nucleari iraniane.



    L'attentato auspicato, naturalmente, dovrà essere abbastanza enorme e sanguinoso da convincere l'opinione pubblica e il Congresso americano, terrorizzati, che è necessaria un'altra guerra.
    Le operazioni in Iraq e Afghanistan vanno male, costano al Paese 7 miliardi di dollari al mese senza che una fine sia in vista, e la nazione americana è indebitata ad un livello senza precedenti (8 mila miliardi di dollari); senza un evento traumatico, c'è motivo di ritenere che il parlamento e il popolo si opporrebbero a un'ulteriore avventura militare, anch'essa senza fine certa.
    La domanda che circola negli ambienti ben informati è dunque: è pronta la Casa Bianca a fare la guerra all'Iran?
    Perché dalla risposta dipende se ci sarà o no, prima, l'attentato «islamico».
    I segnali non sono univoci.
    Gli ambienti suddetti guardano con apprensione il susseguirsi di visite importanti avvenute nelle ultime settimane ad Ankara: Condoleezza Rice, il direttore dell'FBI Robert Mueller, il capo della CIA Porter Goss.
    A che scopo?
    Perché la Turchia, che condivide un confine con l'Iran, è essenziale alle operazioni contro Teheran.

    Occorre che consenta allo stazionamento nel suo territorio del 12% delle forze aeree e cingolate israeliane.
    Le prime, perché il volo dei caccia da Israele all'Iran richiede almeno un rifornimento in volo.
    Le seconde per un motivo più allarmante: anche se si ritiene che l'attacco a Teheran sarà «solo» aereo, una puntata offensiva terrestre pare prevista per occupare la provincia iraniana del Khuzestan, che sta al confine con l'Iraq e contiene il 90% dei giacimenti petroliferi iraniani.
    Ciò strapperebbe a Teheran la sua fonte principale di ricatto internazionale, e sarebbe una succosa preda di guerra per il settore petrolifero americano (1).
    E' certo che gli importanti visitatori ad Ankara hanno discusso di questo.
    Secondo Der Spiegel che ne parlò a dicembre, Porter Goss avrebbe assicurato ai turchi che «saranno informati con qualche ora di anticipo di ogni attacco aereo contro l'Iran» (sic).
    Ma è ovvio che Ankara, dov'è al governo la componente islamica (pur se «moderata»), stia facendo resistenza.
    Dalla resistenza turca dipende in gran parte la «preparedness» israelo-americana alla guerra, e dunque se ci sarà il previo, necessario attentato islamico.
    D'altra parte, l'opinione pubblica occidentale è già stata psicologicamente preparata ad accettare la nuova guerra.



    In Europa, con le vignette danesi e la furiosa reazione araba hanno cambiato uno stato d'animo (che i neocon USA giudicavano deplorevolmente passivo) in un'attiva, militante ostilità anti-islamica di massa.
    Sia stata o no deliberata (come noi crediamo) la faccenda delle vignette, lo stato d'animo paranoico creato nelle masse rappresenta una «finestra di opportunità» che va sfruttata prima che si richiuda.
    L'opinione pubblica americana è già stata preparata dall'allarmismo dei suoi media.
    Un sondaggio Gallup ha rivelato che ormai 31 americani su 100 guardano all'Iran come al «peggior nemico» degli Stati Uniti: con un aumento del 14% rispetto al mese precedente, e a molta distanza dall'Iraq che, per quanto occupato, resta il secondo «peggior nemico» per 21 americani su 100, e dalla Corea del Nord (di cui i media parlano poco), ferma al 15% (2).
    Il mega-attentato preliminare avverrà negli USA?
    E' possibile, ma non certo.
    Secondo alcuni analisti, anzi, il tentato attacco del 24 febbraio alle più importanti installazioni petrolifere saudite ad Abqaiq, poteva essere l'attentato auspicato da Cheney e da Rumsfeld.
    L'attentato è stato sventato dall'eroica determinazione di alcune guardie saudite, che non hanno esitato a sparare contro tre auto dell'azienda perché si avvicinavano alle sbarre d'entrata accelerando; le tre auto-bomba sono così esplose fuori dal complesso petrolchimico.



    Se fosse andato a buon fine, l'attentato sarebbe stato meno spettacolare e telegenico dell'11 settembre, ma avrebbe di colpo rincarato astronomicamente i carburanti in tutto il mondo: motivo sufficiente per scatenare la guerra a Teheran, che mette in pericolo tutti gli automobilisti.
    E' solo un'ipotesi, ma ha dalla sua un indizio preciso.
    Un think tank americano, la Jamestown Institution, aveva postato sul suo sito, proprio il giorno «precedente» al fallito attacco ad Abqaiq, un articolo straordinariamente profetico evidentemente preparato giorni prima: «impianti petroliferi sauditi: il prossimo bersaglio di Al Qaeda?» (3). L'articolista profetico notava che «il 19 gennaio Osama bin Laden ha rotto 14 mesi di silenzio
    per annunciare che la sua organizzazione prepara altri attacchi contro l'Occidente: la guerra contro l'America, ha detto, non sarà confinata all'Iraq. Che altre nostre operazioni siano scatenate in America è solo questione di tempo. Sono in fase di preparazione».
    L'autore speculava che questo attacco annunciato avrebbe potuto colpire l'Arabia Saudita, per bloccare le forniture petrolifere all'Occidente.
    E indicava precisamente «la gigantesca raffineria di Abqaiq, a 25 miglia dalla costa del Golfo di Bahrein, che da sola raffina i due terzi del greggio dell'Arabia Saudita».



    Un attentato a Abqaiq ridurrebbe per due mesi la produzione dagli attuali 6,8 milioni di barili al giorno, a solo uno, «una perdita equivalente a un terzo del consumo giornaliero americano».
    E forse, avrebbe fatto mancare alle forniture globali un decimo del petrolio richiesto.
    Con ripercussioni spaventose sui prezzi, già assai tesi.
    Tale previsione non deve nulla all'astrologia.
    E non solo perché ad Abqaiq abitano oltre mille americani che vi lavorano, e fra cui è sicuramente la CIA.
    La Jamestown Intitution è una fondazione d'analisi poltica poco nota, ma assai importante: è capeggiata da Zbigniew Brzezinsky, già consigliere della Sicurezza Nazionale sotto Carter e uomo di punta del Council on Foreign Relations (CFR).
    Vero è che Brezezinsky ha espresso critiche anche dure sull'avventura di Bush in Iraq: ma per il «modo», non per la cosa in sé.
    La Jamestown pare essere la camera di compensazione al cui interno Brzezinsky e la vecchia guardia imperiale geopolitica (quella di Kissinger e, appunto, del CFR) sta riallacciando i buoni rapporti con i neocon, i neo-imperialisti che l'hanno detronizzata.
    In ogni caso, in Arabia Saudita l'attentato è stato sventato.



    Perciò «deve» avvenire da qualche parte.
    Anche in un paese «alleato» degli USA?
    Possibile; in Italia?
    Le misure di sicurezza eccezionali messe in atto attorno alle Olimpiadi invernali di Torino indica che il timore c'era.
    I disordini anti-italiani di Bengasi sono un altro segnale.
    Una prossima occasione possono essere le elezioni politiche: la presenza dei media stranieri garantirebbe la massima visibilità TV all'attentato.
    E l'Italia è stata finora risparmiata dalla cosiddetta Al Qaeda.
    Ancora una volta: si può credere che siano ipotesi senza fondamento.
    Che l'invasione dell'Iran (e l'attentato necessario preliminare), già tante volte annunciati, non avverranno.
    Ma un segnale contrario viene da un osservatorio oggettivo: le quotazioni dell'oro.
    Come si sa, l'oro, il cui prezzo è rimasto piatto per quasi un quarto di secolo, si vendeva a 250 dollari l'oncia nel 2001, ma da allora è aumentato fino a 550 dollari.
    E' un prezzo ancora lontano dagli 850 che il metallo raggiunse nel 1980, ma sta ancora salendo.
    Il mercato dei future sull'oro ha già scontato aumenti ancora più forti.
    Alcuni analisti predicono persino che arriverà a 5 mila dollari l'oncia.



    E' il segno che le mani forti della speculazione continuano a fare incetta di oro, anche a prezzi proibitivi.
    Ora, come ci è stato ripetuto mille volte, detenere oro in periodi normali è un pessimo investimento, perché i lingotti non danno interessi né dividendi.
    Solo se i tempi non sono normali l'oro diventa «conveniente» per gli speculatori: come bene-rifugio. L'oro sale quando gli investitori finanziari perdono fiducia nella moneta cartacea di riferimento (oggi il dollaro), e «sentono» vicino un periodo di instabilità esplosiva e rilevante: sia un'altra guerra, sia un altro 11 settembre, sia la rottura delle forniture petrolifere.
    Il primo motivo, in verità, già sarebbe sufficiente a spiegare il rincaro dell'oro.
    Gli USA hanno un deficit commerciale mai visto nella storia, oltre i 725 miliardi di dollari, e un debito pubblico stellare; e il bilancio di previsione di Bush per il 2007 propone di aumentare i due deficit di altri 192 miliardi in cinque anni.
    Ossia promette di stampare ancora più dollari per pagare i suoi fornitori esteri, sempre più Buoni del Tesoro da gettare ai suoi creditori.
    Si avvicina il momento in cui il dollaro sarà valutato per quel che è: carta straccia, sostenuta nel corso da un'egemonia insostenibile e irripetibile.



    La Cina, che già sta lentamente diversificando le sue riserve alleggerendosi di dollari in cambio di euro, ha aperto ora il suo mercato di scambi in oro.
    Alcuni Stati islamici ricchi hanno già cominciato a condurre certi commerci bilaterali in dinari d'oro.
    E il momento della verità può fare un passo decisivo a marzo, quando l'Iran aprirà la sua borsa petrolifera nazionale, dove ha annunciato che accetterà euro per il suo greggio.
    Di per sé, forse, questo non sarebbe sufficiente al tracollo del dollaro.
    Ma altre nazioni stanno cominciando ad accettare euro contro petrolio: Venezuela, Russia, Libia, Indonesia e Malaysia.
    Il dollaro sta già perdendo il suo privilegio come moneta-petrolio, e dunque la sua «copertura».
    Ciò imprime un'ulteriore urgenza ai piani d'attacco all'Iran.
    Tout se tient, come si vede.
    L'attacco «deve avvenire» presto.
    E così il mega-attentato che lo motiverà.

    Maurizio Blondet




    --------------------------------------------------------------------------------
    Note
    1) I neocon in realtà vogliono soprattutto eliminare uno ad uno i potenziali avversari bellici d'Israele. Ma non avrebbero potuto trascinare gli Stati Uniti in quest'avventura, se non si fossero garantiti l'alleanza di comodo con i due poteri forti che avrebbero potuto porre il veto: il settore militare-industriale e la finanza petrolifera. Il primo ha, con la guerra di lunga durata, le desiderate commesse senza fine e senza limiti di spesa dal Pentagono. L'industria petrolifera ha avuto i rincari del greggio, e dunque gli enormi profitti conseguenti. Ma le si deve garantire un tornaconto ulteriore, per convincerla a non ostacolare l'aggressione all'Iran. I giacimenti del Khuzestan sono il suo compenso.
    2) George Gedda, «Poll: americans see Iran as enemy nr.1», Associated Press, 24 febbraio 2006.
    3) John C.K. Daly, «Saudi Oil Facilities: Al-Qaeda's Next Target?», Jamestown Institution, 23 febbraio 2006. Nell'articolo si ricorda che Osama ha già attaccato interessi petroliferi in passato. E come esempio, significativamente, si ricorda l'affondamento della Limburg, superpetroliera francese che portava 400 mila barili di greggio dall'Iran alla Malaysia. Il 6 ottobre 2002 la Limburg fu abbordata da battelli esplosivi nella rada di Aden: l'attentato fu rivendicato da Al Qaeda. I servizi francesi vi lessero un avvertimento non tanto di Al Qaeda, quanto dei suoi mandanti. Il messaggio infatti diceva: non creda la Francia, per le sue posizioni americane, di essere al sicuro da attentati «arabi».




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  2. #2
    Ashmael
    Ospite

    Predefinito

    Non male come romanziere visionario. Tranquillo, nessuno attaccherà l'Iran. il fatto che l'attentato sia stato sventato indica che la favola della CIA che organizza gli attentati di Al-Kakka è appunto una favola. Chi orrganizzerebbe un attentato per poi autosventarselo? Forse Maurizio Blondet può credere che ci sia gente che ragiona a quel modo, io no.
    Perchè-tocchiamo ferro-nessun attentato ancora in Itala? Ma perchè siamo un paradiso per i complottatorii e reclutatori di kamikaze, che giudici terzomondisti assolvono allegramente, mentre cortei pro kamikaze si tengono nella capitale!. Si rovinerebbero una piazza molto comoda!

  3. #3
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    Predefinito

    In Arabia Saudita l'hanno sventato i sauditi quindi il ragionamento di Blondet è perfettamente logico.

 

 

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