Maurizio Blondet
27/03/2006
La zona termale di Beppu, oggi famosa in tutto il mondo
Nel 1979, quando Morihiko Hiramatsu ne diventò governatore, la provincia di Oita nel Giappone occidentale era una zona rurale che si stava spopolando, in stagnazione economica e dipendente dai sussidi del governo centrale. Hiramatsu ebbe un'idea: incoraggiò i contadini a identificare almeno uno dei loro prodotti locali con l'ambizione di farne dei prodotti famosi in un vasto mercato.
Quanto a lui, avrebbe aiutato con un marketing moderno alla giapponese.
«Lavorare localmente, ma pensare globalmente», è stato il suo motto.
L'idea - nota come «one village, one product» (OVOP) - ha avuto successo.
I funghi «shiitake» di Oita coprono oggi il 28 % del mercato nipponico.
Oita è anche il solo luogo di produzione del succo di certi agrumi - kabosu - che si bevono con il distillato d'orzo della provincia, oggi entrambi marchi di rinomanza nazionale.
Ma non tutti i prodotti OVOP sono specialità alimentari.
I contadini di Beppu e Yufuin, due villaggetti, avevano nel territorio qualche fonte d'acqua minerale: oggi i due paesi sono diventati due centri termali che accolgono rispettivamente 10 e 4 milioni di turisti l'anno.
La cosa si è diffusa sul piano nazionale.
Oggi in Giappone si contano 810 «prodotti OVOP», di cui 338 sono specialità locali, 148 centri turistici o termali, 133 sono beni culturali valorizzati.
Le regioni rimesse in sesto dal metodo sono 111.
Solo nelle specialità mangerecce, il giro d'affari degli OVOP si aggira sul miliardo di euro.
Nel 1994 si tenne ad Oita un vertice sugli scambi regionali, dove responsabili di altri Paesi asiatici arrivarono ad apprendere e a vedere da vicino la metodologia «one village one product»; si discusse come sviluppare le aree depresse e le loro risorse umane e del valore economico dei patrimoni ambientali salvaguardati.
Da allora, il metodo è stato introdotto in diverse parti dell'Asia.
In Thailandia il più entusiasta è il primo ministro Shinawatra,che ha lanciato un programma speciale per promuovere attività locali con la fabbricazione di specialità del luogo basate sulla cultura, la tradizione e la cultura nativa.
Un programma OVOP funziona in Cina dagli anni '90, ed ha sollevato varie comunità agricole.
I contadini di Huxian dipingono, quelli di Fengxiang hanno recuperato un antico artigianato di sculture in argilla; il tè verde di Shangluo, il kiwi di Zhouzi e le melograne di Lintong sono diventate marche nazionali popolari.
Il reddito dei contadini è aumentato annualmente del 5-8 %.
L'eccesso di manodopera agricola locale, una piaga cinese, è stato assorbito in parte da attività come la preparazione delle specialità e il loro inscatolamento, marketing e ricerca.
Laos, Cambogia, Filippine e Malaysia, Indonesia e Mongolia hanno anch'essi i loro programmi OVOP.
Non sempre queste iniziative hanno successo o durata; ma in generale, i contadini, spesso fatalisti, sono incoraggiati da un fine chiaro e fattibile coi loro mezzi, e dalla dignità riacquistata dal loro lavoro e dai loro prodotti.
Il resto dipende da una guida forte ed entusiasta del progetto, con una visione ampia del mercato potenziale.
Il governatore Hiramatsu, dimessosi dopo essere stato confermato dagli elettori per sei mandati di quattro anni ciascuno, ha ricevuto il premio «Ramon Magsaysay», che in Asia è quasi l'equivalente del Nobel.
Ma c'è di più; il sistema OVOP è stato adottato dal METI, il potentissimo ministero nipponico dell'Industria e del Commercio, quello stesso che ha promosso tutte le rivoluzionarie innovazioni che costituiscono la gestione alla giapponese, dal «just-in-time» alla «qualità totale» (1); ora il METI ha deciso di diffondere il sistema OVOP in Africa e nei Paesi più arretrati dell'Asia.
Il primo ministro Koizumi ha incontrato a questo scopo i rappresentanti di una quarantina di Paesi a sottosviluppo estremo (ldc, o least developed countries) a dicembre, a margine della conferenza del WTO ad Hong Kong.
Ed ha promesso loro l'invio di specialisti nei villaggi africani per identificare e selezionare i prodotti locali con un potenziale mercato internazionale, e che affiancheranno i contadini locali nello sviluppo dei prodotti; l'assistenza giapponese nel marketing internazionale; lo stanziamento di 10 miliardi di dollari in tre anni per questa specifica forma di finanziamento allo sviluppo; e - più importante - la garanzia che il Giappone comprerà quote di questi prodotti «di villaggio», siano tessili, cosmetici, cibo conservato o oggetti artigianali.
Il METI ha già aperto una fiera di 77 di questi prodotti esotici dei più poveri villaggi africani a Tokio, nel febbraio scorso.
Li riproporrà al FOODEX Japan 2006, la più grande fiera asiatica alimentare che si tiene presso Tokio.
Inoltre, i maggiori aeroporti giapponesi avranno le loro botteghe tipiche per lo smercio di questi prodotti.
E infine, per settembre, il MITI sta preparando una grande fiera che si chiamerà «Partnership per lo sviluppo della Grande Africa» (2).
Naturalmente, il Giappone pensa così anche di facilitare lo sbocco in quei Paesi per i suoi prodotti, dalle auto ai gadget elettronici.
Ma l'iniziativa è una novità non da poco, perchè lo stesso Giappone è molto protezionista quando si tratta di importare prodotti agricoli e alimentari.
Insomma, il Giappone cerca di rendere un po' meno poveri quei suoi futuri clienti.
«E' importante sviluppare le capacità di esportare dei Paesi a sottosviluppo estremo, sì che possano avere la loro equa parte dei benefici del sistema libero commerciale», ha detto Koizumi.
Maurizio Blondet
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Note
1) Nel concetto giapponese, la «qualità» si misura come «soddisfazione del cliente». E nel caso di grandi fabbriche come la Toyota, il «cliente» è il reparto che riceve i semi-lavorati o le parti meccaniche dal reparto a monte, il quale deve assicurare la soddisfazione del «cliente» a valle. Questo reparto può protestare pezzi difettosi o il cui montaggio richieda troppo lavoro, in un vivace rapporto dialettico (diremmo noi) con il «fornitore» a monte. Da qui la ricerca della qualità già ad ogni livello del processo produttivo industriale: qualità totale, appunto. Ne sono corollario il perseguimento di «scarti zero» e «difetti zero», che fanno l'eccellenza dei prodotti giapponesi mentre consentono rilevanti economie e razionalizzazioni industriali.
2) Hisane Masaki, «Japan goes shopping at the village stall», Asia Times, 24 marzo 2006.
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