E' interessante discutere brevemente della posta in gioco di una Europa unita e maggiormente autonoma politicamente e militarmente da un punto di vista 'nazionalitario'. Quale posizione è coerente con le istanze di liberazione sociale e di indipendenza nazionale (culturale, politica, economica) espresse dai comunitaristi italiani?
Riflessioni sull'Europa politica

La costruzione europea, in particolare sotto gli aspetti della sua integrazione monetaria/finanziaria da un lato e dei progetti di identità di sicurezza e di difesa militare da un altro, è decisamente uno degli argomenti più dibattuti degli ultimi anni.
Come nel 1999, in occasione dell'azione NATO nella Ex-Jugoslavia, anche nel 2003, allorché gli Stati Uniti, con alcuni paesi alleati, hanno mosso guerra all'Iraq, si è tornati a polemizzare sulla 'mancanza di unità' dell'Europa politica, e sulla 'urgenza' di costruire una capacità militare autonoma dei paesi della UE.
E' interessante discutere brevemente della posta in gioco da un punto di vista 'nazionalitario'. Quale posizione è coerente con le istanze di liberazione sociale e di indipendenza nazionale (culturale, politica, economica) espresse dai comunitaristi italiani? Innanzitutto, schematizziamo brevemente le più comuni posizioni che nel corso degli ultimi 50 anni hanno contraddistinto le classi politiche europee:

- federalismo
- confederalismo
- atlantismo
- 'nucleo duro'

La distinzione più importante, volendo essere molto concisi, resta quella tra chi vede di buon occhio la formazione degli 'Stati Uniti d'Europa', sul modello federalista, con un unico 'Stato europeo' che assuma il comando politico, economico e militare delle varie 'euro-regioni', e chi invece parteggia per un approccio 'inter-governativo' basato su una confederazione di Stati-nazione. Per capirsi, il primo caso è il sogno dei movimenti federalisti europei e di intellettuali come Alexandre Marc (teorico del federalismo integrale [1]), il secondo è il tradizionale approccio gollista, sintetizzato dal Plan Fouchet del 1961 [2]. Il Trattato di Maastricht (dicembre 1991) è un compromesso tra i due poli, ma un compromesso che per certi versi rende molto difficile la creazione di una vera Europa politica, anche perché a questa distinzione appena menzionata, il Trattato aggiunge il compromesso tra l'atlantismo (quindi filo-americanismo) degl inglesi e di ampie porzioni delle classi dirigenti tedesche, italiane, olandesi etc., e la concezione di 'nucleo duro' europeo (tipica dei gollisti ma anche di Mitterrand e di alcune minoranze democristiane e socialdemocratiche tedesche e italiane).
Queste posizioni, appena delineate, sono comunque accomunate dalla convinzione che l'Europa, gigante economico pacificato al suo interno dopo secoli di guerre fratricide, debba avere un ruolo politico sulla scena mondiale adeguato alla propria prosperità e potenzialità. Dietro questi bei propositi si cela, è chiaro, la volontà di potenza di vari settori del potere dei principali paesi euro-occidentali. In primo luogo, gli apparati statali, le burocrazie partitiche e sovranazionali, gli agenti pubblici dominanti che controllano la direzione della spesa pubblica e l'embrione di apparato industrial-militare europeo [3]. In secondo luogo (ma non secondo per importanza e peso politico...), i gruppi imprenditoriali più importanti, le cui ambizioni sono spesso frenate dal fatto di non poter contare, come possono fare invece gli omologhi competitori statunitensi, su Stati militarmente e diplomaticamente dominanti. Al di là delle solite frasi di circostanza, insomma, l'Europa-potenza non può che acuire la competizione infra-occidentale tra l'area USA e quella UE. Non corrisponde al vero che una forte identità europea in materia di sicurezza e di difesa rafforzerebbe il legame transatlantico. Questa è una banalità da funzionario internazionale, che i critici americani più sinceri (e brutali) irridono, a ragione [4].
Un progetto politico nazionalitario coerente, basato cioè sull'unione non solo ideale ma anche metodologica di liberazione sociale e liberazione nazionale, è certamente tenuto a prendere posizione in merito. In primo luogo, occorre ragionare sul problema dello Stato, su quale ne sia la natura e su cosa potrebbe diventare in un'Europa politicamente integrata e forte. In secondo luogo, è necessario pensare quale opzione, tra le più probabili per il prossimo futuro, sarebbe tatticamente più logico appoggiare. Il tutto deve rispondere a una domanda fondamentale, vale a dire: quante possibilità ci sono di poter realizzare gli obiettivi politici, economici e culturali del Progetto comunitarista nei differenti scenari europei che si profilano all'orizzonte?
Andiamo con ordine.

Innanzitutto, lo Stato-nazione, come forma storica della statualità, è oggi in crisi, ma nel senso greco del termine (krisis): è cioè in una fase di trasformazione, e non di 'irreversibile declino', come la vulgata sulla globalizzazione ha sostenuto e sostiene da decenni. Non tutti gli Stati-nazione -- tanto per cominciare -- hanno seguito la stessa traiettoria di evoluzione nell'ultimo mezzo secolo. Non si può parlare genericamente della forma dello Stato-nazione, e non vedere, concretamente, dell'enorme differenza tra lo Stato nordamericano, da un lato, gli Stati europei occidentali, da un altro, e gli Stati dei paesi ex-comunisti, da un altro ancora [5]. Il primo, gli USA, ha mantenuto in pieno la sovranità monetaria e militare, cioè l'aspetto che secondo i teorici del declino irreversibile degli Stati sarebbe in via di disparizione ovunque. I secondi ne hanno perso in grande misura, ma nel quadro di un progetto di integrazione economica (la UE) concepito per meglio competere nel contesto internazionale. I terzi sono Stati disperatamente in cerca del modo per inserire i propri blocchi dominanti nel sistema di potere mondiale e di far crescere i propri mercati interni.
Nemmeno si può considerare uno Stato-nazione come un blocco monolitico, senza considerarne le contraddizioni sociali, strutturali, e tra le varie frazioni in esso dominanti. Vi è chi ha parlato, a ragione, dello Stato come di uno 'spazio politico' in cui si formano apparati e gruppi di potere in conflitto tra loro [6], in un contesto dinamico, il che è ben diverso da concezioni rigide e semplicistiche, secondo le quali, ad esempio, lo Stato altro non sarebbe se non un 'comitato d'affari' al servizio dei maggiori imprenditori, oppure, all'opposto, il 'garante' dell'interesse generale.

I comunitaristi non sono certo 'statalisti'. La stessa idea di comunità nell'accezione datale in particolare da Costanzo Preve [7], in senso non 'interclassista' né 'organico', si oppone a ogni concezione statalista. Questo tuttavia non significa sostenere la necessità di 'farla finita con lo Stato'; piuttosto, si tratta di ridefinire la statualità in un senso compatibile con un socialismo radicalmente rinnovato, e lontano da tentazioni nostalgiche (del comunismo storico novecentesco) o 'futuristiche' (come le baggianate sulle 'moltitudini biopolitiche desideranti' et similia). Nel contesto geopolitico attuale, lottare indiscriminatamente contro tutti gli Stati significa cadere in contraddizione con una coerente strategia antimperialista. Per fare un esempio concreto, l'operato di Chavez in Venezuela rappresenta un esempio di politica (almeno in parte) 'indipendentista' rispetto alle mire di dominio nordamericane, sia in senso economico che politico/culturale. Lo Stato-nazione venezuelano va difeso contro i tentativi di indebolirlo o di piegarlo alle volontà dello Stato dominante statunitense. In Europa, movimenti nazionalitari come quello basco o corso hanno il diritto di lottare per un proprio Stato-nazione, ed eventualmente solo dopo averlo ottenuto possono discutere se 'entrare in Europa' (dove sono già, a tutti gli effetti, da un realistico punto di vista storico/culturale).
Da un punto di vista storico, le lotte per coniugare la liberazione nazionale al mutamento sociale in senso democratico/egalitario/anticapitalista si sono sempre rifatte a un modello di Stato ben diverso rispetto a quello liberalborghese. In Italia, nel periodo risorgimentale, Carlo Pisacane (1818-1857) ha rappresentato forse l'elemento individuale più vicino alle tematiche nazionalitarie: concezione socialista e lotta per l'indipendenza nazionale si univano nel pensiero e nell'azione del rivoluzionario napoletano [8]. Di certo, lo Stato auspicabile da parte di chi si batte per dei rapporti sociali egalitari e per un'economia partecipativa anticapitalista non può essere una riproduzione di quello storicamente decisivo per l'affermazione delle democrazie 'borghesi'. In questo senso, non si può essere sostenitori dello Stato-nazione. Ma se quest'ultimo viene ridefinito in senso nazionalitario e post-liberale, allora la situazione cambia radicalmente. L'avversario principale dei nazionalitari diventa quindi chi promuove la formazione di enormi 'sovra-stati' o organizzazioni politico/militari ed economiche i cui 'decisori' fondamentali non traggono alcuna legittimazione dal popolo né sono sottoposti ad alcun controllo effettivo sul loro operato. Organismi come la Commissione europea, o come la NATO, o come il WTO non possono che impedire l'autodeterminazione reale di un popolo. La cooperazione internazionale va dunque ripensata profondamente, a partire dalla libertà e dall'indipendenza di popoli concretamente esistenti. Ciò è in netta contraddizione con la metodologia di chi pensa di costruire, come primo passo, delle enormi aggregazioni multi-nazionali per poi domandarsi, solo in seguito, sul loro funzionamento democratico (sul piano politico ma anche economico). Questo secondo approccio, in realtà, è basato -- ideologicamente -- su una concezione di democrazia perfettamente compatibile con il dominio capitalista: il suo fondamento è il 'plebiscito' elettorale come mezzo per legittimare il dominio oligarchico delle élites imprenditorial-finanziarie, partitico-burocratiche e militar-industriali (cioè il modello USamericano).
Appare perciò piuttosto evidente che gli obiettivi politici e culturali comunitaristi non possono non entrare in contraddizione con tutti i sostenitori di un 'super-stato' europeo, sebbene alcuni di questi siano -- in buona fede -- antimperialisti.
E' più complicato, invece, il discorso sulla proposta politica di origine gollista di una cooperazione rafforzata in campo militare e strategico tra Stati europei che mantengono la loro autonomia e specificità. Lo scopo di tale progetto 'inter-governativo' e confederale può in effetti essere anche quello di favorire la 'competitività' del 'sistema-paese' francese, tedesco, italiano etc. nell'agone mondiale, riequilibrando almeno in parte i rapporti di forza con gli USA per fini capitalistici e imperialistici. E' vero anche, tuttavia, che tale progetto potrebbe oggettivamente favorire due 'epifenomeni':

(a) Una maggiore conflittualità inter-statale tra europei e statunitensi, e quindi delle nuove linee di frattura e di crisi tra i blocchi dominanti mondiali; e
(b) una rinnovata coscienza nazionale all'interno dei paesi europei, e soprattutto una rivalorizzazione dell'autonomia che potrebbe coniugarsi a richieste e lotte di stampo propriamente sociale e anticapitalistico

In definitiva, un conto è lottare per obiettivi sociali in un contesto di federalismo europeo improntato a criteri tecnocratici e liberisti, un altro è farlo in un contesto più 'pluralistico' di Stati nazionali che mantengono una propria (relativa) autonomia.
Il secondo scenario è certamente più propizio per le lotte sociali e politiche di giustizia sociale, di riequilibrio ambientale e di valorizzazione della specificità culturale che strutturano il Progetto comunitarista.

Sia chiaro, per terminare, che il nazionalitarismo qui proposto è del tutto refrattario a logiche 'autarchiche' e 'isolazioniste'. I comunitaristi si pongono in continuità con la migliore tradizione internazionalista, ma lo fanno dando valore all'indipendenza nazionale e alla cooperazione volontaria tra gruppi umani e sociali di eguali diritti e valore ma differenti per storia, cultura, tradizioni [9]. Quindi, metodologicamente, la libertà e l'autodeterminazione di un popolo vengono prima della sua adesione volontaria a qualsiasi organizzazione internazionale. Altrimenti, vi sarà solo il trionfo di auto-legittimatesi oligarchie economico/politiche spacciato per 'democrazia'.
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note
[1] A. Marc, Europa e federalismo integrale, trad.it. Milano 1996
[2] Cfr. ad esempio B. Olivi, L'Europa difficile, Bologna 1993
[3] E' infatti di embrione che si deve parlare, non esistendo in Europa un tale apparato nel senso proprio del termine, come invece esiste negli USA.
[4] John Hulsman, Cogli la ciliegina. L'America usa la debolezza europea, in 'Limes', 1/2003, pp. 141 e segg.
[5] Cfr. ad esemprio G. Pala, Stati disgreganti e Stati disgregati, 'La Contraddizione',
http://www.contraddizione.it
[6] G. La Grassa, Fuori della corrente. Decostruzione-ricostruzione di una teoria critica del capitalismo, Milano 2002.
[7] Cfr. 'Comunitarismo', ottobre 2002 e marzo 2003
[8] Cfr. ad esempio M. Salvadori, Storia moderna, Milano 1989
[9] Cfr. C. Preve, Geopolitica, comunitarismo, identità europea e questione nazionale, in 'Indipendenza', 13, gennaio 2003




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