Usa: sintomi di rigetto contro il globalismo
Maurizio Blondet
09/03/2006
Americani in coda per un posto di lavoro
STATI UNITI - Non succede solo in Europa.
Anche in America le fabbriche chiudono, per riaprire in Cina.
Anche gli americani qualunque - che hanno perso un buon salario in fabbrica, per ritrovarsi camerieri e addetti di McDonald - perdono potere d'acquisto e competitività.
E ora c'è una novità: in USA; i grandi giornali cominciano a dare voce a questa insoddisfazione dell'opinione pubblica.
A criticare apertamente i dogmi del liberismo senza freni, che non mette barriere doganali all'invasione di merci a poco prezzo, né alla fuga dei capitali all'estero.
Non è mai avvenuto prima: i dogmi e i precetti del liberismo globale erano intoccabili, nessun commentatore osava sfidarli, perché si attirava l'accusa di «protezionista».
Ora, questo cambiamento può cambiare la storia.
Anche la nostra.
«Ci hanno detto», scrive Pat Buchanan, noto editorialista di decine di giornali, cattolico conservatore, che è stato anche candidato presidenziale, che la globalizzazione avrebbe «fatto accrescere il nostro attivo commerciale, sollevato il livello di vita di Paesi come il Messico, e ridotto l'immigrazione illegale», perché avrebbe creato posti di lavoro nel mondo povero.
«Niente di queste promesse si è avverato. Anzi è avvenuto il contrario. I messicani stanno peggio che nel 1993. L'avanzo commerciale USA è diventato un deficit enorme. E l'America è invasa da clandestini» (1).
Paul Krugman, docente a Princeton ed editorialista del New York Times, era fino a ieri un super-liberista.
Oggi deride il presidente Bush per aver ripetuto uno dei soliti dogmi del liberismo globale: «perdere il lavoro è doloroso, ma allora bisogna che la gente acquisti un livello di istruzione superiore, così da rioccuparsi nei lavori ad alto contenuto tecnologico che il 21mo secolo richiede».
Ma questo è «manifestamente falso», ribatte Krugman.
Una quantità di ingegneri elettronici americani, che «credevano di avere già i requisiti di istruzione per 'i lavori del 21mo secolo', scoprono che quei lavori sono emigrati in India, perché gli ingegneri indiani, che sono pagati un decimo, hanno le stesse qualifiche» (2).
Paul Craig Roberts, opinionista conservatore (è stato vice-ministro del Tesoro sotto Reagan) sbugiarda i dati trionfali ufficiali secondo cui, grazie alla globalizzazione, l'America avrebbe creato 4,6 milioni di posti di lavoro nuovi dal 2003 ad oggi, abbassando la disoccupazione al 4,7 %e mantenuto bassa l'inflazione.
Di fatto, i nuovi lavori sono nati esclusivamente nei «servizi» di più basso livello: camerieri, badanti, assistenza ai vecchi; mentre sono spariti 2,9 milioni di lavoro industriali, tutti emigrati in Cina, India e Taiwan.
«Il settore apparecchi di comunicazione ha perso il 43 % della sua forza-lavoro. I semiconduttori e componenti elettronici, il 37 %; gli elettrodomestici, il 25 %. Il declino nei settori manifatturieri somiglia a quello di un Paese sotto bombardamenti a tappeto, piuttosto che a una 'super-economia che il mondo ci invidia'», dice Roberts.
La disoccupazione al 4,7 %?
E' un trucco statistico, basato sui nuovi metodi di conteggio che considerano «lavoro» ogni occupazione, anche la più precaria.
Se si adottano i metodi statistici che erano in vigore in USA fino al 1980, la disoccupazione americana risulta pari a quella europea: sul 12,5 %.
Inflazione bassa?
Gli americani salariati non ne hanno alcun beneficio.
Perché «i loro salari reali sono calati dello 0,5 % negli ultimi mesi, dopo essere calati già dello 0,7 % nei dodici mesi precedenti».
Il reddito medio è sceso in Usa del 2,3 %, scrive Tom Blacknurn sul Palm Beach Post, e quello mediano (che non è quello medio, ma quello degli americani che si trovano a metà della forbice dei salari) è salito solo dell'1,6 % tra il 2001 e il 2004.
La globalizzazione ha redistribuito la ricchezza nel modo più iniquo, rincara Krugman.
Nel 1959, l'80 % della popolazione riceveva il 50 % degli introiti nazionali, e l'altra metà andava al 20% superiore.
«Oggi, l'80 % degli americani ha solo il 40 % degli introiti; e quello che hanno perso loro è andato a un quarto dell'1 % più ricco, a gente con redditi superiori a 750 mila dollari annui».
I vincenti sono insomma quelli che erano già miliardari, i detentori di beni finanziari, che speculano sul mercato globale dei titoli.
Non a caso, scrive Daniel Wagner sull'Herald Tribune, «la Borsa in India è schizzata in alto del 42 %, e a Malta del 60% in un anno».
In una frenesia speculativa senza precedenti, gli investitori «continuano a gettar denaro in azioni iper-inflazionate» in borse marginali di Paesi emergenti, convinti che la globalizzazione abbia reso l'economia troppo «grossa» per rischiare un crack.
E' vero il contrario, dice Wagner.
La sparizione di barriere e dazi che rallentavano le merci e i capitali significa che sono spariti anche gli argini che ci proteggevano dalle alluvioni finanziarie straniere.
Il mondo è diventato «piatto»: una crisi in qualunque Paese si trasmetterà a tutti, perché le economie del mondo sono ora interdipendenti e collegate.
«La globalizzazione ha reso tutte le economie più vulnerabili a contraccolpi imprevisti» (3).
Basta un attentato che blocchi per qualche giorno il flusso del petrolio dall'Arabia Saudita.
Il prezzo del greggio va alle stelle; i consumatori americani consumano meno; e la Cina, che esporta negli USA a man bassa, «dovrà scalare la marcia dalla quinta alla prima».
L'intera produzione mondiale rallenta, con effetti a cascata su tutti i Paesi: una crisi locale provoca una recessione globale.
Insomma, scopriamo che anche per molti americani la globalizzazione non è un bene assoluto, anzi.
Che anche loro lamentano gli effetti negativi, come gli europei: de-industralizzazione, impoverimento, disastro sociale.
La novità non è negli argomenti di questi columnist: i disastri della globalizzazione erano prevedibili.
E previsti di fatto, già da Marx, anzi da David Ricardo nel '700.
La novità è che queste cose si scrivano in America sui grandi giornali.
Che Pat Buchanan possa domandare : «che cosa è il fallimento, per l'ideologia del mercato libero globale? O non esiste nulla del genere? E la globalizzazione è 'giusta' qualunque ne siano i risultati?».
Fino a poche settimane orsono, era tabù porre domande simili.
Nessuno poteva mettere in dubbio, in USA, i miti e i dogmi del globalismo liberista.
Ora, la critica al globalismo acquista legittimità.
E questo è l'inizio di un cambiamento di idee, che avrà conseguenze per tutti noi.
Perché, in Occidente, è ancora l'America che pensa, la sola che progetta il futuro.
E'stata l'America - i suoi think-tank finanziati dai poteri forti e dalle multinazionali - a elaborare la dottrina del libero commercio globale senza regole e senza limiti, e ad imporlo al mondo. Risultato: oggi tutti in Europa sono a parole per il «mercato globale», questa versione estrema del capitalismo finanziario.
Piero Fassino, dopo che la Francia ha chiuso la porta in faccia alla nostra ENI, ha detto che l'Italia non deve rispondere con simili «protezionismi»: parlando come fosse già un dipendente della Goldman Sachs.
Tremonti, il solo che ha avanzato critiche argomentate contro le devastazioni della globalizzazione, viene deriso come «colbertista»; per la Bonino, è un no-global tipo Caruso.
Ma aspettate che in America il discorso pubblico cambi (sta cambiando), e tutti di colpo, nella nostra sinistra, scopriranno i benefici di un po' di protezionismo, invocheranno la salvezza dei posti di lavoro, l'intervento statale nell'economia e il controllo dei capitali in fuga.
Questo perché l'Europa non pensa, e l'Italia meno ancora.
Non facciamo che accettare le dottrine dominanti in America: e non perché ci riflettiamo in proprio, ma perchè l'America ha reso legittimo dire cose prima vietate.
Così abbiamo accettato le teorie del liberismo fondamentalista: come una moda, o come il catechismo di una religione, imparato a memoria.
E siamo pronti ad accettare il contrario, purché venga dall'America: sempre come la nuova «ultima moda» in fatto di economia, senza pensarla per conto nostro e senza capire del tutto.
Vedrete, fra pochi mesi anche la Bonino e Fassino ci terranno lezioni di keynesismo.
E accuseranno Tremonti di non essere abbastanza protezionista.
Che importa?
L'importante è che la musica cambi, e cominci una frenata all'emorragia di posti e di capitali. Perché da troppi anni compriamo telefonini made in Taiwan, pagandoli al prezzo del futuro dei nostri figli, disoccupati cronici.
In USA hanno cominciato a riflettere.
Speriamo che continuino.
Maurizio Blondet
--------------------------------------------------------------------------------
Note
1) Pat Buchanan, «Our hollow prosperity», Creators Syndicate Inc., 15 febbraio 2006.
2) Paul Krugman, «No economic respect», Internatianal Herald Tribune, 7 marzo 2006.
3) Daniel Wagner, «Investor: beware» International Herald Tribune, 8 marzo 2006.