Domenico Savino
25/03/2006

Nel 1994 Berlusconi vinceva a sorpresa le elezioni politiche, sbaragliando la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto & C.
Per il Cavaliere, lungi dall’essere un trionfo, era l’inizio di un calvario, che sarebbe sfociato nell’avviso di garanzia al G8 di Napoli, poi nella caduta del suo Governo a seguito della defezione della Lega, poi nella sostituzione a palazzo Chigi col suo Ministro del Tesoro, Lamberto Dini e poi in cinque lunghi anni di opposizione.
Ricordate che l’avviso di garanzia a Berlusconi, prima di essere consegnato al destinatario, fu annunciato sul Corriere della Sera?
Non era un caso.
Poi il prezzo che i «poteri forti» poterono esigere dalle masse assatanate di sangue berlusconiano fu il via libera a quella stessa riforma delle pensioni, contro la quale, aizzate dalla sinistra movimentista e istituzionale, erano scese in piazza minacciando sfracelli.
Il nuovo governo del ribaltone, sostenuto dal presidente Scalfaro, raggiunse l’obiettivo.
Dopo che la testa del re di Arcore era stata mozzata, anche Lamberto Dini, che quella riforma aveva avviato proprio sotto il governo Berlusconi, da rospo venne trasformato se non in principe (ad impossibilia nemo tenetur!), perlomeno in uomo rispettabile ed istituzionale.
Poi anche lui dovette cedere il passo.
C’era alle viste un altro appuntamento.



Dimessosi Dini, nel febbraio 1996, dopo aver effettuato le rituali consultazioni, Scalfaro conferì l'incarico per la formazione del nuovo governo al professor Antonio Maccanico.
A Palazzo già si parlava del ministro plenipotenziario di Enrico Cuccia.
Maccanico aveva infatti acquistato meriti e onori presso il cuore dei «poteri forti» che si identificano in Mediobanca e nel capitalismo familiare italiano, in seguito alla privatizzazione dell’istituto di via Filodrammatici.
Chi lo chiamò nel 1987 alla presidenza della banca d’affari creata da Raffaele Mattioli e da suo zio Adolfo Tino fu un giovane professore dell’Università di Bologna, da poco nominato presidente dell’Iri: Romano Prodi.
In meno di un anno Maccanico riuscì a portare Mediobanca nell’orbita privata.
Successivamente, in qualità di sottosegretario alla presidenza del governo Ciampi, lo stesso Maccanico diede il via all’antipasto delle privatizzazioni, la vendita da parte dell’IRI - presieduta un’altra volta da Prodi - del Credit e della Comit.
L’incarico a Maccanico suscitò una reazione inaspettatata.
Giuseppe Dossetti, già leader della sinistra democristiana negli anni ‘50, poi tra gli ispiratori della svolta conciliare, fondatore del Centro di Documentazione di Bologna, fattosi sacerdote nel 1959, collaboratore del cardinale Lercaro di Bologna e infine fondatore della comunità monastica della Piccola Famiglia dell’Annunziata di Monteveglio, aveva riempito da oltre trent’anni coi suoi «roventi silenzi» la vita politica italiana.



Poi nel 1994 la vittoria di Berlusconi e il progetto di modifica della Costituzione, che egli considerava quasi una propria creatura, scongelarono Dossetti dall’ibernazione politica.
Oramai anziano e malato, tenne a battesimo i Comitati per la Costituzione e tornò a parlare in pubblico.
In una di queste sortite, proprio pochi giorni dopo l’incarico dato a Maccanico, dirà: «certo Maccanico è un uomo molto sperimentato, un vero esperto distillatore di ‘semplici’. Ma ho l’impressione che, abbia o non abbia successo, non sarà facile congedarlo, assiso com’è sui poteri reali e non sui poteri oggi attenuati e quasi nominalistici del Parlamento e dello stesso capo dello Stato».
Dossetti morirà alla fine di quello stesso anno.
Ancora una volta il «vecchio», come lo chiamavano devotamente i suoi, aveva visto qualcosa, ma come era spesso accaduto in tutta la sua esperienza politica ed ecclesiale, non aveva saputo ricostruire il quadro d’insieme.
Ci penseranno i fatti a chiarirlo.
Il 14 febbraio 1996, a causa del rifiuto dei «giustizialisti» di AN al «governo dell’inciucio», presentato come «governo dei migliori», Maccanico rinuncia all’incarico.
Scalfaro scioglie le camere e alle elezioni politiche del 21 aprile 1996, all’interno dell’Ulivo, guidato da Romano Prodi, nel frattempo incoronato leader dello schieramento antagonista di Berlusconi, si presentarono due liste riconducibili all’area di centro-sinistra, quella di «Rinnovamento italiano» (Dini + Patto Segni + Socialisti del SI), e quella dei «Popolari e democratici per Prodi» (PPI + Partito Repubblicano + Südtiroler Volkspartei + l’Unione democratica, un piccolo raggruppamento di area laica, costituitosi proprio attorno all’ ex ministro Antonio Maccanico).
Con buona pace di Dossetti, i suoi erano anch’essi comodamente «assisi sui poteri forti» e l’Ulivo vinse le elezioni.



Prodi forma il governo.
Durerà 876 giorni, quando il voto contrario di Rifondazione Comunista lo farà cadere.
E’ un governo di «lacrime e sangue», tutto teso a «riassestare» le finanze pubbliche per portare l’Italia nell’Europa di Maastricht, quella dei tecnocrati e delle oligarchie laiciste.
Prodi spreme l’Italia come un limone, con una finanziaria, quella del 27 settembre 1996 da 62.500 miliardi di lire, cui si aggiunge il «decretone» di fine anno con misure fiscali per oltre 4.300 miliardi di lire (eurotassa) cui seguirà il 27 marzo 1997 una manovra correttiva di 15.500 miliardi e il pacchetto Treu sull’occupazione.
E’ qui che inizia la flessibilità.
Ma, BR a parte, ora che governa Prodi, tutti zitti.
Il 28 settembre 1997 una finanziaria da 25.000 miliardi sarà il preludio di una finta crisi di governo, superata col «bluff» della legge sulle 35 ore.
Il 25 settembre di un anno dopo, il Governo approva una Finanziaria da 14.700 miliardi.
Oramai Prodi ha fatto quel che doveva fare e dopo un tira e molla di circa due mesi in novembre viene impallinato in Parlamento.
Il regista del golpe (ma lui smentirà sempre) viene ad essere indicato in D’Alema, che lo sostituisce a Palazzo Chigi.
Prodi se ne va … in Europa.



Dopo avere ben servito i poteri forti in Italia, Prodi viene premiato dai poteri forti continentali.
Non si diventa presidente dell’Unione Europea solo perché si è un «brillante» professore dell’Università di Bologna.
Bisogna avere qualche aggancio in alto, molto in alto; e Prodi ce l’ha.
Tommaso Padoa Schioppa, ad esempio, bocconiano con «master» al prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT), ex-presidente della CONSOB, ex vicepresidente della Banca Centrale Europea, per il leader dell’Unione sarebbe una sorta di «nuovo Ciampi».
Pupillo di Carlo Azeglio Ciampi quando entrambi erano in Banca d’Italia e - si dice- membro dell’Aspen Institute, della Commissione Trilaterale (organismo elitario che lega USA, Europa, Giappone) e del potentissimo gruppo Bilderberg, è sposato con Fiorella Kostoris Padoa Schioppa, di famiglia ebrea, metà italiana e metà greca, laureata alla Bocconi, poi al MIT di Boston,
con una borsa di studio della fondazione Einaudi, docente di economia e già presidente dell’ISAE, ente pubblico non governativo di ricerca legato al ministero del Tesoro.
Altro amico di Prodi è Giovanni Bazoli, famoso banchiere «cattolico», amicissimo del cardinale Carlo Maria Martini e grande azionista del «Corriere della Sera», oppure Mario Draghi, oggi presidente di Bankitalia.
Di Prodi si è a lungo parlato per via dei suoi rapporti con autentici colossi della finanza e dell’imprenditoria, come General Electric, Telesis International e Goldman Sachs o Unilever, per citarne alcuni.



Ambrose Evans-Pritchard, corrispondente del Daily Telegraph da Bruxelles, è l’uomo che ha mandato su tutte le furie Romano Prodi, quando questi era presidente dell’Unione Europea, perché con suoi articoli sulle passate vicende giudiziarie del Professore (Nomisma, privatizzazione Cirio-De Rica-Bertolli, Ase) ne ha offuscato la buona immagine che dell’ex presidente del Consiglio italiano aveva il pubblico britannico.
Gli articoli di Maurizio Blondet su questo sito chiariscono bene gli intrecci di affari e conoscenze che ruotano attorno al leader dell’Unione, né mi pare sia stata smentita la voce secondo cui la campagna elettorale di Prodi sarebbe finanziata da Linda Costamagna, moglie di Claudio Costamagna, Amministratore delegato proprio della Goldman Sachs per l’Europa.
Ma non bastano i meriti e le entrature per salire in alto.
Bisogna imparare a non disturbare l’humus «culturale» che regge l’Europa di Maastricht.
Come dimostrano molte vicende, tra cui quella del ministro Buttiglione, una cosa è essenziale per fare carriera nell’Unione Europea: se si è cattolici, mai esserlo in maniera tale da mettere in discussione il laicismo di cui essa è impregnata.
Mai contro l’aborto, mai contro i matrimoni gay, mai contro l’ideologia femminista, mai contro la pianificazione familiare: «io sono un cattolico adulto e vado a votare» - si vantò Romano Prodi rispondendo all’invito all’astensionismo al referendum sulla fecondazione assistita fatto dal segretario della CEI, cardinal Camillo Ruini.
Un messaggio inviato a chi?



Roccella Eugenia e Scaraffia Lucetta nel volume «Contro il cristianesimo – L’ONU e l’Unione Europea come nuova ideologia», spiegano efficacemente quale sia la politica e la visione dei diritti umani che prevale nei palazzi di New York e Bruxelles, che ha portato i diritti umani a evolvere, dalla Dichiarazione del 1948 a oggi, in una nuova «religione laicista».
«Per affermarsi, questa visione ha ovviamente dovuto fare le sue battaglie. E la principale, dice la Scaraffia, è quella contro il cristianesimo e la Chiesa, considerate la peggiore minaccia alle basi stesse di questo pensiero unico: […] la discriminazione subita da Rocco Buttiglione nel caso della sua bocciatura a commissario UE - dice l’autrice - e l’atteggiamento distaccato assunto per l’occasione dal cattolico Romano Prodi ne sono una testimonianza».
Forse non si sa che il cattolico Romano Prodi, nel 2002 quando era Presidente dell’Unione Europea, sopperì alla decisione di Bush di ritirare i finanziamenti USA all’UNFPA erogando una somma quasi identica, 32 milioni di euro, alla stessa UNFPA e all’IPPF, due organizzazioni fortemente coinvolte in programmi di pianificazione familiare e aborti forzati.
Forse è per questo suo modo particolare di essere «cattolico» che, al contrario di Buttiglione, Prodi poteva dichiarare a La Repubblica del 1 novembre 2004: «con il pudore che è necessario nelle cose religiose, non ho mai nascosto di essere cattolico e mai mi sono sentito perseguitato».
Per forza! (1)



E’ fatto così Prodi: zitto, asettico, furbo, mai coinvolto all’interno delle battaglie per i valori e per le identità.
Si parla di fecondazione artificiale, eugenetica, eutanasia, clonazione, e quant’altro?
Lui glissa: «connesse con questo ampliamento del campo della scienza vi sono enormi speranze che riguardano il prolungamento della vita umana e il miglioramento della sua qualità, ma anche enormi preoccupazioni soprattutto sulle implicazioni a lungo termine delle nuove conoscenze scientifiche».
Si parla di radici cristiane?
Lui si compiace: si può ben dire che l’omissione «in qualche modo è stato un ulteriore contributo del cristianesimo alla costruzione dello Stato moderno». (2)
Furbo soltanto?
No, c’è del metodo dietro, c’è una scuola.
Prodi ha due sorelle e sei fratelli; nell’estate 2005 «il parlamento dell’Unione Europea ha approvato con 360 voti a favore, 272 contrari e 20 astenuti una ‘Risoluzione sulla protezione delle minoranze e le politiche contro la discriminazione’. In essa, la libertà religiosa è indicata come una potenziale minaccia contro la ‘libera circolazione’ nell’Unione Europea delle coppie omosessuali sposate o legalmente riconosciute».
A favore della risoluzione ha votato anche il deputato Vittorio Prodi, fratello di Romano Prodi. (3)
Un altro fratello, Paolo, fu tra i firmatari il 15 maggio 1989 del «Documento dei sessantatre», la cosiddetta «Lettera ai cristiani» in appoggio alla Dichiarazione di Colonia, firmata da numerosi ed influenti teologi tedeschi, olandesi, svizzeri e austriaci, fortemente critico verso il pontificato di Giovanni Paolo II per l’appoggio da lui dato alla benemerita opera di monsignor Carlo Caffarra in materia di etica sessuale.



Il «Documento dei sessantatre» tende ad ignorare o ridimensionare l’autorità del Pontefice, partendo dal «mito del Vaticano II», definito «svolta», radicale e irreversibile, nella «comprensione della fede ecclesiale».
Secondo costoro il deposito della fede custodito dalla sede apostolica non avrebbe valore in sè, nè valore assoluto, ma piuttosto lo otterrebbe per la sua «connotazione pastorale», la sola che renderebbe possibile «l’interpretazione fedele della verità dentro l’esistenza storica della comunità»; la funzione magisteriale del primato petrino non escluderebbe la «varietà dei modi di intendere e di vivere la fede che lo Spirito suscita nelle diverse comunità»; non si dovrebbe parlare di infallibilità del Magistero, anche di quello ordinario universale, ma della sua funzione «pastorale»; sarebbe certamente necessario approfondire la liceità dei pronunciamenti del magistero in materia di etica.
Tra i firmatari dell’atto di ribellione alla Chiesa cattolica, la scuola bolognese è presente al gran completo: vi figurano Giuseppe Alberigo (Università di Bologna), Giuseppe Battelli (Istituto per le Scienze Religiose di Bologna), Ezio Bianchi (Comunità di Bose), Mario Degli Innocenti (Istituto per le Scienze Religiose di Bologna), Severino Dianich (Studio Teologico Fiorentino), Alberto Melloni (Istituto per le Scienze Religiose di Bologna), Massimo Toschi (Lucca) e dulcis in fundo appunto Paolo Prodi (Università di Bologna).
Oltre a questi, per esempio, Dario Antiseri (Università LUISS di Roma), autore - tanto per capirsi - del volume «Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano». (4)



Il «Documento dei sessantatre» è l’ennesima esplosione di rivolta, iniziata tanti anni prima, all’indomani del Concilio, col pontificato di Montini: «una parte della cultura cattolica si sente ‘tradita da Montini’».
Proprio Paolo VI infatti aveva messo fine all’esperimento bolognese.
Attorno al cardinal Lercaro, si era raccolta, con Dossetti, la parte più oltranzista delle élite intellettuali (troviamo qui La Valle, Alberigo, Pedrazzi e i vari cenacoli bolognesi de Il Mulino, del Centro di documentazione, e poi L’Avvenire d’Italia e Il Regno).
Il cardinal Lercaro era uomo buono, ma forse anch’egli un po’ idealista.
Nelle sue «Lettere dal Concilio» (edizioni Dehoniane) il personaggio più citato e osannato è l’«avvocato Ortolani».
Proprio costui (che salirà poi alla leadership «ufficiale» della P2 con Gelli) diverrà il più fidato sostenitore di Lercaro, a cui procurerà pure cospicui finanziamenti per «mantenere agli studi i suoi ragazzi» di Bologna (in San Petronio c’è addirittura una statua di Manzù «dono del cavaliere Ortolani»).
Una volta cresciuti, gli intellettuali bolognesi, foraggiati dai finanziamenti del PCI (era il 1989 nda), coltiveranno l’ambizione di produrre la «primavera bolognese», ovvero l’avanguardia della sperimentazione conciliare.
Paolo VI si opporrà duramente e Lercaro si dimetterà.
Esplode qui la rottura.
La delusione di Paolo VI toccherà poi il colmo dell'amarezza con la vicenda del referendum sul divorzio, quando la gran parte delle élite intellettuali, che tanti anni prima aveva cresciuto come un padre, decide per la pubblica disobbedienza alla Chiesa.
Sarà una ferita insanabile.
Paolo VI, acutissimamente, denuncerà «il crollo della fede in Italia». (5)



Riletto oggi, quel documento acquista una grandissima rilevanza, perché, come scrisse Il Sabato nel lontano 1989 «appare sempre più chiaro che nel mirino dei teologi c’è il cardinale bavarese che da sette anni presiede la Congregazione per la dottrina della fede. Non si fanno nomi, ovviamente, perché gli emuli nostrani dei ‘ribelli di Colonia’ danno prova di aver assimilato in fretta tono, linguaggio e metodi di azione di quel mondo curiale che tanto biasimano. Ma è chiaro che se un obbiettivo concreto essi sperano di realizzare con la loro iniziativa è proprio quello di dividere il cardinal Ratzinger dal Papa». (6)
Peccato per loro che oggi Ratzinger sia il Papa.
In ogni caso da allora costoro rappresenteranno se stessi come l’avanguardia della Chiesa e saranno l’anima di quel processo di contestazione e contaminazione della fede, che rende oggi vaste frange della Chiesa portatrici di eresia.
Da molti di costoro, che avevano vissuto il postconcilio come il trionfo del dubbio sulla fede, nascono quelle matrici culturali, che porteranno all’interno dell’Azione Cattolica l’opzione per «la scelta religiosa» determinandone il collasso.
In molti di costoro è presente una spiritualità che li induce a vivere la dissoluzione del cattolicesimo come una purificazione.
Ma puri non sono affatto.



Politicamente stanno a sinistra, per lo più senza appartenervi organicamente, anche se le eccezioni non mancano, come Raniero La Valle che, per esempio, sarà eletto nelle liste della Sinistra indipendente.
Sono gli anni del compromesso storico e, mentre rivendicano l’autonomia della loro scelta politica, abilmente flirtano con vasti settori della sinistra democristiana.
Culturalmente la scelta di appoggiare il divorzio, contro le indicazioni e gli appelli disperati di Paolo VI (che sprezzantemente essi ribattezzano Paolo Mesto) li avvicinano a quella cultura laicista, che, erede del Partito d’Azione, ha già allora Pannella come fromboliere e Il Corriere della Sera come organo ufficiale.
Essi sono la spina nel fianco del traballante mondo cattolico e, mentre ecclesialmente sono i portatori dell’ideologia conciliare contro la tradizione cattolica, politicamente agitano lo spauracchio di fondare il secondo partito cattolico in contrapposizione alla DC: «il 28 luglio ‘75, al Convegno riservato al collegio Marymount, padre Sorge aveva parlato apertamente di ‘secondo partito di ispirazione cristiana su scala nazionale’. Il 5 novembre ‘75 all’Hotel Midas, a Roma, veniva fondata la Lega democratica (con Scoppola, Paolo e Romano Prodi, Bassetti, Storti...) ed anche qui si parlerà del possibile secondo partito: Andreatta arriverà a quantificarlo in circa 4 milioni e mezzo di voti». (7)



L’altra grande tragedia per il cattolicesimo italiano, la sconfitta nel referendum sull’aborto, li vedrà brillare per la loro assenza.
Il mondo politico cattolico è allo sbando e nel novembre dell’ ‘81 verrà convocata l’assemblea degli esterni.
Più di un quarto sono della Lega democratica di Scoppola, Prodi & C.
Sarà il prologo dell’elezione a segretario di Ciriaco De Mita, colui che tenterà di recidere le radici popolane e popolari della DC per farne una sorta di partito repubblicano di massa.
«Con la sua elezione, pochi mesi dopo, sciamano verso piazza del Gesù proprio quelle élite intellettuali che per anni hanno predicato e praticato la diaspora e l’idea del secondo partito cattolico. Saranno loro i più accaniti guardiani dell’unità politica dei cattolici in funzione di supporto a De Mita. E i più disinvolti procacciatori di potere per le loro menti illuminate» (8).
La borghesia laicista è entusiasta: Agnelli definì De Mita intellettuale della Magna Grecia ed Eugenio Scalfari disse a Panorama: «De Mita non fa mistero di avere fra i suoi libri di capezzale autori laici, liberali. Naturalmente ha una sua fede religiosa, ma quello è un fatto privato. Per noi non ha nessun rilievo».
Per tracciare un suo autoritratto, De Mita si identificò nel suo padre-maestro, don Giuseppe Passaro: «Non ero del tutto sicuro che credesse in Dio, ma certo era un umanista e attraverso di lui compresi il potere grandioso dell’intelligenza ben coltivata».
De Mita chiamò attorno a sé tutta la covata dei ribelli: uno spettro di posizioni politiche che va da Scoppola a Sorge, da Andreatta ai Prodi, da Elia a Bolgiani e Rosati, dalla Sinistra indipendente alla destra tecnocratica, ma tutti con la stessa storica pretesa di usare il mondo cattolico, ormai sempre più vuoto, come trampolino di lancio delle proprie mire (potere accademico, poltrone nel parastato, IRI, STET, RAI, potere sui mass media...). (9)
Poi De Mita cadde, loro persero il potere e il mito dell’unità politica dei cattolici andò di nuovo in soffitta.
In pochi accettarono di sporcarsi le mani per la vecchia DC: «si dice che alle Europee dello scorso giugno Romano Prodi, per anni potente presidente dell’IRIper conto della DC, abbia rifiutato di candidarsi, dicendo che il futuro lo chiama a Mosca. Ha una società, la Nomisma, che sta già lavorando per conto di Gorbacev... Qualche altro professore ed ecclesiastico ha ricominciato a parlare di secondo partito cattolico, altri strizzano l’occhio ad Occhetto».



Quel progetto politico progressista, tecnocratico e laicista, che relega la fede nella sfera della coscienza privata, così caro a Scalfari ieri, come a Paolo Mieli oggi è ancora vivo ed ha gli stessi interpreti e gli stessi sostenitori di ieri.
La faccia rispettabile del «professore» è quella più adatta per portare a termine la liquidazione dell’identità cattolica, a partire da quella pure debolissima presente nel centro-sinistra.
Prodi è il continuatore dell’opera iniziata da De Mita.
I Democratici che lui fondò nel 1999, come strumento per favorire la nascita in Italia, nel contesto dell’Ulivo, di un unico soggetto di partito riformatore, con un esplicito richiamo al modello bipolare presente negli Stati Uniti e al loro Partito Democratico, altro non furono che il primo stadio di quel progetto.
La prima vittima di quell’operazione fu ciò che rimaneva del Partito Popolare e della sua identità cattolico-democratica e sociale.
L’esperienza dei Democratici vide confluire in quell’effimero contenitore «Centocittà», (movimento di sindaci ulivisti, quali Massimo Cacciari, Enzo Bianco e Francesco Rutelli), l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, La Rete di Leoluca Orlando e, dulcis in fundo, l’Unione democratica di Antonio Maccanico.
Ancora una volta - con buona pace dell’anima di Dossetti - i poteri forti stavano con Prodi.
I Democratici furono risucchiati nell’ambigua identità della Margherita e, nonostante le iniziali resistenze del vecchio cattosociale Franco Marini, ex leader della CISL, ciò che restava del vecchio Partito Popolare fu disintegrato.
Nella stessa logica va vista la nascita dell’Ulivo prima, la GAD poi, l’Unione oggi e, in futuro, quello che è l’obiettivo vero di Prodi: il Partito Democratico, capace di azzerare in un unico soggetto politico ciò che resta dei due partiti-chiesa. DC e PCI



Dicevamo che quel progetto politico progressista, tecnocratico e laicista ha gli stessi interpreti e gli stessi sostenitori di ieri.
Ed anche gli stessi avversari.
Lo scorso dicembre al convegno organizzato dagli ulivisti della Margherita all’hotel Radisson di Roma «scorre sugli schermi l’immagine di Papa Ratzinger. e una parte della platea fischia. […] Certo, non una protesta clamorosa, né una salva di fischi, ma una reazione che comunque non ci si aspetterebbe a un convegno della Margherita. […] Romano Prodi, impassibile, fa finta di niente». (10)
E dunque non stupisce che, a qualche settimana dal voto, l’organo ufficiale di quelle stesse oligarchie imprenditoriali, politiche e finanziarie, cioè Il Corriere della Sera abbia dettato la linea. Votare Prodi. (11)
Ma attenzione, perché nell’editoriale di Paolo Mieli, ex Lotta Continua, c’è di più: c’è la direzione del futuro.
Plauso a «Francesco Rutelli, che ha saputo trasformare una formazione di ex DC e gruppi vari di provenienza laica e centrista in un moderno partito liberaldemocratico nel quale la presenza cattolica è tutelata».
Ha commentato Sandro Magister: «quasi fosse una specie da proteggere, a patto che resti docile e muta».
Forse - aggiungiamo noi - al direttore ebreo de Il Corriere viene la tentazione di potere un giorno ribaltare la «segregazione amichevole» (11).



Ma plauso pure per Fassino, per Pannella e Boselli e perfino per Bertinotti, «il quale per tempo ha fatto approdare i suoi alle sponde della nonviolenza e ha impegnato la propria parte politica in una nitida scelta al tempo della battaglia sulle scalate bancarie (ed editoriali) del 2005».
E’ tutto uno sbaciucchiamento.
Aveva detto Mieli: «se cambia l’azionariato in RCS me ne vado».
E Panorama commentava «ha rifatto due volte il più grande giornale italiano. E ha mutato pelle anche lui: da direttore ascoltato da Agnelli e Cuccia a fine mediatore di una compagine di soci litigiosi. Di cui ora è garante, anche se i suoi assetti da un momento all’altro potrebbero cambiare». (12)
E infatti fu quando qualcuno l’estate scorsa tentò la scalata che successe tutto lo scandalo che ha travolto Fazio, Bankitalia, Fiorani e Consorte.
Sempre Panorama, parlando di Bazoli, il banchiere amico di Prodi, commentava: «da 24 anni è anche lo snodo del sistema di potere che ruota intorno a Il Corriere e alle Generali.
Ora sul quotidiano di via Solferino si appresta a giocare l’ultima battaglia che, in caso di sconfitta dell’Ulivo’ potrebbe costargli molto cara». (13)
Ecco dove stanno i poteri forti ed ecco quali interessi tutelano!



Ma non basta.
Paolo Mieli dà indicazioni bipartisan e auspica «una crescita nel centrodestra dei partiti guidati da Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini».
Adesso capite perché Fini ostenta la kippà, vuole dare il voto agli extracomunitari, perché allo stesso modo di Prodi sul referendum per la procreazione assistita è andato a votare, perché più di Prodi ha votato pure due sì e di recente ha pure ammesso di essersi fatto le canne?
E capite che uno come Casini (anche lui ha confessato di avere fumato uno spinello), divorziato e risposato non potrà mai farsi banditore vero di alcun valore autenticamente cattolico, ma al massimo «umanista»?
Massimo D’Alema, vecchia volpe, chiosava qualche giorno fa l’articolo di Mieli in un’intervista al Il Messaggero: «è nell’interesse del Paese che ci sia una destra nuova, non populista e non berlusconiana. La vittoria dell’Ulivo può aprire la strada perché a destra nasca un ‘Ulivo di centrodestra’, un ‘Ulivo moderato’».
Questi sono gli uomini - per usare ironicamente e amaramente proprio le parole di Dossetti - «assisi sui poteri forti, i veri esperti distillatori dei ‘semplici’».
Chi non ci sta, nel Centrodestra ha una certa scelta: può votare Berlusconi, Lega, Alternativa sociale, etc. (non Alleanza nazionale, partito garante dei «poteri forti»).
Ma vi rendete conto che nel Centrosinistra non rimane che Mastella?
O tempora, o mores!



Domenico Savino




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Note
1) Corriere della Sera, 6/6/2005 «Quei valori laici che offuscano i diritti dell'uomo», Danilo Taino; Roccella Eugenia e Scaraffia Lucetta, «Contro il cristianesimo - L’ONU e l’Unione Europea come nuova ideologia», Piemme, pagine 84 e 142.
2) Romano Prodi-Flavia Franzoni «Insieme», San Paolo, citato in Francesco Agnoli, Il Foglio del 19 gennaio 2006.
3) http://www.chiesa.espressonline.it/d...o.jsp?id=35724.
4) Dario Antiseri, «Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano», Rubbettino, 2004. Fateci caso, ma costoro sono spesso ospiti fissi della trasmissione di Gad Lerner «L’Infedele», in onda su La7, quando l’argomento della trasmissione riguarda temi religiosi.
5) Antonio Socci - «La caduta dei professori dittatori» (sinistra demitiana e dossettiana)tratto da Il Sabato, 19.8.1989, numero 33, pagine 52-59.
6) «I contestatori di centro», editoriale tratto da Il Sabato, numero 21 del 05/05/1988, pagina 97.
7) Antonio Socci, citato.
8) Antonio Socci, citato.
9) Maria Teresa Meli, «Fischi e brusio per Ratzinger», Il Corriere della Sera, 18 dicembre 2005.
10) Paolo Mieli, «La scelta del 9 aprile Centrosinistra e centrodestra al voto», Il Corriere della Sera, 8 marzo 2006
11) Il termine è volutamente e provocatoriamente tratto dal libro di Ruggero Taradel e Barbara Raggi, «La segregazione amichevole». «La Civiltà Cattolica e la questione ebraica 1850-1945», Roma, Editori Riuniti, 2000.
12) Panorama, 26/5/2005, http://www.panorama.it/italia/cronac...-A020001029358
13) Panorama, 26/5/2005, http://www.panorama.it/economia/fina...-A020001029233




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