| Martedì 28 Febbraio 2006 - 14:19 | A.L. |
In un momento difficile per il destino del Kosovo e Metohija, quando sono appena iniziati i negoziati per arrivare ad una soluzione sullo status della parte di territorio serbo occupata dagli albanesi, la Comunità europea, al servizio delle manovre atlantiche nella zona della ex Yugoslavia ha minacciato la Serbia.
Belgrado collabori “pienamente” con il Tribunale penale internazionale per la ex Yugoslavia dell’Aja se non vuole che i negoziati per l’accordo di stabilizzazione “vengano interrotti” ha dichiarato ieri il Consiglio dei capi delle diplomazie Ue, che avrebbe preso nota “con preoccupazione” delle dichiarazioni del procuratore Carla Del Ponte, il persecutore dell’ex presidente serbo Slobodan Milosevic, secondo cui “la Serbia Montenegro non collabora in modo soddisfacente con il tribunale”.
“Il Consiglio - si legge nelle conclusioni - appoggia senza riserve i messaggi trasmessi recentemente dalla Commissione a Belgrado e a Sarajevo, secondo i quali la collaborazione col Tpi deve essere piena e completa se non si vuole che i negoziati sull’accordo di stabilizzazione e associazione siano interrotti”.
Secondo quanto riferito da fonti Ue, il segnale lanciato alle autorità serbe è che rimane circa un mese per consegnare al Tribunale dell’Aja il generale serbo bosniaco Ratko Mladic, in vista del prossimo round negoziale fra Ue e Serbia, che altrimenti potrebbe saltare. La minacciata cancellazione della prossima sessione di negoziato tra Serbia e Ue prevista per il 4 e 5 aprile potrebbe essere quindi il primo passo verso una vera e propria sospensione delle trattative.
Così, l’Europa, in ossequio alle direttive del Tribunale penale internazionale, di fatto uno degli strumenti con cui si manifesta il potere atlantico nel Vecchio Continente, sventola davanti a Belgrado la possibilità di precluderle le trattative per un futuro ingresso nell’Unione.
Non è certo un caso che, sempre ieri, sia giunto davanti alla Corte penale internazionale di Giustizia, all’Aja, il procedimento giudiziario intentato, già nel 1993, dalla Bosnia Erzegovina contro la Serbia-Montenegro (come successore giuridico della Jugoslavia) per aggressione e genocidio.
Si tratta del primo caso di accusa di genocidio mossa contro uno stato a che passa al vaglio dei giudici della Corte. Principale organismo giuridico delle Nazioni Unite, dal 1946 la Corte è chiamata a risolvere in conformità con il diritto internazionale le controversie di ordine giuridico tra stati e dare pareri consultivi su questioni giuridiche poste da organi ed istituzioni specifici dell’Onu.
Una decisione della Corte non è attesa prima della fine dell’anno. Uno dei punti fondamentali su cui si baserà l’accusa sarà ovviamente il caso di Srebrenica, già definito genocidio dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. L’inizio delle udienze è stato rinviato per anni, a causa delle azioni legali di Belgrado che ha contestato l’autorità della Corte.
Nell’intreccio tra Onu, Tribunale penale internazionale e Unione europea emerge la strategia impostata dagli atlantici per ridefinizione della ex Yugoslavia.
E di questa strategia fa pienamente parte il Kosovo e Metohija, il cui status rischia di diventare, anche grazie alla complicità europea, quello di una regione indipendente dalla madrepatria, cadendo così definitivamente nelle mani degli aggressori e terroristi albanesi che la hanno occupata con il supporto di Washington e dei suoi servi europei. Il ‘morbido’ presidente serbo Vojislav Kostunica ha ribadito ieri l’opposizione del governo serbo all'ipotesi dell’indipendenza del Kosovo, ma ha ventilato un suo appoggio ad una formula che preveda un’autonomia “ampia e sostanziale”.
Una aspettativa molto lontana da quelle dei serbi cacciati in questi anni dalle loro case.
Speranza tutelata in Serbia dal partito radicale di Tomislav Nikolic (nella foto), che ha più volte denunciato la carenza di informazione al pubblico serbo da parte della squadra di negoziatori Onu e sollecita continuamente il governo di Belgrado perché tuteli una parte di Paese nelle mani di occupanti stranieri.
A.L.