Fumo di Londra (con uranio)

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Maurizio Blondet
07/03/2006


Uranio impoverito in Inghilterra: lo hanno portato le correnti atmosferiche dall'Iraq, a 3500 chilometri buoni di distanza.
Il metallo - che indubbiamente viene dai proiettili penetranti Made in USA, usati a centinaia di tonnellate - è stato trovato nei filtri dell'Atomic Weapons Establishment (AWE) di Aldermaston, nel Berkshire: un laboratorio nato per misurare le eventuali emissioni radioattive delle centrali nucleari e dell'armamento atomico britannico.
La radiazione «normale» dell'atmosfera inglese è cresciuta del quadruplo nel 2003, all'inizio dell'invasione dell'Iraq.
E un paio di volte, attorno ad una delle cinque aree monitorate, la British Environment Agency ha dato ufficialmente l'allarme.
I due scienziati che hanno riferito del problema, Chris Busby e Saoirse Morgan, calcolano che le polveri abbiano viaggiato dai campi di battaglia iracheni per 7-9 giorni: tra l'altro, in direzione opposta a quella dei venti dominanti, che vanno da ovest ad est.
E parlano di «contaminazione in Europa», non solo in Gran Bretagna.



Non è stato facile al dottor Busby ottenere i dati dalla AWE.
Da tre anni la gestione di tale installazione è stata «privatizzata», ossia appaltata alla Halliburton (anche qui la Halliburton di Dick Cheney), e la ditta di Cheney rifiutava di fornire le misurazioni.
E' stata necessaria un'ingiunzione giudiziaria in base ad una legge che è entrata in vigore il gennaio 2005 sul diritto d'informazione.
Il governo britannico ha cercato di sostenere che quella misurata può essere la «radioattività naturale» del suolo.
Ma notizie altrettanto preoccupanti giungono dall'India (1).
Qui, polveri di uranio impoverito (d'ora in poi DU, depleted uranium) sono state riscontrate in Punjab, in Haryana, a Delhi, nell'Himachal Pradesh e nell'Uttar Pradesh occidentale, e in parte del Gujarat e del Maharastra: praticamente tutta l'India nord-occidentale.
Che si trova a quasi duemila chilometri da Baghdad.
A segnalare il fatto è Leuren Moret, una scienziata che ha lavorato al Lawrence Livermore Laboratory (il centro di ricerche militari USA dove fu creata la prima bomba atomica), ed è un'autorità mondiale in fatto di radiazioni (2).



La Moret ha scritto ad un membro del Congresso una lettera, datata 21 febbraio 2003, dove si legge fra l'altro: «l'effetto piroforico del DU, che s'incendia spontaneamente quando raggiunge i 170 gradi o nell'impatto, forma un'enorme quantità di particelle finissime, da 0,1 micron fino a dimensioni submicroscopiche (0,001 micron o 10 Angstroms). Particelle così minute si comportano come un gas quando inalate; si disperdono nei polmoni e superano la barriera sanguigna polmonare: difatti le cellule bianche del sangue, che sono molto più grosse (7 micron
di diametro) inglobano le particole di uranio e le portano con sé nei tessuti del corpo. Una volta inglobate nelle cellule bianche e inserite nei tessuti, esse non sono più riscontrabili nelle urine. I soldati contaminati porteranno l'uranio impoverito a casa, depositato nei loro organismi. [..] La polvere di DU continuerà ad essere un pericolo estremo per soldati, civili, popolazioni sottovento e per l'ambiente, in quanto contaminante di ogni forma vivente.
E l'emi-vita della sostanza è di 45 miliardi di anni. [..] Non esiste un trattamento conosciuto».
Benchè a bassa radioattività, la pericolosità del DU come mutageno è peggiore di quella all'esposizione di un'esplosione nucleare, che è acuta ma momentanea ed esterna.
Il rischio valutato dall'International Commitee on Radiation Protection (ICRP), un organo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra (OMS), è basato sui dati raccolti sulle vittime delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, appunto soggette a un'intensa radiazione esterna per pochi istanti.



Ma come ha riferito un rapporto indipendente inviato all'OMS nel 2001, l'esposizione «interna» all'uranio impoverito richiede tutt'altra valutazione: si tratta, in qualche modo, di una contaminazione cronica e permanente.
Tanto più che, se ha ragione Leuren Moret, secondo i suoi calcoli gli americani hanno sparato - tra prima e seconda guerra del Golfo, contando anche i bombardamenti in Bosnia, Kossovo e Afghanistan - l'equivalente in radiazioni di 440 mila bombe atomiche tipo Hiroshima.
Risulta che quel rapporto all'OMS è stato tenuto segreto.
L'OMS ne ha rifiutato la pubblicazione, pare, su pressioni della IAEA, l'ente ONU che controlla la non-proliferazione.
E che - sinistra ironia - è stato insignito del Nobel per la Pace, il gran premio massonico globale.
Uno degli autori del rapporto insabbiato, Keith Baverstock, ha però consegnato il testo ai media nel febbraio 2004.
La libera stampa occidentale, come si può immaginare, ha taciuto.
Infine un articolo di Baverstock che rivelava il rapporto e tutti i retroscena è stato postato da Al-Jazeera il 14 settembre 2004.



Nel luglio 2004 la National Academy of Sciences britannica emetteva un rapporto sulle radiazioni di bassissimi livello, in cui ammetteva che «non esiste un livello d'esposizione innocuo».
E riconosceva che bassissimi livelli in forma cronica sono più pericolosi di alte esposizioni istantanee.
Il destino della popolazione irachena è oggi l'estinzione.
«Gli aerosol di DU contaminano in permanenza vaste regioni, distruggendone lentamente il futuro genetico delle popolazioni che le abitano», scrive Leuren Moret: «si tratta di zone con riserve di risorse naturali che gli USA vogliono controllare».
La Moret riporta fra l'altro il caso di alcuni cittadini americani di origine irachena che nel 2003, dopo la «liberazione», sono andati a trovare dei parenti a Baghdad, ed hanno scoperto che quasi tutti soffrivano, improvvisamente, di diabete.
Tornati in USA dopo due o tre settimane, anche i visitatori hanno sviluppato il diabete nel giro di tre mesi.
Il diabete - che non è una malattia infettiva - pare essere un indicatore precoce dell'avvelenamento da DU; e secondo la Moret, il DU è la causa della «allarmante crescita del diabete a livello globale».
Ma questo è il meno.



La popolazione infantile irachena conosce un ancor più allarmante aumento di leucemie, melanomi (quel cancro che ci dicono dovuto al sole delle abbronzature: anch'esso in crescita esponenziale nel mondo) e spaventose malformazioni genetiche.
Anche i kuwaitiani non stanno meglio.
Nel 1992, dopo che gli USA li avevano «liberati» da Saddam, l'US Army commissionò alla Moret un progetto per la «ripulitura» del Paese liberato.
Titolo: «Uranio Impoverito, materiali contaminati e impianti per la decontaminazione».
Naturalmente, la Moret disse che «non esiste trattamento conosciuto».
Ma il piano fu passato alla Kellogg Brown & Root, la solita sussidiaria della solita Halliburton, che s'era aggiudicata dal Kuwait un piano per la decontaminazione: quasi certamente inefficace, specie nelle zone desertiche e ventose.
Ma naturalmente nessun contratto è stato aggiudicato per i reduci americani.
Dei 500 mila mandati a combattere la prima guerra del Golfo, 15 mila sono morti, 250 mila sono permanentemente disabili a un decennio di distanza: e si tratta, vale la pena di ricordarlo, di persone che erano sotto i trent'anni quando andarono in Iraq.
Tutti colpiti dalla «misteriosa» malattia detta Sindrome del Golfo.



Anche i reduci italiani, come si sa, sviluppano con frequenza forme tumorali rare in ventenni.
«Gli effetti a lungo termine hanno rivelato che il DU, ossido di uranio, è una sentenza capitale potenziale», scriveva la Moret nei suoi rapporti.
Dunque il governo USA e anche le istituzioni internazionali sono ben coscienti della devastazione che i proiettili al DU stanno provocando, e su cui tacciono.
E sanno ancor meglio che ai proiettili DU si attaglia alla perfezione la definizione di «armi di distruzione di massa» e proibite dalle convenzioni internazionali, come elaborata dagli stessi codici americani (US Code, Titolo 50, capitolo 40, Sezione 2302).
I codici militari USA impongono anche (US Army regulation AR 700-48 e TB 9-1300-278) che dopo l'uso di armi radioattive vengano curate tutte le vittime, compresi i soldati nemici e i civili: norma violata in Iraq.
Il solo superstato-canaglia rimasto, dunque, commette in piena coscienza - e con la complicità delle istituzioni sovrannazionali «umanitarie» - un genocidio di tipo nuovo.
«Il concetto di annichilazione di specie significa mettere fine deliberatamente e in modo relativamente rapido alla storia, cultura, scienza, riproduzione biologica e memoria», ha scritto Rosalie Bertell, una delle scienziate che hanno redatto il rapporto insabbiato all'OMS (non a caso le denunciatrici sono donne): «è l'estremo rifiuto del dono della vita. Un atto che esige una nuova parola per descriverlo: omicidio».



Ora, i prìncipi di questo mondo si preparano ad estendere l'omicidio all'Iran (3).
Anche una mente razionale e scientifica (ma di una donna) non può non vedere in questo un segno satanico.
I poteri di questo mondo stanno distruggendo storia, vita e memoria non solo delle popolazioni «nemiche», delle cui risorse vogliono impadronirsi; ma anche dei propri soldati - nelle loro nuove guerre, le truppe sono «a perdere», come carta igienica - e le loro stesse popolazioni civili, come mostra la ricaduta radioattiva che dall'Iraq giunge in Inghilterra, e in Europa.
La guerra lontana 3 mila chilometri piove addosso, in polveri microscopiche, a chi l'ha applaudita, credendosi al sicuro.
E anche su chi l'ha contrastata.
Un pericolo ben più allarmante del «terrorismo islamico» e delle centrali nucleari, e infinitamente più letale e irrimediabile, ci sovrasta: per opera dei «nuovi crociati», dei «cristiani rinati».
Dei «difensori della civiltà occidentale».
Sono i Rotschild, conclude la Moret, a controllare nel mondo la risorsa-uranio, forniture e prezzi, attraverso la Rio Tinto Mines, il conglomerato minerario africano-sudamericano che è proprietà privata della famiglia reale inglese, e di cui i Rotschild sono amministratori.



Le riserve uranifere della Rio Tinto sono valutate in 6 miliardi di dollari; e le necessità energetiche e militari stanno consigliando gli amministratori di intensificare l'estrazione.
Sono in corso di attuazione i piani per estrarre il minerale in Australia, per un valore di 36 miliardi di dollari nei prossimi sei anni.
Per il trasporto del minerale, la Halliburton (sempre lei) ha appena terminato una ferrovia di 1200 chilometri tra le miniere australiane e i porti.
A noi, questo crimine senza precedenti, avvolto nella menzogna e proclamato «cristiano», ricorda l'Apocalisse, la grande bestia «che sale dal mare», adorata da «tutti gli abitanti della terra».
Ma soprattutto, la piccola bestia che «sale dalla terra», l'amministratrice della superpotenza satanica: «aveva due corna come l'agnello, ma parlava come il dragone. Esercitava tutta l'autorità della prima bestia per conto di essa».
Né si può tralasciare l'immagine che segue: le sette coppe venefiche gettate sul mondo.
La prima che provoca «una piaga maligna e perniciosa», la seconda e la terza, che mutano l'acqua del mare e dei fiumi come «nel sangue di un morto»; la quarta che fa avvampare il sole, sì che tormenti gli uomini di un calore insopportabile.
La quinta coppa, lanciata sul trono del dragone, i cui seguaci si mordono la lingua «per il dolore delle ulcere».
E la sesta, che prosciuga «il fiume Eufrate», per lasciare aperto il passo ai terribili «re dell'Oriente»: le torme demoniache di Gog e Magog.
Quali di queste coppe sono già state versate?
Certo non la settima, quella che farà uscire dal tempio la voce che dice: «tutto è compiuto».



No, non ci sarà una Norimberga per questo crimine inaudito.
La grande bestia e la piccola, il falso agnello amministratore, si sono dati tutti i mezzi che la potenza terrena consente.
Sono al sicuro dietro le loro muraglie, al sicuro nelle loro armi atomiche; e sanno che nessun tribunale umano oserà giudicarle.
Anzi sono esse e giudicare gli altri - e a condannarli.
Io credo che questa sia precisa volontà di Dio.
Perché quando il castigo verrà, i persecutori non possano dirsi perseguitati da altri uomini; perché sia chiaro a loro, che hanno rifiutato il loro Dio, che è Sua la mano che colpisce.
Che il castigo verrà, non lo dico io.
Lo sentono gli israeliani: sempre più armati e sempre più paranoici, appena fanno sparire un loro nemico, gridano ancora più forte che l'«esistenza stessa di Israele è in pericolo».
Nel loro profondo, sanno che cosa sfidano; per questo non si sentono sicuri, e accumulano armi e alleati, capacità distruttive inaudite; e sempre nuovi popoli devono morire, perchè gli eletti si sentano sicuri.

Ma sanno che c'è Qualcuno che hanno sfidato, da cui sicuri non saranno mai.
Ma la fede ci dice anche che possono ancora salvarsi.
Come?
Chiedendo perdono.
Collettivamente perché collettivamente hanno rivendicato il male; ritualmente, sacerdotalmente, chiedere perdono ad ogni popolo castrato e mutilato per regnare sul mondo di qua: ai russi, ai tedeschi, agli arabi.
Chiedere e dare perdono.
Lo farà il piccolo resto che resterà di loro.
Quello che saluterà «benedetto colui che viene nel nome del Signore».
Ciò attende il loro Messia rifiutato.
Non che si pieghino a preti cristiani: Cristo stesso non è cristiano, ha «altre pecore che non sono di quest'ovile».
Ma che riconoscano negli altri uomini, anziché animali parlanti, dei fratelli nel destino superiore, sotto l'unico Padre.
Riconoscano che ogni uomo è venuto «nel nome del Signore», lo sappia o no.
E' questa la speranza che ho per loro.

Maurizio Blondet



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Note
1) Arun Shrivastava, «Depleted uranium is blowing in the wind», Globalresearch, 2 marzo 2006.
2) Leuren Moret, «From battlefields in the Middle East: depleted uranium measured in british atmosphere», Globalresearch, 2 marzo 2006.
3) Justin Raimond, «Another war for Israel», Antiwar.com, 6 marzo 2006.



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