La realtà e la propaganda sul fisco
Bot dei poveri e bot dei ricchi

di Francesco Giavazzi

Una modifica del modo in cui sono tassati i rendimenti di azioni e obbligazioni è senza dubbio opportuna. D’altronde lo stesso Berlusconi aveva chiesto al Parlamento una delega (legge n. 80 del 2003) per «armonizzare l’imposizione su tutti i redditi di natura finanziaria». L’attuale regime fiscale infatti favorisce i ricchi a scapito dei poveri e chi possiede per lo più titoli di Stato, rispetto alle imprese. Il 10% più ricco delle famiglie possiede il 40% di tutte le attività finanziarie; il 10% più povero l’1,2%. Quando lo Stato tassa i cittadini più poveri per pagare gli interessi sul debito pubblico preleva il 23% (l’aliquota minima sui redditi da lavoro) e lo trasferisce per lo più ai ricchi, i quali, sugli interessi che percepiscono, pagano solo il 12,5%.
Quest’aliquota favorisce i titoli di Stato anche rispetto al reddito d’impresa che paga il 36% senza contare l’Irap. L’aliquota del 12,5% si applica anche alle stock options che in molte società costituiscono una quota sempre più rilevante del compenso dei dirigenti. Una banca che ha troppi dipendenti, ad esempio, fa benissimo a retribuire il suo capo del personale con stock options milionarie: se costui riesce a ridurre il numero dei dipendenti, le azioni della banca saliranno, e nulla funziona meglio di questi incentivi. Ciò che è iniquo è che il dipendente prepensionato paghi, sulla sua pensione, il 23%, mentre il dirigente che lo ha mandato a casa solo il 12,5%. La modifica del regime fiscale dovrebbe riguardare tutti i titoli, non solo quelli di nuova emissione.
Titoli identici ma con diversa tassazione segmenterebbero il mercato e ne ridurrebbero la liquidità, che è un fattore cruciale per la trasparenza dei prezzi. L’aumento dell’imposta sui titoli di Stato già posseduti ne ridurrebbe i rendimenti, ma non il prezzo: cioè una famiglia che possiede un Btp (direttamente o attraverso un fondo comune di investimento) riceverebbe una cedola un po’ più bassa, ma il valore di mercato del titolo non cambierebbe. Infatti la gran parte dei titoli pubblici è detenuta da investitori istituzionali che non pagano la ritenuta: sono costoro a determinare i prezzi. Certo, la famiglia vedrebbe decurtate le sue cedole, una perdita in parte compensata dalla riduzione del prelievo sui conti correnti bancari.
Maria Cecilia Guerra (Il Sole 24 Ore, 24 marzo) ha calcolato l’effetto di un’aliquota unica al 20% per famiglie con diversi redditi netti. Una famiglia con un reddito netto di 20 mila euro l’anno subirebbe una perdita (minori interessi sui titoli, in parte compensati dal minor prelievo sui depositi) di 25 euro l’anno circa; l’effetto per una famiglia con un reddito netto di 79 mila euro è di 456 euro l’anno. I risparmiatori non devono quindi temere una modifica del regime di tassazione: gli effetti sul reddito sono modesti e quelli sul valore dei titoli di Stato pressoché nulli. Se mai dovremmo temere gli effetti — questi sì equivalenti a una patrimoniale — di un governo che non fosse capace di fermare la crescita del debito pubblico. I mercati e le agenzie di rating hanno dichiarato una tregua sino a giugno, quando il nuovo governo presenterà il suo primo Documento di programmazione economica (Dpef). Se non fosse convincente, il premio al rischio sui titoli italiani salirebbe, cioè il loro prezzo di mercato scenderebbe.
Chi ci può far pagare una patrimoniale è un governo che non riuscisse a fermare la crescita del debito, non un governo che rendesse meno inique le aliquote.
27 marzo 2006


da www.corriere.it