Presentato "Il fantasma di Corleone" di Amenta, dal 31 marzo nelle sale
Tra documentario e fiction, quarant'anni di mafia, sangue e politica

Ritratto (in nero) di Provenzano
E il mistero del boss diventa film

Un latitante, tanti dubbi sul perché è ancora libero. E Caselli attacca
"Su casi come quello Andreotti la verità giudiziaria è stata ribaltata"

di CLAUDIA MORGOGLIONE


L'identikit di Provenzano
ROMA - Un personaggio da romanzo, Bernardo Provenzano lo è da sempre: latitante da 42 anni, capo incontrastato di Cosa Nostra, nessuna fotografia (le uniche esistenti sono antichissime), una vita trascorsa spostandosi di casolare in casolare, mai una conversazione al telefono o al cellulare, solo biglietti di carta affidati ai suoi fedelissimi. La novità è che adesso il boss dei boss diventa anche un eroe - negativo - da grande schermo: è lui, infatti, il protagonista incontrastato del Fantasma di Corleone, diretto dal palermitano Marco Amenta, e da venerdì 31 nelle sale.

Un'opera di cosiddetta docufiction, che alterna cioè il documentario (prevalente) a scene ricostruite con attori. E con uno stile che, secondo l'autore, ricorda "la Guzzanti e Michael Moore". Il risultato è un ritratto potente del più oscuro dei padrini di mafia, con una tesi di fondo molto precisa: se finora Binnu non è stato catturato, è perché o è stato avvertito in tempo - come nelle due occasioni in cui furono presi i suoi luogotenenti, Benedetto Spera e Antonino Giuffré - o perché si è rinunciato ad andare fino in fondo.

Ma non c'è solo l'eterna lotta tra criminalità e Stato, magari con apparati deviati delle istituzioni a fare da terzo incomodo, nel film di Amenta. Che si concentra anche sul paradosso dell'uomo Provenzano: potente come nessun altro, nella storia della sua organizzazione; a capo di un giro d'affari multimiliardario; eppure costretto a risiedere spesso in casolari fatiscenti, lontano dalla sua famiglia. E, per illuminare la vita quotidiana del protagonista, la pellicola utilizza molti dei suoi pizzini, le lettere attraverso le quali comunica col resto del mondo. Biglietti come quello in cui la moglie gli manda dei calzini e gli raccomanda "di lavarli in acqua tiepida", o in cui lui la ringrazia "per le bottiglie di pomodoro e le arance". Perché dunque un uomo sceglie un'esistenza così grama? Forse perché, come viene detto tra il serio e il faceto nel film, "per un siciliano comandare è meglio che fottere".

Veniamo così all'altro aspetto, ben più inquietante, del boss: la sua capacità di guidare un esercito di cinquemila uomini, senza nemmeno dover alzare la voce. Ed ecco allora - in altre sue lettere citate nel film - consigliare a un affiliato la stretegia migliore: mai perdere la calma, approfittare sempre degli errori dell'avversario. O invitare un altro adepto a non fidarsi di un uomo vicino ai politici che gli aveva offerto appalti: potrebbe essere una trappola, avverte.
Nella pellicola, però, non c'è solo il ritratto di Binnu. Ci sono anche i suoi antagonisti, coloro che hanno tentato di stanare lui e la sua organizzazione: il procuratore antimafia Pietro Grasso - che va addirittura a Chi l'ha visto?, per mostrare a più spettatori possibile l'ultimo identikit del boss; i magistrati di Palermo Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte; e soprattutto Giuseppe Linares, capo dello Squadra mobile di Palermo, presentato dal regista come vero contraltare in positivo di Provenzano. Un uomo che confessa di fare - per esigenze di sicurezza - una vita da recluso non dissimile da quella dei latitanti che caccia. E che racconta con molta sincerità del dissidio fortissimo con i genitori: loro non gli hanno perdonato l'arresto del sindaco della città, amico di famiglia, o dei mariti di alcune compagne della madre al circolo del bridge.

Infine, nel Fantasma di Corleone, c'è - accennato, ma sempre esplosivo - il discorso sui referenti politici della mafia. Che fanno irruzione, sullo schermo, attraverso le parole di due pentiti, che citano presunti contatti tra Cosa Nostra e Forza Italia. Non sorprende, perciò, che questa mattina a Roma, alla presentazione alla stampa della pellicola, il discorso vada a finire spesso su questo scivolosissimo argomento. Ancora più spinoso, visto che siamo in piena campagna elettorale. "Non era nostra intenzione uscire nelle sale proprio alla vigilia del voto - spiega Amenta, palermitano, 36 anni, alle spalle un film sulla pentita suicida Rita Atria - il fatto è che c'è voluto tempo per cercare un distributore per i cinema. Fino a quando abbiamo trovato Gianluca Arcopinto (e la sua società Pablo, ndr). E poi questo non è un film politico, infatti non comincia né finisce con Berlusconi. E' dal 1945, che la mafia ha stretto un diabolico patto con la politica: io non potevo non parlarne". E chissà se questa parte dell'opera resterà o verrà "censurata", nella versione più breve che Raitre è interessata ad acquistare: "Vedremo, ancora non so cosa mi proporranno", glissa il regista.

E sempre su questo tema, mafia e politica, si sofferma uno dei due ospiti illustri - l'altro è don Luigi Ciotti - dell'anteprima romana: l'ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Che cita ancora una volta il processo Andreotti: "Quando si perseguono i cosiddetti imputati eccellenti - attacca - la continuità della lotta alla mafia si spezza. Tanti sono convinti in buona fede che Andreotti è stato assolto, mentre secondo una sentenza della Cassazione fino all'80 lui era un referente di Cosa Nostra. Ma questa verità giudiziaria non viene comunicata, anzi viene ribaltata... l'iimputato diventa un innocente perseguitato per dieci anni, e noi le toghe rosse".
(24 marzo 2006)