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    Predefinito Attualità di Orwell: il controllo del passato

    | Venerdi 10 Marzo 2006 - 139 | Mario Consoli |

    Si è tornati a leggere su libri e giornali con crescente frequenza di George Orwell e del suo romanzo 1984 . Si tratta di un argomento di indubbia attualità: l’autore immagina infatti una tirannia basata sul controllo e la manipolazione dell’informazione e sulla più rigida e spietata repressione di ogni forma di libertà politica e intellettuale. Chi sgarra commette la colpa delle colpe, lo «psicoreato», che provoca una scomunica sociale con conseguenze tremende, definitive.

    «Lo psicoreato non comporta la morte, esso è la morte».

    Il personaggio della vicenda si chiama Winston Smith, «l’ultimo uomo in Europa» , come Orwell in un primo momento voleva intitolare il libro. Smith lavora al Ministero della Verità, dove è incaricato di «riscrivere», secondo le esigenze del momento, le notizie che riguardano il passato, bruciare i documenti originali e sostituirli con quelli «rielaborati».
    Smith sapeva, ma forse era l’unico rimasto ad avere una memoria storica e voglia di conoscere. «Libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro», continuava a ripetersi. «Non era vero, come sostenevano le cronache, che il Partito aveva inventato gli aeroplani. Lui gli aeroplani se li ricordava fin dalla più remota infanzia, ma non si poteva dimostrare nulla. Non esistevano più le prove».
    Si sentiva tragicamente solo. L’ultimo uomo ad avere qualche brandello di conoscenza e, soprattutto, qualche interesse a conservarla.
    «Ma questa conoscenza, dove si trovava? Solo all’interno della sua coscienza, che in ogni caso sarebbe stata presto annientata. E se tutti quanti accettavano la menzogna imposta dal Partito, se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera. “Chi controlla il passato” diceva lo slogan del Partito “controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”».
    Il Ministero della Verità si occupava anche di redigere la «neolingua», che consisteva in una progressiva semplificazione del linguaggio: un numero sempre più ridotto di vocaboli e una costruzione sempre più essenziale della fraseologia. Un lavoro incessante di forbici: vocabolari con sempre meno pagine. Più la neolingua si faceva scarna, più facilmente le comunicazioni - sia pubbliche che private - erano controllabili. E non solo: «Lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero. Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno più parole con cui poterlo esprimere».
    La popolazione era divisa in due. Da una parte la maggioranza, i «prolet», verso la quale non vi erano preoccupazioni di sorta: nessuno di loro si interessava alla politica o ambiva a carriere di potere; lavoravano, si distraevano con la pornografia che gli veniva ammannita in abbondanza, si divertivano, procreavano, si ubriacavano; una massa informe e spersonalizzata. I prolet non avrebbero mai potuto ribellarsi.
    Poi c’era l’ampia classe dirigente che si occupava di tutto; una moltitudine di burocrati e funzionari estremamente inquadrata e controllata. Attraverso una capillare rete di televisori ricetrasmittenti ogni frase era intercettata, ogni movimento sorvegliato, mentre incessantemente erano divulgati i comunicati del Partito. Un indottrinamento continuativo e martellante.
    Winston Smith, per scrivere qualche riga su un diario, era costretto a rannicchiarsi in un angolo dietro allo schermo: l’unico punto della casa dove l’occhio del Grande Fratello non arrivava.

    Come Orwell, con sorprendente intuizione, abbia previsto il nostro tempo ce lo confermano l’uso di un vocabolario oggi sempre più scarno e internazionalizzato, le diffuse intercettazioni telefoniche, dei fax, delle e-mail, l’opportunità di utilizzare i computer come microfoni ambientali, e ancora la possibilità di individuare un cellulare, anche se spento, la facilità con la quale si possono ricostruire attività e spostamenti di un individuo attraverso il Bancomat, le carte di credito e il Telepass.
    Oggi anche in Europa, come già da parecchi anni in America, è guardato con sospetto, quasi fosse un malvivente, chi si ostina a pagare in contanti. Evidentemente si subodora un eccessivo attaccamento alla riservatezza e una preoccupante insofferenza verso i controlli; un embrione di psicoreato.
    In 1984 solo la scenografia, rispetto ad oggi, è sbagliata. Quando Orwell scrisse il romanzo si profilavano nel mondo due tirannie: quella sovietica e quella finanziario-capitalista; lo scrittore immaginò l’affermazione della prima e quindi inserì la sua storia nel grigiore di un regime sovietizzato.
    Nella realtà ha poi vinto l’altra tirannia e, invece dei grigi abiti tutti uguali, c’è lo sgargiante abbigliamento consumista; invece dello scadente «gin Vittoria» ci sono gli spinelli, le pasticche e la cocaina. Per il resto tutto come previsto. Solo qualche discordanza di ordine estetico, assolutamente ininfluente.
    Tutto come previsto: siamo alla tirannia del Grande Fratello, dell’informazione controllata e preconfezionata; siamo nel tempo dello psicoreato e della totale omologazione.
    C’è un altro elemento di preveggenza nell’opera dello scrittore inglese. L’Oceania, il regno del Grande Fratello - la cui capitale è Londra - è in perenne stato di guerra. Per lo più una guerra lontana, tanto che spesso Smith si domanda se si tratti di un reale conflitto o solo di una artificiosa falsa informazione utile a conservare in soggezione la popolazione, chiederle sacrifici, farle vivere un solidale sentimento di odio.

    Ma ci sono anche le bombe-razzo che cadono vicino e fanno danni e vittime, e che finiscono per fugare nella maggioranza ogni possibile dubbio sull’esistenza del nemico. Come oggi. Ma «le bombe-razzo che cadevano tutti i giorni su Londra erano probabilmente sganciate dallo stesso governo dell’Oce-ania, per mantenere la gente nella paura».
    E, come oggi, ogni diritto viene sacrificato sull’altare della lotta al terrorismo.
    Sicuramente nessuno poteva immaginare nel 1948, quando Eric Blair - vero nome dello scrittore da tutti conosciuto con lo pseudonimo di George Orwell - scriveva la sua opera di fantapolitica, che nel 2005 un altro Blair - Tony, primo ministro inglese - avrebbe affermato, sull’onda mediatica orchestrata sul terrorismo internazionale - come già fatto da Bush negli USA -, che occorre emendare la carta dei diritti umani; che i giudici possono ordinare arresti anche in assenza di prove; che vanno istituiti tribunali speciali e che questi devono essere tenuti segreti; che è opportuno limitare i diritti legali della difesa; che il termine della detenzione preventiva deve essere portato dagli attuali 14 giorni ai tre mesi. E altre cosucce del genere. Sembra proprio di ascoltare il Grande Fratello orwelliano e di vederne, sul teleschermo, gli occhi minacciosi e penetranti.
    Un’ulteriore curiosa concidenza: il funzionario chiamato dal primo ministro inglese a realizzare tecnicamente questa sequela di provvedimenti liberticidi, si chiama anche lui Blair, Ian, attuale capo della polizia britannica.
    Ma torniamo alla sostanza del libro: «La consapevolezza di essere in guerra, e quindi in pericolo, fa sì che la concentrazione di tutto il potere nelle mani di una piccola casta sembri l’unica e inevitabile condizione per poter sopravvivere». E ancora: «Non importa che la guerra sia combattuta per davvero e, poiché una vittoria definitiva è impossibile, non importa nemmeno se la guerra vada bene o male; serve solo che uno stato di belligeranza persista».
    Sembra proprio di sentir parlare di Osama Bin Laden e del mullah Omar, i mitici e introvabili nemici del Grande Fratello democratico, delle fantomatiche armi di distruzione di massa di Saddam, dell’individuazione di sempre nuove Nazioni canaglia contro cui combattere.

    Sia nell’opera di Orwell che nel tempo in cui viviamo incombe dunque, denso di significati ed evocatore di tragiche conseguenze, lo psicoreato.
    Psicoreato non è sinonimo di «reato di opinione». è parecchio di più e, soprattutto, è qualcosa di molto diverso. Il reato d’opinione è istituito per legge, nero su bianco, codificando quelli che sono i valori, i simboli, le colonne portanti di un regime politico, e stabilendo che il vilipendio pubblico di queste cose non è consentito. Si tratta di una partita a carte scoperte: da una parte il potere e le sue regole pubblicamente dichiarate, dall’altra i potenziali oppositori con le loro opinioni. Una partita spesso dura, fortemente limitativa della libertà e quindi difficile da approvare, ma che si gioca ancora nell’àmbito di un chiaro confronto politico. Prevedendo quel tipo di reato non si nega infatti la legittimità di condividere le idee proibite o di pensare liberamente, si vieta di farlo in pubblico, cioè di propagandarlo.
    Tra reato d’opinione e psicoreato c’è insomma un grande salto concettuale: per il primo il soggetto è l’opinione individuale o di parte, e quindi la libertà come condizione politica contingente, per il secondo il soggetto è una verità che si vorrebbe assoluta e quindi la libertà come valore. Si passa cioè dal politico al religioso. E si tratta di una religione che procede solo per dogmi, che peraltro sono sempre mutevoli, a capriccio delle convenienze del potere. E si tratta, per di più, di una religione che non ha nulla di sacro.
    Per comportarsi bene oggi occorre essere politically correct , ma cosa questo significhi con esattezza non è scritto da nessuna parte. Lo psicoreato non prevede nessuna codificazione di principi, di valori, di simboli; è qualcosa di estremamente generico, si riferisce esclusivamente allo status di omologazione al Potere: quello della Democrazia, quello della Globalizzazione, quello della Finanza internazionale, quello delle Grandi Banche, quello dei Padroni del mondo.
    Un potere che non ama autodefinirsi o qualificarsi ideologicamente, ma che si esprime esclusivamente con il controllo dell’informazione e che si realizza nel semplice esercizio del comando. Omologazione infatti non vuol dire accettare di condividere questo e quello, vuol dire essere disposti ad approvare qualsiasi cosa, anche se assurda o palesemente falsa. L’omologato digerisce tutto.
    Il fascismo, dopo soli diciotto anni di regime, pubblicò un monumentale Dizionario di politica , stampato dalla Treccani in quattro volumoni nei quali, voce per voce, era affrontato qualsiasi argomento e ogni risvolto ideologico. Per la redazione di tale opera si scomodarono letterati, filosofi, professori universitari, economisti, storici e la penna dello stesso Mussolini.
    Oggi invece si parla solo di «democrazia», genericamente, senza specificarne alcun aspetto né ideologico, né politico, né tecnico.
    D’altra parte, chi comanda il mondo, l’economia, e determina la sorte delle nazioni e dei popoli, non è mai eletto da nessuno e di nessuno chiede il consenso; per lo più opera e decide lontano dai riflettori, all’interno di palazzoni di cui i cittadini spesso ignorano anche l’esistenza.
    Ci si deve dunque omologare, accettare per buona tutta l’informazione che viene ammannita e non porsi domande. Altrimenti si cade nello psicoreato. E la pena è l’uscita dalla realtà. Cioè vedersi impedita la possibilità di comunicare con la pubblica opinione, quindi di informare. Nessuna ospitalità sui giornali a tiratura nazionale, nessun passaggio nei salotti televisivi e, soprattutto, nessuna pubblicità indiretta. Ai non omologati, agli apoti - come li chiamava Giuseppe Prezzolini (1) - non bisogna rispondere; con essi non è opportuno polemizzare. Non si deve sapere nemmeno che essi esistono.
    In America, dove un incredibile numero di libri sono stati editi per smantellare, pezzo per pezzo, la versione ufficiale degli avvenimenti dell’11 settembre 2001, nessuno si è dato cura di rispondere, di precisare e, nemmeno, di smentire. Nonostante sia sufficiente andare su certi siti Internet o in una libreria mediamente fornita, per avere la certezza che in quel giorno le cose non sono andate come pretende l’ufficialità, il controllo della grande informazione è bastato a convincere la pubblica opinione che l’artefice di quegli attentati è stato proprio quell’Osama Bin Laden che ci viene presentato come il capo del terrorismo internazionale.

    Se in America - e anche altrove - si parla a qualcuno del jet set dei contestatori, dei revisionisti, per risposta si ottiene un sorrisetto beffardo e un’espressione di scherno: «ah, i grassy knoller!» , e si cambia subito discorso.
    Grassy knoll (2) è la traduzione di «collina erbosa». L’espressione è stata coniata dopo l’assassinio di Kennedy a Dallas. Un folto numero di testimoni affermò che gli spari che uccisero il presidente non erano venuti dalle finestre del magazzino della biblioteca - dov’era Oswald - ma dalla collina erbosa che costeggiava la strada. L’inchiesta che seguì non tenne conto di queste testimonianze e confezionò una verità tutta incentrata su Oswald, che peraltro da lì a pochi giorni venne messo a tacere per sempre.
    Grassy knoller , cioè gli impiccioni, i fantasiosi, i ficcanaso, quelli che vogliono sapere troppe cose.
    Per chi poi riesce a sgattaiolare tra i paletti del Grande Fratello e procurarsi un uditorio, è già pronta la contromossa. Daniel Pipes, consigliere di Bush per il Medio Oriente, ha elaborato una teoria secondo la quale i complottisti - coloro che, in presenza di qualcosa di sospetto, si documentano e vogliono vederci chiaro - sono quelli che hanno portato al potere Hitler e Stalin. Insomma, i complottisti non sarebbero gente per bene, ed è buona cosa starne lontani e non dar loro mai credito.
    Con il controllo dei media si riesce ad imporre qualsiasi notizia. La realtà non è più il vissuto, ma il racconto che se ne fa. Lo spettacolo della notizia prevale sull’informazione di ciò che effettivamente è avvenuto. Come fosse una rappresentazione teatrale o cinematografica, con la sostanziale differenza che chi va a teatro o al cinema sa di assistere ad una finzione scenica, chi invece legge un giornale o guarda la televisione finisce per convincersi che è tutto vero.
    Un esempio: nello scorso aprile su una spiaggia del Kent la polizia ferma un individuo che non risponde alle domande. Viene condotto in un ospedale psichiatrico, ma anche ai medici non risponde. Gli viene dato un foglio e una matita: «scrivi il tuo nome» , ma lui niente. Dopo ulteriori insistenze comincia a tracciare dei segni: disegna un pianoforte a coda. Allora viene fatto sedere di fronte a un piano e - i media ci informano - lo smemorato comincia a suonare. Quattro ore di «ottima musica classica» di fronte a un pubblico di medici e infermiere, stupiti ed estasiati.
    Pagine e pagine di articoli, ampi servizi sui telegiornali. Da fabulazione a fabulazione, si fanno ipotesi tra le più romanzesche e stravaganti. Un grande musicista colto da amnesia? Un professore d’orchestra, un solista, un compositore? Per tutti lo smemorato diviene Piano Man .
    Dopo quattro mesi il tipo parla ed esce fuori la verità, riportata solo da veloci trafiletti su qualche giornale e subito archiviata perché stavolta la notizia non fa spettacolo. Si tratta di un omosessuale tedesco con problemi di esaurimento nervoso, in fuga dalla famiglia e chissà da cos’altro. E dice anche che non sa assolutamente suonare il pianoforte. Che ha disegnato lo strumento perché era la prima cosa che gli era venuta in mente. Allora tutti ammettono che non ha mai suonato «ottima musica classica» , ma ha solo pestato sui tasti, in maniera disordinata e sempre le stesse note.
    Dunque - è questa considerazione che fa diventare istruttivo questo aneddoto di poco conto - per la maggioranza, alla quale certamente sono sfuggite le veloci smentite, quella di Piano Man rimane una storia misteriosa e romantica. Per tutti costoro la realtà è destinata a rimanere quella - di pura invenzione - del musicista smemorato chiuso in un manicomio del Kent e non quella - autentica - dell’omosessuale riportato ad agosto in Baviera.
    Con il controllo dei media qualsiasi avvenimento, anche il più fantasioso ed improbabile, può essere rappresentato e fatto passare per vero. Nell’esempio citato il danno è irrilevante; inesistente. Ma in altri casi le conseguenze sono state e possono essere incalcolabili: si pensi alla storia delle armi fotografate dai satelliti in Iraq; si pensi alla vicenda delle Torri Gemelle di New York; si pensi all’Olocausto...
    Un ulteriore esempio: il Capo del Servizio Stampa e Informazione del Ministero degli Affari Esteri, Pasquale Terracciano, lo scorso 5 ottobre ha scritto a tutti i direttori delle testate giornalistiche e radiotelevisive italiane: «Nell’imminenza del referendum che avrà luogo in Iraq il 15 ottobre prossimo, desidero attirare la Sua attenzione sulla perdurante pericolosità dell’attuale situazione nella capitale irachena, destinata verosimilmente ad acuirsi in prossimità della consultazione referendaria. Ribadisco al contempo il parere del Ministero degli Esteri, peraltro più volte espresso in passato, assolutamente negativo sull’opportunità e sull’avvedutezza di un invio di giornalisti dall’Italia a Baghdad in questa situazione».
    Dunque, in Iraq testimoni non ce ne devono essere. E’ così che dopo lo svolgimento delle elezioni ci viene detto che l’afflusso alle urne è stato tra il 60 e il 70%. Una importante notizia: il Grande Fratello democratico esulta per questa nuova vittoria contro il terrorismo e la resistenza irachena. Nonostante l’occupazione militare, nonostante la guerra civile, nonostante le stragi delle bombe, nonostante un’economia completamente distrutta, nonostante le difficoltà di circolazione, le distanze, i deserti, i ponti crollati e la grande paura, quasi tutti gli iracheni, a loro rischio e pericolo, si sono recati a votare. Con una percentuale di partecipazione che non si riscontra nemmeno negli USA e forse neppure da noi. D’altronde i giornalisti, se avessero potuto essere presenti, per le strade di Baghdad, dopo i seggi elettorali, girato l’angolo, avrebbero certamente potuto incontrare anche Cappuccetto Rosso, Cenerentola e Babbo Natale.

    Winston Smith, il personaggio del romanzo di Orwell, cade nello psicoreato: rifiuta l’omologazione, pretende una vita privata libera, con la donna che ama, sia pure in una stanza sporca e disagevole, ma senza controlli; e arriva persino a praticare la ribellione. Viene scoperto, internato, torturato, omologato a forza. Per quell’«ultimo uomo in Europa» la fine è disperata e senza ritorno.

    Anche per noi l’atmosfera risulta irrespirabile e il destino sembra ammantarsi in modo irreversibile di tragiche oscurità. Ma, nonostante tutto, conserviamo un’istintiva fiducia nella rinascita dei nostri popoli, dei nostri valori, della nostra Europa. Non foss’altro che per gli errori altrui. Il Grande Fratello e le forze che lo sorreggono sono tutt’altro che infallibili.

    Ma intanto che fare? Si è ormai spenta anche tra i più ottimisti e pervicaci la speranza di vedere la nascita di una forza realmente alternativa che, direttamente collegata col nostro mondo di valori, possa ottenere una sua agibilità e una sua visibilità. Quei pochi che continuano ad insistere in questi fallimentari progetti hanno evidentemente scelto - coscientemente o meno poco importa - di votarsi all’inutilità e al masochismo. Certamente nella vita anche questo può accadere, ma non ha mai una rilevanza politica.

    Gli uomini liberi oggi sessantenni, quelli che nascevano quando finiva la seconda guerra mondiale - occorre dirlo con chiarezza - rappresentano la mancata classe dirigente dell’alternativa. Forse per colpa degli eventi storici e di quelli economici, o per colpa del nostro cronico sentirci figli di una sconfitta, fatto sta che il ruolo che continuiamo a ricoprire sembra proprio - come qualcuno ha argutamente e tristemente scritto - condannato al supplizio di Sisifo. Il figlio di Eolo costretto in eterno a spingere fin sulla cima di un monte un macigno destinato a rotolare nuovamente a valle.

    E, inoltre, le generazioni giovani appaiono tragicamente omologate, indifese, smarrite e impotenti. Noi avevamo almeno potuto sentire l’odore di un mondo di valori diverso. Ne avevamo conosciuti, pur se massacrati e storditi, i reduci. I giovani di oggi non hanno avuto nemmeno questo.

    E allora che fare? Come poter giustificare questa nostra ostinata certezza nella rinascita dell’uomo europeo?
    Winston Smith, prima di crollare, dice al suo torturatore: «Non so come, e neanche m’importa, ma non riuscirete nel vostro intento. Qualcosa vi sconfiggerà. La vita vi sconfiggerà». «Io so che fallirete. C’è qualcosa nell’universo... non so, uno spirito, un principio... che voi non riuscirete mai a dominare... Lo spirito dell’Uomo».

    Conserviamo la nostra fiducia perché «due più due fa quattro» , perché un vento salutare, capace di spazzare le nere nuvole che sovrastano la nostra storia, dovrà necessariamente arrivare. Anche se ora, in questa persistente calma piatta, può sembrare impossibile.
    E quello sarà, finalmente, il tempo nel quale ogni frase scritta per rendere noti i fatti realmente accaduti, ogni parola dedicata a trasmettere l’essenza di un valore, il significato di un’identità, l’importanza di un’appartenenza, brilleranno improvvisamente di una vivida luce; saranno le pepite di una nuova era di civiltà.
    Ecco dunque cosa fare. Perché i giovani di domani possano trasformarsi, con successo, in cercatori d’oro, occorre che noi oggi l’oro lo prepariamo. Occorre testimoniare, ma anche stilare analisi lungimiranti. Bisogna informare, documentarsi e diffondere idee, anche se sembra che oggi solo in pochissimi siano disposti ad ascoltare o a leggere. Anche se i più sembrano paralizzati dall’incombenza dello psicoreato. Anche se può apparire troppo faticoso e frustrante...
    Questo, e non altri, è il compito che ci spetta. E spetta proprio a noi, i non omologati, gli apoti, i grassy knoller , gli orgogliosi e testardi psicorei. Gli uomini liberi.

    Mario Consoli

    (1) Apota sta per «chi non la beve». Il termine cominciò a circolare quando Giuseppe Prezzolini scrisse il Manifesto degli apoti.

    (2) cfr. Maurizio Blondet, Israele, USA, il terrorismo islamico , Effedieffe edizioni, 2005, pag. 21.

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    Aldous Huxley. Il mondo nuovo.
    Da aggiungere a 1984 di Orwell.

 

 

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