VARESE L’accusa: il traffico passava anche per il bar del giovane ucciso dagli albanesi a Besano
Spacciavano in curva: presi 32 ultras della droga
VARESE - Ultras allo stadio, affezionati a simboli della destra xenofoba ma alleati degli albanesi nello spaccio di droga. C'è molto più di un fitto traffico di stupefacenti nell'inchiesta portata a termine dalla procura di Varese e dalla polizia: gli inquirenti hanno messo a soqquadro gli stessi ambienti che in giugno si erano impadroniti della città all'indomani dell'assassinio del barista di Besano Claudio Meggiorin, reclamando più ordine e legalità. Il nome della vittima del delitto e il suo locale compaiono nell’inchiesta, anche se la morte di Claudio non è in relazione con questa indagine. Addolorata la replica della madre di Meggiorin, Elisabetta: «Se la prendono con un ragazzo che non può più difendersi. Che colpe può aver avuto Claudio che ha preso in gestione il bar di Besano solo tre mesi prima di essere ucciso?». In totale l'ordinanza del gip Ottavio D'Agostino ha portato in carcere 32 persone, una cinquantina gli altri indagati. Controllati per un anno dalla «mobile», gli indagati facevano la spola tra l'hinterland milanese e numerosi comuni del Varesotto per rifornirsi di cocaina, ecstasy e marijuana. Registi del traffico sono ritenuti Vittorio Montemagno e Giancarlo Cattaneo, poco più che ventenni, cranio rasato e frequentatori della curva dello stadio varesino. Ma pure il «Meazza» di Milano, parcheggi sparsi per la provincia e persino un oratorio erano luoghi per spacciare.
«Era un traffico quotidiano e unica fonte di guadagno per quasi tutti gli arrestati», sottolinea il pm Tiziano Masini. Gli inquirenti si limitano ad aggiungere che alcuni indagati erano «amici o conoscenti» di Claudio Meggiorin. Un passo dell'ordinanza fa invece riferimento esplicito a contatti tra il barista ucciso e Montemagno, che accompagnava spesso a Milano per l'acquisto di droga. Ma - secondo l’accusa - da quando Claudio aveva assunto la gestione del bar erano gli altri a raggiungerlo e a usare il locale come «base» per lo spaccio. «In un bar entra di tutto - protesta la madre del ragazzo ucciso - e non vedo come mio figlio avrebbe potuto controllare ogni cosa. Ogni pretesto vale per infangare la memoria di Claudio».
Claudio Del Frate
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